Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002

Intervista. Quando scrivo il lettore non c'e`
di Nicola Adragna

Camilleri, come si trova nelle vesti del caso dopo essere stato per anni in quelle dell’emergente prima e successivamente del fenomeno?
«Meglio essere un caso che un fenomeno, termine che da noi ha un senso fuorviante: quella persona è un fenomeno, si dice di chi è un po’ sbalestrato. Per le verità non mi riconosco in nessuna categoria perché più che nelle etichette mi trovo bene nei contenuti.»
Nel convegno di Palermo ha mostrato visibile imbarazzo, lo stesso che tradiva Sciascia quando veniva pubblicamente celebrato: un atteggiamento di ritrosia, di ritegno, il pudore del successo.
«Non è vero che il successo non conti. Conta enormemente. Ma è la dimensione del successo che crea disagio. Un successo commisurato a quanto una persona fa andrebbe benissimo: quando Elvira [Sellerio, ndr] mi telefonava dicendomi "Sai Andrea, siamo riusciti a vendere quindicimila copie", io toccavo il cielo con un dito. E’ il successo smisurato che imbarazza.»
E lei è imbarazzato?
 «Molto. E anche infastidito.»
Beh, perché si difende dal pubblico.
«Io preferirei che invece di venire a chiedermi l’autografo la gente pensasse a quello che sta leggendo.»
E’ stato scritto da una sua esegeta che la sua scrittura è progressivamente cambiata con il successo.
«E’ un’opinione di chi l’ha espressa e che è falsa. Una scrittura si modifica nel corso degli anni. Pensi a Manzoni: scrive Fermo e Lucia, poi scrive due edizioni successive dei Promessi sposi modificando anche la scrittura. E’ forse il successo ad abbagliarlo? Sono considerazioni di basso conio. La scrittura si modifica perché si scrive. Il fenomeno, ti dicono i quantisti, non è osservabile perché si modifica all’atto stesso dell’osservazione. Figuriamoci allora come cambia la scrittura all’atto dello scrivere.»
Allora può essere fondata la teoria secondo cui lei ha messo alla prova il suo lettore modello educandolo alla sua scrittura? Più lui comprendeva più lei modificava la sua scrittura.
«Senta, voglio dire una cosa definitiva e voglio dirla a Stilos, perché è fondamentale dirlo a un giornale serio: non ho mai presente il lettore quando scrivo. Nella strategia della scrittura io stabilisco un confronto solo con me stesso e il lettore è un terzo escluso.»
E’ dunque contrario alla lezione dei tragici greci che scrivevano per il pubblico.
«Fermo. I tragici greci scrivevano per il teatro; scrivevano per una comunicazione diretta. Non scrivevano romanzi, ma tragedie, che veniva interpretate da attori attraverso i quali trasmettevano il loro messaggio, Il mio messaggio è invece trasmesso attraverso la pagina scritta, che è un’altra cosa.»
Nell’ultimo libro, Le parole raccontate, lei ha detto che ha lasciato il teatro per raggiunti limiti d’eta, richiedendo il teatro energia fisica. Adesso dice che la letteratura le permette di confrontarsi solo con se stesso, perché non deve rispondere a nessuno. E’ dunque stata una scelta?
«Diciamo che la letteratura mi consente di non avere mediazioni in teatro. Una tua idea deve superare il vaglio di più figure: il regista, lo scenografo, il datore di luci, il costumista, gli attori. Devi quindi cercare di conservare questa tua idea nella scrittura.»
Nella sua opera ci sono anche depositi plautini? Il modello è omologo: una tresca che crea un guazzabuglio, una serie di peripezie e infine uno scioglimento che a volte è palinodico e a volte anche moralistico.
«Probabilmente. Io ho fatto Plauto in teatro. E quando fai una cosa in teatro, dai vita e respiro a un personaggio, qualcos’altro per forza ti rimane dentro. La scrittura è un processo di automodificazione complessa, che deduce benefici anche dalla recitazione».