Verde Oggi, 3.2002
Intervista ad Andrea Camilleri
Grazie ai suoi romanzi e alla tv, milioni di persone hanno scoperto
(o riscoperto) gli umori, i sapori, la gente, il dialetto di quest’isola
meravigliosa. E anche certi luoghi (Vigàta, Marinella…) per i quali
molti si chiedono: ma esistono? E dove si trovano? Perciò questo
servizio non si limita alla grande intervista a Camilleri, che ci svela
l’amore per la terra dei suoi ricordi e il disincanto nel vederla oggi
tanto trasformata. Vi offre anche le foto dei posti che hanno "interpretato",
nella fiction televisiva, i luoghi dell’immaginazione romanzesca. In un
affascinante scambio continuo tra realtà e fantasia. [le foto
non sono state riportate, NdT]
Si siede su un divano e accende una sigaretta. Sembra ti guardi di
sbieco, attraverso il fumo. Poi, il "papà" di Montalbano comincia
a parlare con voce calma. In effetti la voce di Camilleri ti colpisce:
sembra procedere sempre sicura, come un passo cadenzato. Ogni tanto ride.
Oppure si ferma e ti osserva, come per controllare se lo segui, o se sei
d’accordo con le cose che dice.
Ogni tanto parla lui, Camilleri. Ogni tanto parla per conto di lui,
del commissario. Di Montalbano, insomma.
Ci racconta, per prima cosa, che differenza c’è tra la Sicilia
reale e quella di Montalbano?
"La differenza è che molti luoghi della Sicilia di Montalbano
in realtà non esistono più. Quelli di Montalbano non sono
luoghi dettati dalla fantasia, tutt’altro. Sono luoghi che esistevano trenta
o quarant’anni fa e che oggi non esistono più. E’ noto, per esempio,
che Montalbano abita a Marinella, in una casa che dà sulla spiaggia.
E Marinella oggi continua a chiamarsi Marinella, solo che è diventata
un agglomerato incredibile di case, dove il commissario non andrebbe mai
a vivere. Un tempo, per come la ricordo io, era una spiaggia dove erano
state costruite giusto un paio di villette in concessione demaniale. Era
un luogo dove si andava solo d’estate, oggi è un centro residenziale
dove si abita tutto l’anno. Ecco perché, quando si è trattato
di girare i filmati di Montalbano per la televisione, siamo dovuti andare
fino a Ragusa Marina, per trovare luoghi meno devastati".
E’ un elemento che spicca con molta chiarezza nei suoi libri, dove
Montalbano si abbandona a colossali arrabbiature per il cemento che cola
ovunque…
"Già; anche nell’ultimo, L’odore della notte, c’è
questa sua arrabbiatura terribile per un olivo millenario che viene abbattuto
per permettere la costruzione di un’oscena villetta. E’ una cosa molto
presente nella testa di Montalbano, per il semplice motivo che è
una cosa sempre presente in me. Io penso che nessuno può negare
la necessità di nuove costruzioni. Ma non si capisce perché
questa necessità debba venir risolta solo attraverso lo scempio".
Nei libri di Montalbano ci si trova spesso in mezzo a questa nuova
Sicilia cementificata. Poi si svolta un angolo e improvvisamente si è
immersi in un brandello della Sicilia com’era. Come se fosse una regione
molto frammentata, per lo meno nelle zone vicino alla costa…
"Si, la costa è così. All’interno qualcosa ancora si
conserva. Montalbano dice che quella è la Sicilia che ama. Quelle
montagnoline aride, coperte solo di stoppie gialle e di erba secca, di
case sbilenche. E’ un rimpianto un po’ ingenuo perché, ripeto, la
Sicilia non è più così".
Vuol dire che la Sicilia è devastata in modo irrimediabile?
"Non so se è irrimediabile. Certo è che ci sono interi
paesi nati in modo abusivo. Alcuni dicono: come è possibile abbatterli?
Camilleri e Montalbano rispondono che non si deve arrivare al punto che
un intero paese sia abusivo. E soprattutto, non si deve proseguire lungo
la strada dell’abusivismo. Per combattere il quale ogni tanto si mandano
le ruspe, ma nel frattempo tutto continua come prima. Montalbano, che ha
dei tratti estremistici, prova sconcerto per tutto questo. Vorrebbe che
ci fossero ancora luoghi in cui gli olivi millenari vengano lasciati vivere
a alla cui ombra potersi sedere in santa pace a pensare, senza essere disturbati
da nessuno. Siamo al punto che la casa di Montalbano è come la casa
di Sherlock Holmes a Londra: un luogo finto".
Ci faccia un regalo. Ci racconti com’era la Sicilia di Montalbano.
Sa, uno con la memoria e con la vecchiaia rischia di fare un’elegia.
Certo è, comunque, che al di fuori dell’agiografia la Sicilia era
una regione molto più vivibile. E non tanto per i rapporti umani,
quanto proprio per lo sviluppo edilizio. Io credo ci sia di mezzo un punto
nodale. Il mio paese si chiama Porto Empedocle. E quando io ero piccolo,
Porto Empedocle era orgoglioso di essere un paese. Di essere proprio un
piccolo centro, ordinato e pulito, con le sue casette di pescatori a un
piano, con le sue belle villette. Ora, invece, tutti i paesi si vogliono
travestire da città e così lei vede questi borghi, fatti
in maggioranza ancora di casupole basse, su cui svetta un grattacielo nano.
Una cosa ridicola rispetto ai grattacieli veri. E’ uno choc visivo. Voglio
dire che i paesi non hanno più una propria identità visiva.
Per trovarne, bisogna spostarsi verso il Ragusano. Ecco, a Ragusa ci sono
ancora zone civilissime dove si può trovare la Sicilia di una volta.
Porto Empedocle, invece, è finito. Nel dopoguerra è arrivata
un’alluvione che si è portata via le case, e hanno ricostruito il
paese più verso l‘interno. E’ stata la fine. Hanno cominciato a
edificare degli orrendi palazzi".
Com’è successo, invece che il Ragusano si sia salvato?
"Si è salvato per quello che cinquant’anni fa veniva considerato
un elemento di arretratezza, o la non volontà di inserirsi nello
sviluppo. Questo elemento di arretratezza si chiama semplicemente agricoltura.
Questo territorio oggi ha un’agricoltura stupenda, con serre fantastiche
e bellissimi allevamenti di animali. E quella che veniva chiamata arretratezza
ha generato una zona che è ricca e allo stesso tempo è riuscita
a rispettare l’identità dei luoghi. Il paesaggio, lì, è
ancora straordinario. Ci sono questi campi recintati da muretti bassi.
Sono muretti così bassi che non impediscono il passaggio, li si
scavalca facilmente, sono solo delle delimitazioni di campo fatte con pietre
bianche. E’ un paesaggio bellissimo. Nel Ragusano non c’era il latifondo,
come all’interno della Sicilia, a costituire una remora per lo sviluppo.
Qui, anche i piccoli appezzamenti venivano coltivati con cura. E poi hanno
l’acqua".
Già, nei suoi romanzi c’è questo continuo tormentone
per l’acqua che arriva ogni quattro giorni…
"Ma non si tratta del passato, è il presente. Ancora oggi tutte
le case hanno sul tetto dei cassoni per fare scorta di acqua. La mancanza
di acqua è una preoccupazione costante. Le racconto una cosa. Mia
madre, quand’era ancora viva, stava un po’ in Sicilia e un po’ a casa mia,
a Roma. Un giorno la vedo correre come una pazza verso il bagno. Le chiedo:
"Mamma che succede?" "Ho scordato il rubinetto aperto", urla. A Roma è
una stupidaggine, in Sicilia un errore imperdonabile. Ecco, lei viveva,
come tutti i siciliani, con questo tormento psicologico. In Sicilia ho
visto costruire grandissimi invasi per la raccolta dell’acqua. Ma poi,
per motivi di speculazione, questi invasi non sono serviti a nulla. C’era
troppa gente che non aveva nessun interesse a che gli invasi funzionassero.
Alcuni sindaci lottano e, alla fine ce la fanno, a far arrivare l’acqua.
Ma poi rimane sempre una situazione precaria. Prenda sempre Porto Empedocle.
Lì l’acqua c’è, ma arriva da un dissalatore e non è
buona da bere. O compri l’acqua minerale o vai a fare la scorta alle fontanelle
che buttano acqua ancora buona. Ne sono rimaste giusto un paio. E’ una
situazione che non aiuta certo il turismo. Se tutto il mondo sembra destinato
all’aridità, la Sicilia è un alfiere in questo. Le racconto
un’altra cosa. Un bel giorno, il fascismo decise di combattere il latifondo.
E nel quadro di questa politica stabilì di costruire ex novo dei
villaggi, in modo che i contadini non dovessero continuare ad alzarsi alle
tre di notte per andare a lavorare una terra lontana, a dorso di mulo.
Tutto giusto. Solo che si sono scordati proprio dell’acqua. In questi villaggi
l’acqua non c’era. Sono stati abbandonati e si sono ridotti in polvere.
Se ne è conservata una traccia visiva ne L’avventura, il
primo film di Antonioni".
Una cosa che colpisce molto della Sicilia di Montalbano è
la profonda commistione tra popolazione araba e siciliana. Questa Mazara
del Vallo che pare un pezzo di Tunisi…C’è una pagina in cui Montalbano
parla con un arabo: il commissario parla in siciliano e l’arabo in arabo.
Eppure i due si capiscono benissimo…
"Ed è così. Forse perché noi abbiamo avuto 13
dominazioni diverse. Insomma, in Sicilia può accadere di tutto,
ma è difficile che ci siano manifestazioni di intolleranza razziale.
Ed è un fatto che, quando i giovani hanno cominciato ad abbandonare
i campi perché non rendevano più tanto, l’agricoltura siciliana
è stata mandata avanti da tunisini e marocchini. Le racconto un’altra
cosa. Negli anni sessanta dovevo girare per la Rai un documentario sul
metanodotto che dal Sahara arriva in Europa. Il metanodotto passa il mare
e finisce proprio a Mazara del Vallo, dove gli arabi sono tornati da poveracci
nei luoghi dove un tempo dominavano. Arrivo in questo posto e vedo che
si sono costruiti i loro bagni, i loro bar. Mi raccontano che alla scuola
elementare il direttore didattico aveva concesso due aule a due maestri
arabi che davano lezioni ai bambini tunisini e marocchini. Vado. In effetti
c’erano queste due aule con la lavagna piene di scritte in arabo. Filmo
quello che c’è da filmare. Il direttore didattico mi dice:"Per carità,
non faccia vedere queste immagini. Queste due aule esistono solo perché
io ho dato il permesso, ma il ministero e il provveditorato non ne sanno
nulla. Se lo vengono a sapere, me le fanno chiudere". Mi propone: "Riprenda
solo i bambini arabi all’uscita dalla scuola". Io filmo l’uscita dalla
scuola. Be’, sono immagini che non ho potuto utilizzare. Era impossibile
distinguere i bambini marocchini da quelli siciliani. Capisce? Non li si
distingueva proprio".
Prima, quando parlava della Sicilia di Montalbano, lei diceva che
il rammarico è per il paesaggio, non tanto per i rapporti umani.
Com’è mutata la Sicilia, invece, da questo punto di vista? Nei suoi
romanzi appaiono piccoli squarci popolati da persone animate un senso dell’amicizia
così profondo che si intendono con un solo sguardo. Non hanno bisogno
di far ricorso alle parole. E’ ancora così?
"Si, credo che sia ancora così. Ed è un tipo di rapporto
molto particolare che riguarda non solo i siciliani in Sicilia. E’ un rapporto
che si stabilisce anche tra due siciliani che si incontrano al Circolo
polare artico. E’ proprio una forma di comunicazione non verbale, un modo
di guardarsi che dice molte cose. Anche qui credo abbiano contato le dominazioni
straniere. Il popolo doveva pur trovare un modo per comunicare i fatti
propri senza che altri ne venissero a conoscenza, no? Non si tratta di
retorica. E’ difficile che un siciliano, all’estero, non aiuti un altro
siciliano. Un lombardo aiuta un altro lombardo perché gli è
simpatico. O perché ne prova pietà. Un siciliano aiuta un
altro siciliano per il semplice motivo che è un siciliano. E’ una
cosa molto bella che, naturalmente, ha i suoi risvolti negativi. E’ una
forma di comunicazione che si traduce facilmente nell’omertà. Ma
anche qui sta cambiando tutto. Quand’ero giovane, la regola era: non vedere
e non sentire. Ora le racconto un episodio. Una ventina d’anni fa, a Porto
Empedocle, ammazzarono un povero maresciallo dei carabinieri. Si era già
verso l’estate e la cosa si svolse in una via delimitata da due di questi
due orribili palazzoni moderni. Tutta la gente era alla finestra o sui
balconi. Videro arrivare una macchina che si mise per traverso. E poi ne
videro arrivare un’altra. Tutti capirono cosa stava succedendo. I centralini
di polizia e carabinieri vennero sommersi dalle telefonate. Naturalmente
era troppo tardi, non fecero a tempo a salvare la vita di quel poveraccio,
ma fu un segnale molto forte di come stavano cambiando le cose. Sta mutando
il Dna dei siciliani. Vede, quando io avevo ancora quarant’anni era logico
che i ragazzi di un paese fossero gli avversari naturali dei ragazzi del
paese vicino. Se un ragazzo e una ragazza di due paesi diversi cominciavano
a filare era una cosa terribile, una specie di Giulietta e Romeo. Oggi
tutti i ragazzi hanno la moto o la macchina. Si muovono in tutto il territorio.
Vai qui al cinema e là in discoteca. Così è caduto
un vero e proprio tabù, per cui il tuo paese era il prolungamento
della tua famiglia, del tuo clan".
Cambiamo argomento. Montalbano è legatissimo alla cucina
siciliana. E la cucina di Montalbano è una cucina in larghissima
misura fatta di pesce. E’ un trionfo di pesci di tutte le specie, di tutti
i colori e di tutti i sapori. Domanda: è ancora così?
"Si, non si è perduta affatto. E’ difficile che lei mangi male,
in Sicilia, e questo vale sia lungo la costa, dove naturalmente è
più facile mangiare il pesce, sia all’interno. E’ una tradizione
molto forte ed è di tutte le donne di casa, non solo degli osti.
Vieni invitato in una casa e ti trovi di fronte a una scelta incredibile
di portate. Ma anche quando vieni invitato un po’ per caso, all’ultimo
momento, è difficile che in una casa siciliana mangi male. Detto
questo, devo dire che la cucina di Montalbano non è tanto una cucina
di ricette, quanto di sapori. Si mangia le triglie, e le triglie sono magari
cotte giusto alla griglia, niente di che, però sono triglie che
hanno ancora il sapore della freschezza, il sapore del mare. E questo è
indubbiamente un mio ricordo personale, di gusto. Quando ero piccolo andavo
spesso a pescare con mio padre. Lui aveva questo modo un po’ insolito di
pescare con la fiocina. Si andava di notte, con la lampara, al remo stava
un suo amico che era bravissimo a remare in modo silenzioso, per non far
scappare il pesce che si raccoglieva sotto barca, attirato dalla luce fortissima
della lampara. Mio padre stava a poppa, con questa fiocina lunghissima,
fermata al polso da una corda. La scagliava e prendeva dei pesci grossi
così. Bene, ricordo che a un certo punto si comperò il Primis,
che era un fornelletto da campeggio, alimentato con petrolio vaporizzato.
C’era uno stantuffo e bisognava alimentare la fiamma stantuffando in continuazione
il petrolio per vaporizzarlo. Si friggeva il pesce alle tre o alle quattro
del mattino, e badi bene che friggere il pesce appena pescato non è
facile, perché tende ad arrotolarsi su se stesso. Ma chi mi ridarà
il sapore di quel fritto?"
Un’ultima domanda. Lei ha avuto successo, il grande successo, tardi
nella vita, con i romanzi di Montalbano. Questo ha cambiato qualcosa nella
sua vita di famiglia?
"Mah, proprio perché è arrivata tardi, non poteva cambiare
niente, questa notorietà. Le faccio un esempio. Io ho sempre fatto
il regista sia in teatro sia in televisione e quindi ho sempre viaggiato
molto per il mondo. Ora potrei permettermi di girare il mondo come turista.
Ma questa è una cosa che mi ha sempre annoiato e continua ad annoiarmi.
Non è cambiato nulla nella mia vita o in quella di mia moglie e
di chi mi sta attorno. Cambia invece la quantità di persone che
incontri e che conosci, alle quali dare ascolto. Perché vede, quando
lei fa il regista c’è sempre di mezzo il pubblico. Ma è un
pubblico che viene nascosto nel buio di una sala. E’ un pubblico anonimo.
Ora, invece, incontri gente per la strada che non conosci e che invece
attacca discorso con la massima tranquillità. Il lettore instaura
subito un rapporto personale. Vuole sapere alcune cose tue, è pronto
a dirti le sue".
Quello che conta, vuol dire, è questa apertura verso il mondo,
più che la vanità?
"Oddio, è impossibile negare che anche la vanità a volte
fa capolino. Sarebbe disumano se non avvenisse. Però, sì,
mi riferisco proprio all’apertura verso il mondo, a questo rapporto che
si stabilisce con i lettori. E poi, certo, c’è anche il fatto che
la notorietà consente di vivere una grande tranquillità dal
punto di vista economico. Se vuoi comperarti un libro, non devi stare lì
a fare i conti per decidere se te lo puoi permettere oppure no".
Già, ma non le scoccia pensare che, se questo successo fosse
arrivato vent’anni prima, se la sarebbe goduta di più questa tranquillità
economica?
"Guardi, io appartengo a una categoria umana che non ha mai avuto un
rimpianto in vita sua. Anche perché mi ritenevo una persona fortunata
anche prima di avere successo: ho sempre fatto il lavoro che mi piaceva
e questo lavoro mi ha permesso di mantenermi decorosamente. Un’altra cosa
che non ho mai provato è stata l’invidia. Anche quando facevo il
regista e c’erano dei colleghi che avevano più successo di me, non
l’ho mai provata. Anche quando avevano dei successi strepitosi. Mi domandavo
semplicemente: "Perché loro sì e io no?".
Claudio Castellani. Collaborazione di Cristiana Cassè.