Stilos, supplemento de La
Sicilia, 28.5.2002
Io e Montalbano facciamo teatro
L'instancabile scrittore esce con una raffica di titoli: una nuova
intervista autobiografica, nuovi racconti del commissario di Vigàta,
una raccolta di lezioni sulla sua attività teatrale, un CD-ROM con
la propria voce e un altro con le proprie pièce.
E del poliziotto dice: "E` sempre più un uomo che si lecca le
ferite del nostro tempo".
Andrea Camilleri, per niente intimidito dalle critiche di chi costantemente
gli rinfaccia la sua prolificità, continua a sfornare successi:
la nuova raccolta di racconti, intitolata La paura di Montalbano
(Mondadori), ha conquistato subito la prima posizione nella classifica
dei titoli più venduti. Anche se alcuni giorni fa, sul "Corriere
della Sera", Cesare Medail, pur lodando i racconti lunghi «Ferito
a morte», «Il quarto segreto» e «Meglio lo scuro»
in cui Camilleri è riuscito a dare il meglio di sé, ha bacchettato
l’autore agrigentino per i tre «cortometraggi», a causa della
narrazione troppo contratta e dell’affresco ridotto a bozzetto. «La
vena di Camilleri ha bisogno di distendersi» scrive Medail e il racconto
breve non glielo consente, costringendolo a «uno scarto secco»,
estraneo alla sua vocazione.
«Effettivamente – confessa Camilleri – a me il genere racconto
sta un po’ stretto; non me la sento proprio di contraddire Medail. Credo
poi che la contrazione in questi racconti si avverta di più per
il fatto che essi derivino da romanzi seriali: infatti il lettore si aspetta
certi personaggi, il richiamo a situazioni e vicende precedentemente narrate.
Nei racconti, per forza di cose, spariscono alcuni personaggi ai quali
ci si è nel tempo affezionati. Lo stesso Montalbano credo che dia
il meglio nei tre romanzi brevi o racconti lunghi, come dir si voglia.»
Riguardo alla lingua, invece, è come se si avvertisse una patina
arcaicizzante. Forse perché lei viene dalla fatica de Il re di
Girgenti, dove faceva uso del dialetto agrigentino del Settecento.
«Tutto ciò è sacrosanto, e si avvertirà
anche nei racconti successivi e nelle altre cose che scriverò. Il
re di Girgenti rappresenta una vera e propria svolta nel mio processo
di invenzione linguistica. Devo fare una certa fatica per non tornare a
determinati moduli di scrittura, messi in atto nell’ultimo romanzo. C’è
ora nella mia testa, quando mi metto a scrivere, "qualcosa che stinge",
come si dice a proposito della biancheria messa in lavatrice; me ne accorgo
continuamente, ma non posso farci nulla.»
Vuole fare un bilancio delle reazioni della critica, all’uscita de
Il
re di Girgenti?
«Da alcuni il romanzo non è stato considerato per l’importanza
che aveva, non dico nel senso della storia della letteratura, ma quantomeno
nel complesso della mia produzione. Veramente Il re di Girgenti
è l’opera della mia vita, anche se capita spesso che il libro considerato
dal suo autore come la pietra miliare risulti il meno gradito dagli studiosi
e dai recensori.»
Viene da pensare al povero Petrarca e alla sua Africa.
«Non lo volevo dire, per evitare accostamenti blasfemi, ma visto
che lei l’ha tirato fuori, ammetto che anch’io avevo pensato all’autore
del Canzoniere.»
Ma passiamo alle sue prossime uscite: il 5 giugno da Rizzoli esce il
libro-intervista con Saverio Lodato La linea della palma. Quale
Camilleri viene fuori?
«Preciso subito che non si tratta di una ripetizione di quello
fatto con Marcello Sorgi e pubblicato da Sellerio. Quella non era un’intervista
di Marcello a me, ma una conversazione tra due siciliani, anche se diversi
per età e per esperienze di vita. Questa di Saverio invece è
una vera e propria intervista. A tal proposito, dico subito che, in genere,
è l’intervistatore a fare il libro; colui che conduce la partita
ha le carte in mano. E giorni fa mi divertivo a notare che Leonardo Sciascia
ha scritto quattro o cinque libri del genere: quello con Marcelle Padovani,
un altro con Domenico Porzio… Eppure non si tratta di libri che ripetono
le stesse cose. A seconda dell’intervistatore, è chiaro, cambiano
le domande. Quella fatta da Lodato poi è un’opera maieutica, che
investe tutta quanta la mia vita. Molte cose non erano sviluppate in La
testa ci fa dire, mentre in questo nuovo libro è dato più
ampio spazio a quella che è stata la mia formazione letteraria e
politica.»
Lei ha già annunciato che nella prossima avventura di Montalbano,
il commissario a un certo punto non potrà fare a meno di scendere
in campo. In che senso?
«A giugno uscirà da Mondadori un libro che conterrà
sette racconti, questa volta tutti editi, e una mia lunga dichiarazione
su Montalbano, assieme a due cd rom con i racconti letti dalla mia viva
voce. Come ho già detto, è il commissario di Vigata a volte
a suggerirmi alcune trame di racconti. Anzi, sull’ultimo numero di "Micromega",
ci sarà un Camilleri che rompe i "cabasisi" al suo personaggio,
invitandolo a dirgli qualcosa. Ma Montalbano è a disagio. Attenzione
però, non si tratta di un disagio politico, ma di un malessere dettato
da ciò che sta accadendo all’interno della polizia, con la storia
del G8, tanto per intenderci, che non poteva passare inosservata. E il
commissario sta lì a leccarsi le ferite, a trovare giustificazioni
e a lanciare accuse. Per forza di cose, dunque, in un romanzo questo mio
eroe deve tirar fuori da se stesso e dalle situazioni in cui si trova "u
nivuru comu la siccia". Viene fuori da tutto ciò anche un’ulteriore
riflessione su se stesso, sul suo rapporto con la società e con
il prossimo, sull’utilità di intervenire in alcune vicende e sul
fatto di essere arrivato a una certa età. Montalbano non se ne vuole
andare dal commissariato con l’amaro in bocca; vorrebbe serbare buoni ricordi,
anche se tutto ciò, al giorno d’oggi, si fa sempre più difficile.»
Ha anche in preparazione, per Rizzoli, un altro libro sul teatro. Si
tratta di un nuovo dizionario ragionato?
«Un’anticipazione di questo mio nuovo libro l’ho data con Le
parole raccontate, un dizionario ironico sull’universo drammaturgico.
La nuova opera sarà invece una raccolta di lezioni e conversazioni
sul teatro, tenute a Pisa in diverse occasioni e davanti a un pubblico
di volta in volta diverso. Alcuni argomenti sono stati improvvisati sul
momento e poi trascritti dalle registrazioni effettuate, altri erano precedentemente
preparati. Può darsi che il lettore si accorga dei diversi livelli
di comunicazione. Nel corso di queste conversazioni ho trattato degli autori
che più mi hanno interessato nella mia carriera di regista e di
insegnante di drammaturgia. Può essere considerato come un consuntivo
di trent’anni di attività teatrale. Si tratta di un libro per me
importante, in quanto mette un punto fermo sul teatro. Spero di aggiungere
a questo un altro libretto, munito di cd rom, con la raccolta dei miei
spettacoli.»
Per tornare al giallo, agli ormai conosciuti romanzi polizieschi di Piazzese, Cacopardo e ai suoi, si aggiunge da ultimo quello di un vero
commissario di polizia palermitano, Pier Giorgio Di Cara, pubblicato dalle
edizioni e/o, intitolato Isola nera. A questo punto, Calvino si
sbagliava di grosso quando argomentava sull’impossibilità di ambientare
un giallo in Sicilia, con particolare riferimento ai libri di Leonardo Sciascia.
«Calvino si era sbagliato eccome! Quelli di Sciascia erano dei
veri gialli ambientati in Sicilia. E questo commissario di Palermo mica
scherza. Ho letto con vero piacere il suo nuovo romanzo, Isola nera.
Ormai penso che si sia sturato il serbatoio della Sicilia del poliziesco.
E poi è bello notare come la scrittura di Di Cara non abbia nulla
a che vedere con quella di Piazzese; come del resto quella di Piazzese
non ha nessun rapporto con quella di Cacopardo, e così via. Certo,
ci sono le radici sicule che vengono fuori dalle storie narrate, ma si
tratta di scritture completamente diverse tra loro, e trovo tutto ciò
entusiasmante.»
In quasi tutte le sue opere, lei ha cercato sempre si mettersi alla
prova: col Birraio di Preston, con La scomparsa di Patò,
con Il re di Girgenti, tanto per fare qualche titolo. Secondo lei,
i critici si sono accorti di questa sua smania di sperimentazione? È
come se, nelle sue pagine, il contenitore del romanzo ottocentesco venisse
continuamente svuotato e riempito di forme sempre nuove.
«A volte i critici nemmeno se ne accorgono. Soltanto quelli che,
come Guglielmi ad esempio, hanno le antenne più attente alla sperimentazione
ne hanno sentore. Nessun addetto ai lavori ha mai parlato del tentativo
di strutturare ogni mio romanzo storico in modo diverso; anche all’interno
dello stesso romanzo, come avviene nel Re di Girgenti. Ma se ancora
non se ne sono accorti, pazienza.»
Tre anni fa Giuseppe Petronio, sull’"Unità", scrisse che a volte
il successo fa male, e portava come esempio anche il suo caso. Lei cosa
ne pensa, visto che continua a pubblicare con un ritmo alquanto sostenuto
e riscuotendo quasi sempre grande successo?
«Tutto il mio rispetto per Petronio, che è un vero maestro
e uno dei pochi che si pronuncia su libri che veramente legge. Voglio solo
precisare che a me il successo non ha per niente montato la testa. Il
re di Girgenti, che arriva all’apice del mio successo, è stata
una scommessa: con me stesso e con i lettori. A volte la coerenza di scrittura
genera una sorta di assuefazione nel palato di chi legge, non facendo avvertire
le increspature, i cambiamenti, le vene sotterranee. Certo, non mi si può
accusare di modificare la mia scrittura per una maggiore comprensione.
E poi esiste la mia personale sperimentazione anche nel romanzo breve,
come si evince dall’ultima raccolta di racconti. Non scrivo tanto per scrivere,
ma per vedere se riesco a superare certi ostacoli.»
Come si sente dopo la celebrazione che le è stata tributata
a Palermo, in occasione del convegno «Letteratura e storia. Il caso
Camilleri»? A qualcuno è parsa una sorta di anticipata commemorazione.
Manganelli, in un suo conosciutissimo pezzo, ammise di preferire, a questi
riti celebrativi, la «scommemorazione».
«Sì, si è trattato di una commemorazione, ma la
cosa che mi ha divertito di più è stata l’ammissione di Gioacchino
Lanza Tomasi, il quale si è detto imbarazzato a parlare avendo davanti
agli occhi la "salma" del commemorato. Anche se devo confessare che sono
state due giornate interessanti perché, al di fuori di quella che
è la strettoia di misura della recensione, la gente che è
intervenuta ha potuto parlare liberamente. Ne sono venute fuori, anche
dagli interventi più banali, annotazioni critiche interessanti,
spunti di riflessione notevoli. Di solito, chi viene commemorato, essendo
già nell’Aldilà, non se la può gustare tutta. Io,
in quanto salma vivente, devo dire che me la sono goduta».
Salvatore Ferlita