L'Unione Sarda, 30.5.2002
La ricetta del successo è far vivere la lingua
Incontri. A ruota libera con lo scrittore Andrea Camilleri

Scusi, signor Camilleri, ma come fa a tenere questo ritmo?
A scorrere l’elenco della sua produzione recente, gli impegni e i risultati c’è da restare allibiti. Caso letterario, fenomeno, fabbrica di best seller, processo di beatificazione: parole slogan già usate e abusate. Camilleri è Camilleri. E basta. Si gode il fresco nelle vette delle classifiche dei più venduti, è in libreria La paura di Montalbano, mercoledì esce La linea della palma, un libro-intervista in cui lo scrittore siciliano racconta la sua vita a Saverio Lodato, a settembre arriva un altro volume con le sue lezioni e conferenze, Natale avrà come strenna i Meridiani (uno dedicato al commissario Montalbano, l’altro ai libri storici) mentre è pronto un cd con Camilleri legge Montalbano. A fine mese al Regio di Parma lo scrittore proporrà le sue Riflessioni sui libretti di Verdi intanto Il birraio di Preston è diventato opera lirica, sono al montaggio gli sceneggiati (a ottobre su Raiuno quattro nuovi episodi con Zingaretti-Montalbano) e un film tratto da La scomparsa di Patò. A metà giugno avrà il Premio Novecento a Pisa, sarà in giro per conferenze e incontri, a ottobre la toga per la laurea honoris causa in Lingue e letteratura straniere dalla Iulm di Milano. Per non perdere il vizio ha già consegnato due libri nuovi a Sellerio “ma aspettiamo il prossimo anno per non esagerare”. E domani è in Sardegna: a Cagliari alle 16,30 (sala Cosseddu della Casa dello Studente) incontra il suo pubblico. Sabato sarà a Nuoro per onorare l’impegno di presidente di una sezione del “Premio Grazia Deledda”.
Allora, uno e trino.
«No, il segreto è nel lavoro. Nell’impegno quotidiano. Quando insegnavo al Centro Sperimentale e all’Accademia D’Amico uscivo la mattina e tornavo a tarda sera. Oggi che sono in pensione, che faccio? Ho tanto tempo libero e scrivo».
Allora soffre d’insonnia.
«Dormo benissimo, mi bastano le mie cinque ore».
Allora si mette orari e regole di ferro?
«Mah, non sono mai stato capace di darmi tempi e ritmi. Mi alzo presto, alle sette e mezzo sono già al lavoro: produco bene, il mattino ha l’oro in bocca. Poi scrivo in qualunque momento, dovunque mi capiti. Ricorda la celebre foto di Montanelli con l’Olivetti sulle ginocchia? Va bene anche così. Se adesso in Sardegna mi viene voglia, prendo una biro e scrivo».
Scrive a mano?
«Computer, da un po’ di tempo mi sono convertito alla tecnologia. Mi permette di non riscrivere. Certo, stampo e faccio le correzioni a penna, ma ora non ribatto più a macchina. Anche se c’è un rovescio della medaglia: il computer, tagliando e spostando intere frasi, ti impigrisce, ti può imprigionare in uno schema».
Ha bisogno di concentrazione per scrivere?
«Guai. Ho bisogno dei miei nipotini che mi scombussolano, fanno casino, di mia moglie che mi interrompe. Tempo fa presi una casa nella campagna Toscana per lavorare ad un libro. Due giorni dopo non avevo scritto neppure una pagina e telefonai: riportatemi indietro o mandatemi i nipotini».
Flaiano diceva: “In Italia si perdona tutto tranne il successo”. Le pesa essere famoso, si sente nel mirino delle invidie?
«Mi ritengo fortunato, il pubblico mi vuol bene. Pensavo di peggio. Ogni tanto una frecciata o qualche colpo di carabina. Ma fa parte del gioco. Se penso a quello che è successo a Susanna Tamaro, ingiustamente linciata, o a Umberto Eco che è sopportato…».
Sarà un po’ stufo di interviste, concedersi ai fans.
«All’inizio era gratificante, mi faceva piacere. Adesso, sì, sento la fatica di questo rito».
Domande sempre uguali…
«Fino a quando mi chiedono del mio lavoro, va bene ma adesso con la popolarità mi chiamano per avere una opinione sulla coltivazione degli ortaggi. Ma che ne so io? Oppure l’altro giorno volevano sapere che ne pensassi di Trapattoni».
E che gli ha detto?
«Che non sono sportivo né tifoso. Da una vita. Anche se - e faccio una confessione - in età ormai avanzata ho finalmente superato un trauma infantile proprio legato al calcio. Mio padre era presidente della Empedoclese [Empedoclina, NdCFC] e ogni domenica era uno strazio perché quelle partite di serie zeta spesso finivano in rissa e a casa c’era l’attesa: che succederà oggi, l’avranno picchiato, lo rapiranno? Ero piccolo e questa angoscia mi ha segnato. Fino a quando poco tempo fa ho visto per caso una partita di calcio in tv. Era un bella partita, emozionante. Lì ho apprezzato gli schemi, le geometrie, il gioco, ho iniziato da vecchietto ad appassionarmi».
Paradossale.
«Mah, è più paradossale il fatto che io non ho la patente ma non mi perdo una gara di formula uno».
Ferrarista?
«Non saprei, mi piacciono le corse, ecco tutto».
Allora vede la tv?
«Dibattiti, di preferenza».
Cosa cambierebbe se fosse direttore di rete?
«Mi sento un pesce fuor d’acqua. Io da produttore in tv ho fatto Maigret, gli sceneggiati con Alberto Lupo, i varietà di Antonello Falqui, Mina. Non lo dico perché sono vecchio o malato di nostalgia però lì c’erano fior di professionisti, tecnica e invenzioni. Oggi, per esempio, non vedo posto per la prosa in televisione. Io ci avevo portato Eduardo…».
E il teatro, dopo anni di frequentazioni, le manca?
«Il teatro lo scrivo. È stata una bella palestra di scrittura. Una parentesi di 30 anni dove ho lavorato come regista e sceneggiatore, col paziente obiettivo della narrativa».
Quando si è accorto che la scrittura era il suo modo privilegiato di comunicare?
«Da subito. Già giovanissimo. Da ragazzo scrivevo poesie. Alcune erano state pubblicate da Ungaretti nella collana “Specchio” di Mondadori. Poi il lavoro e tanta gavetta. E l’esordio alla vigilia della pensione».
E lo stile, diciamo, dialettale?
«Anche quello da sempre. È il mio modo naturale, il respiro della mia scrittura. Il dialetto è lingua, strumento di conoscenza. Perché è attaccato ad una radice culturale, quindi viva. Io sono rimasto molto contento quando ho letto che in Sardegna era passata la legge sul bilinguismo. Una bella conquista. Essere profondamente legati ad una identità significa trovare nuova linfa di scrittura, di storie, di atmosfere. Guardate in casa vostra l’esempio di Sergio Atzeni».
Mai pensato che avrebbe trovato ostacoli con i lettori?
«Sciascia, maestro ed amico, mi aveva messo in guardia, parlava di problemi di comunicazione. Ma io ho sempre pensato che fosse la strada giusta, la mia strada. È l’omologazione che mi preoccupa, la colonizzazione».
Il potere dell’inglese…
«Mi spiegherò con un esempio che vale più di mille parole e teorie. Mi chiesero un articolo per una rivista di architettura, dovevo parlare della mia casa. Lo scrissi, come scrivo io, e mi risposero: scusi, signor Camilleri, ma non si capisce nulla, quei termini, eccetera eccetera. Allora io aprii a caso quella rivista e al telefono iniziai a leggere un pezzo, un florilegio spinto di inglesismi. Dissi: scusi, e questa che lingua è?».
A parte i romanzi storici, gli altri libri hanno agganci con la realtà?
«Sempre. Io sono un avido lettore di giornali. Controllo le notiziole di cronaca bianca e nera. Se qualcosa mi interessa, strappo la pagina e la metto da parte. Ne ho accumulate tante… Poi questi fatti li metabolizzo, spesso non vado neppure a rileggerli perché nella mia testa hanno preso un’altra forma, un altro significato».
Quindi il giallo è il modo migliore per parlare dell’Italia d’oggi.
«Sì, è un modo vitale. E c’è una bella scuola di giallisti. Da Lucarelli a Fois, da Macchiavelli a Carlotto, per citare qualche nome. Ma non dimenticherei le radici: De Angelis e soprattutto Scerbanenco».
Qual è il segreto del buon giallo?
«Non barare mai. Il lettore deve essere ad armi pari con l’investigatore, deve avere le stesse informazioni di chi indaga. È anche questione di tecnica ma quello che rende interessante il romanzo sono i personaggi. E l’ambiente».
Fedele a Montalbano, fedele alle sue idee politiche. Di sinistra.
«Si può cambiare idea nel corso del tempo, ma non si possono cambiare le convinzioni profonde».
Le piace questa Italia, le piace questo governo?
«No, mi sento a disagio. Ma quello che è difficile è combattere la serenità con cui questo paese ha votato una maggioranza. Come faccio a dire a mio cugino che sbaglia quando vota Forza Italia?».
Esiste una cultura di destra?
«No. Stanno spremendo Veneziani, non c’è dell’altro. Parlano, che so, di Ezra Pound ma faceva avanguardia mica cultura di destra. O di Pirandello. Mi vien da dire con Flaiano che “gli italiani vanno in soccorso dei vincitori”.
Ch’avemu a fari? Che facciamo?
«Siamo gente che sa darsi la zappa sui piedi ma ha anche la capacità di rigenerarsi. Comunque amo l’Italia e non potrei vivere altrove».
Lei ha detto: “Quando ho il raffreddore prendo l’aspirina prodotta dalla Bayer, e non mi chiedo se è la stessa società che ha prodotto certi gas o altro. Purtroppo quando si scrive bisogna avere un editore”. E il suo editore è anche Mondadori, ovvero Berlusconi.
«Mi concedo dei piccoli tradimenti, ogni tanto abbandono la signora Sellerio, alla quale devo la mia scoperta. Ma un autore deve essere libero, prendere l’editore come un’aspirina. Poi con Mondadori, che ha una ottima distribuzione, il libro ha una vita triplicata, passando di collana in collana e trovando nuovi lettori».
Ha paura della serialità di Montalbano?
«È un rischio. Ma credo di aver trovato un modo per evitarla. Montalbano cresce, cambia e invecchia con me. Segue gli umori del tempo, si impossessa delle malinconie, incazzature, dolori della vita. Di quello che accade. Per esempio, prima o poi avrà a che fare col G8».
Nel nuovo romanzo?
«Non c’è ancora un nuovo romanzo per Montalbano».
Lo manderà anche in pensione?
«È nella logica umana».
Cosa accade se Montalbano incontra Maigret?
«Gli dice “non invecchi mai”».
E con Nero Wolfe?
«Uhm, non si parlano».
Con Pepe Carvalho?
«Bisticciano sulle pietanze. A me è successo con Vásquez Montalbán, a Barcellona. Alle 9 del mattino mi voleva far mangiare una salsiccia pepatissima».
E con Hercule Poirot?
«Gli parla in un raffinato francese con cadenza sicula».
E se Montalbano incontra Berlusconi?
«Io non scrivo libri di fantascienza».
Sergio Naitza