Libertà, 4.6.2002
«Ognuno può avere un mostro in sé»
Intervista ad Andrea Camilleri il cui ultimo libro “La paura di Montalbano” è già in vetta alle classifiche
In progetto un romanzo sui fatti di Napoli e Genova

Il suo ultimo libro, “La paura di Montalbano”, ha già raggiunto le vette delle classifiche, i suoi romanzi sono stati tradotti in una decina di lingue, tra cui il greco e il giapponese: naturalmente sto parlando di Andrea Camilleri, il “papà” del commissario Montalbano. La sua ultima fatica è una raccolta di racconti ambientati, ad eccezione di una trasferta valdostana, in Sicilia, nell'immaginaria Vigàta.
Incontro lo scrittore di Porto Empedocle nella sua casa romana. Nel racconto “La paura di Montalbano” il commissario lascia la Sicilia e lo ritroviamo addirittura in Val d'Aosta. «E' un'uscita fuori dalla corazza. Montalbano non vuole essere promosso o farsi trasferire perché teme di non conoscere i codici di comportamento di altri luoghi. Ma stavolta va in vacanza in un mondo a lui completamente sconosciuto. Si sente come un alieno e, privato delle sue sicurezze, può svelare a se stesso il perché di una paura». La paura di vedere riflessa la sua immagine nello specchio che riflette “gli abissi dell'animo umano“? «Sul racconto che dà il titolo al libro si rifrange il delitto di Cogne, che ha turbato tutti, indipendentemente dalle ipotesi di colpevolezza. Un estraneo che ammazza un bambino di due anni è qualcosa di mostruoso. Ma nell'ipotesi che sia stata la madre a ucciderlo, è l'inaspettato mostro che è dentro di noi a farci paura. Di fronte a fatti simili, capisci che potresti essere tu la persona che agisce in quel modo. E proprio di questo, pur in una situazione diversa, si rende conto Montalbano». A proposito di Cogne: oggi per risolvere un caso si fa sempre più ricorso alla polizia scientifica. Anche Montalbano ricorre ai “camici bianchi”, ma è solo un tassello di una costruzione più ampia, fatta delle convinzioni che ha maturato nel corso delle indagini. Può comportarsi così perché è un commissario letterario? «Oggi demandiamo alla scienza ciò che non siamo in grado di capire in qualità di esperti di una certa branca. Una volta il medico ricorreva alle analisi per avere conferma di una sua intuizione. Montalbano fa lo stesso: la “scientifica” per lui è solo la garanzia di un'ipotesi investigativa già delineata». Ma Montalbano non ha il fiato dell'opinione pubblica e delle TV sul collo… «Montalbano è fortunato, ha solo due o tre giornalisti che gli ronzano attorno. Oggi invece processi e indagini si svolgono tra televisioni e giornali. E spesso pervengono a risultati affrettati». Se Montalbano trovasse un suo caso discusso a Porta a Porta, come reagirebbe? «Gli prenderebbe un colpo. Quando si trova di fronte ai microfoni balbetta, anche perché gli viene chiesto di anticipare risultati dei quali è ancora incerto». Per gli altri racconti da cosa ha tratto ispirazione? «Alla base c'è sempre un fatto di cronaca vera, elaborato per renderlo irriconoscibile. Il quarto segreto, ad esempio, è nato dalla lettura delle statistiche sul numero mostruoso di operai che ogni anno muoiono per incidenti sul lavoro. Mi sono chiesto: “E se qualcuna di queste morti bianche fosse procurata per screditare un'impresa”»? Camilleri, il suo investigatore resiste senza telefono cellulare. «Ho trasferito in lui la mia idiosincrasia per il cellulare. Forse ce l'ha, ma lo lascia a casa». Per la prima volta il commissario collabora con i carabinieri, cosa che sembrava impossibile… «Sì, ma lo fa soltanto per il rispetto che prova verso un investigatore più bravo e più forte di lui, un maresciallo dei carabinieri che in punto di morte deve risolvere un caso, altrimenti non se ne va in pace». Il primo racconto si apre con il protagonista che legge un romanzo di Carlo Lucarelli e in tutto il libro ci sono riferimenti ad altri scrittori. «Sono piccoli omaggi. Per esempio “Ferito a morte”, il titolo del secondo racconto, è anche quello di un libro di Raffaele La Capria». Insomma, come sta Montalbano? «Sta male, perché io continuo a chiedergli spunti per un nuovo romanzo che lui non vuole darmi. In un romanzo dovrebbe mettere in discussione la sua condizione di poliziotto dopo il G8 a Genova e dopo i fatti di Napoli». Sono trascorsi circa dieci anni dall'esplosione del suo successo. Se la sente di fare un bilancio? «Ho scritto romanzi riusciti e altri meno, ma il bilancio è positivo perché sono riuscito a conservare la mia idea di romanzo, che per me, oltre ad appassionare e divertire, deve far riflettere. Il fatto che i critici riconoscano nei miei libri un certo impegno sociale mi dà molta soddisfazione». I lettori sono sulla sua stessa lunghezza d'onda? «Non sempre. Una signora mi ha scritto una letteraccia per aver trovato nei miei libri un tono critico verso l'attuale governo. Ma io credo che chi scrive un racconto d'attualità abbia il dovere di parlare dell'attualità e di esprimere il suo punto di vista. Uno scrittore non è un giornalista, che a tutti i costi dev'essere obiettivo». Come risponde a chi l'accusa di eccessiva prolificità? «Eccessiva prolificità rispetto a chi? Rispetto a Balzac non sono prolifico. E nemmeno rispetto a Georges Simenon. La differenza è che mentre Simenon ci ha messo una vita per scrivere 214 romanzi, io dal 1978 ne ho scritti diciassette. La prolificità non esiste, esiste il ritmo che riesci a mantenere. Quando mi accorgerò che la mia scrittura non cresce più o addirittura regredisce, mi fermerò. Anche perché non mi divertirei più». Scrivere per lei è un divertimento? «E' un lavoro serio. Ogni tanto puoi perdere una giornata su una frase, e allora sudi e ti disperi. Ma è sempre meglio che perdere una giornata al catasto o in miniera. Kafka scriveva per liberarsi dalla monotonia della sua vita di bancario, la letteratura era uno sfogo, un momento di relax. Oddio, poi il suo momento di relax è diventato l'incubo della nostra esistenza quotidiana…» Il romanzo poliziesco italiano conosce un momento d'oro, anche sulla scia del suo successo. Non c'è il rischio che per assecondare il mercato si pubblichi qualche “bufala”? «E' un rischio che bisogna correre, sarà il pubblico a decidere. In Italia i gialli hanno promosso una letteratura d'indagine e di attenzione alla società che prima non c'era. Il merito è di Giorgio Scerbanenco, che cominciò a descrivere una Milano terribile con libri straordinariamente verosimili. E' quanto fa oggi Lucarelli con Bologna e Rimini, Marcello Fois per la Sardegna, Massimo Carlotto col Nord-Est, e lo stesso faccio io con la Sicilia». Qual è l'ultimo giallo che ha letto? «“I cani di Riga”, dello svedese Henning Mankell. Il suo protagonista, Wallander, ha molti punti in comune con Montalbano. Sta invecchiando, ha la fidanzata lontana, passeggia al porto per riflettere e gli piace mangiare». E l'ultimo giallo italiano? «“Lo stato delle anime” di Giorgio Todde, uno scrittore sardo che ha ambientato il libro alla fine dell'Ottocento, nella sua isola. L'investigatore si chiama Efisio Marini, è un imbalsamatore e pare sia realmente esistito. Gran bel giallo».
Nicola Zamperini