Da bravo siciliano, avrà toccato ferro. Perché vedersi
inserito, lui vivente, nella collana dei Merdiani Mondadori, la créme
dei classici immortali della letteratura di tutti i tempi, è un
onore supremo, ma anche una responsabilità. Un peso che Andrea Camilleri,
77 anni, si sente di dividere idealmente con il commissario Montalbano,
il protagonista dei suoi romanzi, ambientati in una Sicilia ironicamente
noir, che ha stregato il pubblico dei lettori. E che, con 7 milioni e mezzo
di copie vendute in Italia e traduzioni che circolano in tutto il mondo,
è diventato un caso letterario.
«La volontà di capire. E’ qualche cosa di molto importante:
significa una volontà di posizionarsi all’interno di sé stesso
e in rapporto con gli altri. Capire è comprendere e accettare cose
a volte difficili da giustificare. E’ forse l’unico modo, serio e possibile,
di resistere alla vita. Se dovessi fare una sorta di bilancio, tutto quello
che non ho capito nella mia esistenza non l’ho voluto capire, tutto quello
che ho capito l’ho voluto capire freddamente, con determinazione.»
«Tutto è indagine. Qualcuno diceva: “Tutto è grazia”.
Io potrei dire: “Tutto è indagine”. Quando dicono: “Anche i libri
storici di Camilleri sono un’indagine”, hanno ragione, è vero, perché
tutto è un’indagine.»
«La mancanza d’invidia ripaga. Io non ho mai invidiato
nessuno. Anzi, veramente ho gioito per i successi degli altri.
Faccio un esempio: quando esplose il boom del Nome della Rosa di Umberto
Eco, cominciarono le traduzioni all’estero, non si parlava d’altro che
di questo primo best seller italiano. Io, che avevo lavorato come regista
con Eco, ero felice per lui e anche per la nostra letteratura. Come uomo
di teatro non ho mai provato invidia per Strehler o per Ronconi. Mai, in
nessun momento della mia vita. Adesso sono ripagato.»
«La perdita dei dialetti ha impoverito l’italiano parlato, già
peraltro stremato dal bombardamento omologante della televisione. Questa
mancanza di struttura dialettale ha talmente impoverito la nostra lingua
da ridurla in balia di qualsivoglia lingua straniera. Senza la difesa dei
dialetti viene a mancare la linfa vitale della lingua e si ha un vero e
proprio imbarbarimento linguistico.»
«La vecchiaia mi apre alla speranza. Io sono speranzoso. La vecchiaia
non mi fa chiudere in me stesso, semmai mi apre sempre più alla
speranza. Quello che Alfieri chiamava “l’umor nero del tramonto” io non
lo sento. Io penso a un tramonto bellissimo, pieno di cose e di colori.
La vita evita che ci si possa distaccare, dai figli, dai nipoti, dagli
affetti; quando pensavo che fosse chiuso il cerchio degli affetti, esaurite
le possibilità, è spuntata una nipote nuova, una creatura
che in questa spaventosa terribile ricchezza che è la capacità
d’amare mi fa ricominciare con un sentimento nuovo. Ecco qui!»
«Avere fiducia nelle proprie idee. In qualsiasi campo, non soltanto
se ci riferisce strettamente alla letteratura, il problema è avere
idee; in secondo luogo, avere fiducia in esse. La persistenza di questa
fiducia credo sia una chiave importante per riuscire.»
«Il tuo villaggio è il mondo. La Sicilia per me è
il villaggio di Tolstoj, quando Tolstoj diceva: “Descrivi bene il tuo villaggio
e avrai descritto il mondo”.»
«La coscienza dei limiti. Spesso il successo è affidato
al caso. Ma comunque bisogna starci con la fede, come si dice. Occorre
credere in se stessi senza una becera sopravvalutazione, con coscienza
dei propri limiti: un centometrista sa di non poter fare una maratona...»
«Imparare a guardare il dolore degli altri. Eschilo, Sofocle
ed Euripide sono vissuti in età diverse, eppure tutti i tre avevano
una profonda e uguale cognizione del dolore. Non del proprio, ma di quello
altrui. Nei Persiani, Eschilo chiede ai suoi concittadini di piangere non
solo per i greci morti in battaglia, ma anche per i persiani che hanno
perso la vita. Ecco, questo credo sia stato per me un grande insegnamento:
imparare a guardare il dolore degli altri, come fatto etico prima ancora
che come fatto poetico. Non ho mai creduto che fra gli uomini si tratti
banalmente di mors tua, vita mea.»
«La democrazia diretta è essenziale. Credo che la
voglia di prendere direttamente la parola su questioni sociali e politiche
sia un fatto essenziale, anche se poi persone come me, per aver dimostrato
il proprio interesse civile per il Pease, vengono chiamate dall’establishment
attuale seminatori d’odio...»
(a cura di Alessandra Gaeta)