Il caso (o meglio: contingenze editorial-giornalistiche) ha voluto che
non mi sia mai occupato su queste pagine del «caso» Camilleri.
Ma ciò non mi ha impedito di diventare quasi un fan di Salvo Montalbano,
e di apprezzare alcuni almeno dei romanzi di Camilleri che non hanno come
protagonista l'ormai celeberrimo commissario (ad esempio l'esilarante e
ardito La concessione del telefono).
Certo, sono troppi, i libri di Camilleri: una trentina in pochissimi
anni. Una sorta di bulimia editoriale spiegabile con la lunga astinenza
(e forse anche con l'età avanzata dello scrittore, ormai vicino
agli ottanta), ma che ha certo aspetti eccessivi. Anche se bisogna pur
dire che, tra ovvii alti e bassi, nessuno dei libri in questione si può
definire decisamente scadente.
Camilleri produce letteratura d'intrattenimento, ma dimostra che in
tale ambito ci si può muovere con gusto e intelligenza, approntando
un formidabile strumento linguistico e non rinunciando a richiamarsi all'attualità
- cronistica, sociale, politica - di questi anni, spesso sordida, come
sappiamo, e non solo nella Sicilia di zu vasa vasa.
Nell'accorta strategia editoriale di Camilleri, a Mondadori spettano
le raccolte di racconti con protagonista il commissario. Ed ecco dunque
La paura di Montalbano (Mondadori, pagine 324, euro 15,80) che comprende
sei testi, tre brevi e tre lunghi, in pratica dei romanzi, soltanto un
po' più corti di quelli abitualmente pubblicati da Sellerio.
E se i racconti di poche pagine lasciano in genere insoddisfatto il
lettore, i romanzi brevi, al contrario, rappresentano forse la misura ideale
per Camilleri, che in settanta-ottanta pagine (o poco più) riesce
a sciogliere l'enigma su cui si regge l'intreccio senza rischiare di perdere
per
strada l'attenzione del lettore, come talvolta accade nei «gialli»
gremiti da troppi personaggi e figure di contorno.
Diciamo anzi che in questi tre romanzi brevi, troviamo un Montalbano
in gran forma, alle prese dapprima con la morte di un sordido usuraio,
poi con un (finto) infortunio sul lavoro, e infine, addirittura, con un
delitto di cinquant'anni fa (era il caso anche de Il cane di terracotta).
Montalbano è (per fortuna) sempre uguale a se stesso: onesto,
moderatamente progressista (un «comunista», dunque, per qualcuno),
pronto sempre a impazzire di fronte a un piatto di triglie fritte come
a una azzuffatina telefonica con la fidanzata lontana. Testardo e sempre
animato da «quell'inarrestabile smania di sapere» che, in fondo
è «la molla di tutte le sue indagini».
Adorato dai subalterni (nonostante le frequenti sciarriatine) e tuttavia
solitario, sensibile al fascino femminile ma capace (quasi sempre) di resistere
alle tentazioni. «Normale», insomma, come più non si
potrebbe, in un paese che normale proprio non vuole essere e lo fa sapere
in tutti i modi possibili.
Camilleri, dal canto suo, abbonda in riferimenti all'attualità
e in strizzatine d'occhio al lettore colto, citando Eliot e Lucarelli,
e addirittura intitolando uno dei romanzi brevi Ferito a morte (con dichiarato
omaggio a La Capria).
È malinconico, spesso (e come si può non esserlo, quando
si sente dire che «con la mafia bisogna convivere»?) ma la
malinconia non gli ha tolto la verve, il gusto dell'invenzione linguistica,
l'evidente piacere (che il lettore condivide) di vedere ancora il suo eroe
coinvolto in tante avventure.
Felice Piemontese