Camilleri non si ferma. Sembra che voglia rifarsi negli anni avanzati
del lungo silenzio della giovinezza e della maturità. Dal 1978,
allorché esordì come romanziere, Sellerio ed ora Mondadori
non fanno in tempo a liberare i torchi per premere i sedicesimi di un nuovo
libro. Le librerie devono far spazio alle pile ricolme dei suoi romanzi,
che erano in un primo tempo di più svariata invenzione, ora concentrati
sulla serie di successo di Montalbano. Da anni svetta in testa agli indici
di vendita, e non si tratta di virtualità pubblicitaria. Le librerie
confermano.
Un successo travolgente, e duraturo, non solo di pubblico. Le riviste
letterarie cominciano ad interessarsi del fenomeno e ad analizzare i moduli
narrativi e i livelli della lingua, quell'italo-siculo di Vigata, misto
d'invenzione, di forzature lessicali e sintattiche, di calchi dialettali
e di parlato: una lingua originale senza dubbio ed espressiva, di livello
medio-popolare, adoperata con intelligenza ed ironia e conformata quale
corrispettivo espressivo ai personaggi, al luogo ed alle situazioni.
Su tale produzione molto è stato detto, se non tutto e, forse,
più ancora di tutto, oltre i limiti del verosimile. Come, per esempio,
quell'aver voluto elevare fatti, persone e lingua, in altri termini la
sicilianità (quella sicilianità, che è cosa ben diversa
dalla sicilianità in generale) a «metafora della commedia
umana», che mi sembra francamente eccessivo.
E tuttavia, il problema Camilleri è uno di quei fenomeni del
successo letterario, della fecondità scrittoria e del gusto del
pubblico che non va sottovalutato e sul quale certamente si ritornerà
anche quando si sarà esaurito, corrispondendo, ma con esiti diversi
e a dimensioni di successo inverso, ad un altro fenomeno di copiosità,
quello relativo a quell'altro grande scrittore che si va dimostrando Simenon,
dopo le periodiche ristampe della Adelphi.
In Camilleri, peraltro, forse v'è da rilevare una certa stanchezza,
forse prevedibile, nella continuazione seriale del genere, contraddetta,
tuttavia, dal persistente gradimento. Quell'orizzonte angusto, quei personaggi
singolari via via logorati e ingessati nella maschera predefinita, fino
a diventare stereotipati da originali che erano da principio, i gesti e
le battute ripetute quali liturgia burocratico-poliziesca, con le relative
ribellioni e saturazioni, e soprattutto quella lingua, geniale e divertente
nel momento inventivo, nelle prime scritture, ridotta via via a stucchevole
litania paradialettale, possono indurre ad aspettative non proprio esaltanti
nell'apertura di ogni nuovo libro. Così mi chiedo cosa sarebbe stato
della geniale lingua macheronica nel Rinascimento, se essa fosse dilagata
rompendo gli argini, e non fosse rimasta quale circoscritta rivolta e levata
d'ingegno di una espressività alternativa.
Quest'ultimo (per il momento) libro, La paura di Montalbano (Mondadori
ed., pp. 322, euro 15,80), è composto da tre racconti brevi, già
pubblicati in riviste o quotidiano, e tre racconti lunghi inediti. In questi
ultimi ritroviamo la tematica ben nota, il groviglio delle vicende da cui
districare il bandolo del delitto o dell'illecito, in una sequenza di intreccio
e colpi di scena che riaffermano la perizia, sia pure seriale, del narratore.
I tre racconti brevi, tra i quali quello che dà il titolo al
libro, rivelano la fragilità occasionale dello spunto (Giorno di
febbre, Un cappello pieno di pioggia); e tuttavia, almeno nel terzo (La
paura di Montalbano), s'intravede una situazione di maggiore interesse,
che meritava, forse, maggiore approfondimento: un Montalbano alle prese
con «gli abissi della psiche» in seguito all'incontro ed alle
provocazioni di un aspirante psicanalista. Ma siamo lontani dalle prime
notevoli opere, Il cane di terracotta, La voce del violino, Il birraio
di Preston, La bolla di componenda, che annunciavano Camilleri negli anni
Ottanta scrittore nuovo nel panorama delle nostre lettere.
Michele Dell'Aquila