Pirandello detective?
così è (se vi pare) La
Sicilia non esiste. Non esiste come isola, cioè come luogo geograficamente
circoscritto, delimitato dal mare, omogeneo per identità e natura. Lo diceva,
già alcuni anni fa, con parole migliori, Gesualdo Bufalino: “Dicono gli
atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri
d’onore”, scriveva lo scrittore di Comiso nel suo La luce e il lutto.
“Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto
d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e di costumi,
mentre qui tutto è mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più
composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di
contarle”.
Dunque, la Sicilia non
esiste. Esistono molte Sicilie: un sistema concentrico di isole dentro
l’isola. L’isola-provincia, l’isola-città, l’isola-paese,
l’isola-famiglia per arrivare all’isola-individuo. In altri termini, sempre
per restare in vena di citazioni, Luigi Pirandello così aveva parlato dei
siciliani, descrivendoli come appartati, paurosi della vita, “contenti del
poco, purché dia loro sicurezza”. E
nello scontro tra il “il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara
di sole”, Pirandello ravvisava le ragioni della diffidenza e delle paure: “E
ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode – ma appena, se l’ha – la
sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo
dolore, spesso disperato”.
Ma le parole di Pirandello,
paradossalmente ci offrono un’altra possibilità. Anzi, questa possibilità
viene offerta a tutti quelli che oggi scrivono di cose di Sicilia. Il
drammaturgo di Agrigento pronunciava queste frasi nel 1931, celebrando davanti
alla Reale Accademia la figura di Giovanni Verga. E in quel discorso fissava una
“parentela” tra se stesso e Verga, individuando due categorie di scrittori:
scrittori “di parole” e scrittori “di cose”. Pirandello si collocava
nella seconda categoria, e in questa stessa collocava Verga. (Tra gli scrittori
“di parole” veniva inserito Gabriele D’Annunzio, tanto per intenderci).
Fissando questa linea
ereditaria, Pirandello ne indicò una traiettoria. E in quell’asse, negli anni
a venire, si inserirono Vitaliano Brancati, Leonardo Sciascia e quindi Gesualdo
Bufalino, Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri. Nella Sicilia inesistente, esiste
quindi una specie di “isola degli scrittori”. Una cittadella di autori
diversi fra loro che si riconoscono e trovano affinità proprio nello scrivere
“di cose” e non “di parole”.
Così come credo
all’esistenza di questa isola letteraria, non credo invece a una letteratura
siciliana. Vero è che gli scrittori siciliani scrivono della Sicilia e non c’è
autore, a mia memoria, nato o cresciuto in Sicilia che riesca a sfuggire a
questa fortuna o trappola, che dir si voglia. Ma la letteratura degli autori
siciliani è letteratura italiana, perché altro non si può dire di Pirandello,
Sciascia, Brancati, Consolo, Bufalino o Camilleri. C’è quindi una letteratura
italiana scritta in Sicilia e dalla Sicilia. E c’è un romanzo, giallo o
poliziesco, tutto italiano scritto alla latitudine più meridionale d’Italia.
Da questo punto di vista, è stato proprio un autore siciliano a usare il genere
del giallo per raccontare, per la prima volta in letteratura, la mafia: nasceva
così, nel 1961, Il giorno della civetta di Sciascia. Per quel libro,
possiamo limitarci a parlare di giallo o di libro siciliano? Mi sembra un po’
riduttivo.
E’ evidente che qualsiasi
autore nato in Sicilia negli ultimi cinquant’anni – cioè in quel luogo
reale o immaginario che qualcuno, dal punto di vista della densità letteraria,
definisce con una battuta “la Russia d’Italia” – non può ignorare il
peso di questa tradizione. Anzi, è obbligato a iscriversi, in qualche modo, in
quest’asse ereditario che è uno dei rami nobili della letteratura italiana,
appunto.
Per chi, come me, è
cresciuto in un posto che si chiama Racalmuto, cioè il paese di Leonardo
Sciascia; per chi si è trovato a muovere i primi passi delle letture e della
scrittura dentro il triangolo – isola nell’isola, come si vede –
delimitato dalla Regalpetra di Sciascia, la Girgenti di Pirandello e la Vigata
di Camilleri (triangolo tutto interno alla provincia di Agrigento, disteso tra
la Sicilia del mare e quella delle zolfare); ebbene, per chi come me, ha scritto
di cose di Sicilia (sia nei termini dell’ inchiesta giornalistica che in
quelli del romanzo) diventa imperativo
scrivere “di cose”. Per me, sono cose ben precise: il rapporto con la
memoria, il peso della storia e del passato, il meccanismo della giustizia, le
dinamiche del potere.
Ma basta guardarsi attorno,
leggere quello che scrivono altri autori che condividono lo stesso orizzonte,
per ritrovare analoghe sensibilità, naturalmente declinate in forme e in timbri
diversi e personali. Il grande fiume della letteratura italiana scritta in
Sicilia, si disperde e si arricchisce nel delta del romanzo giallo, del
poliziesco, del noir, mantenendo però inalterate le proprietà dell’acqua
sorgiva.
Il comune denominatore di noi che oggi scriviamo dalla Sicilia o
sulla Sicilia, cercando di raccontare l’Italia da questa periferia
dell’impero che esalta vizi e virtù, è sottolineato dalla presenza forte
della mafia. Quello che è accaduto nelle città e nelle campagne siciliane
negli ultimi cinquant’anni – gli omicidi, le stragi, le prevaricazioni - non
ha potuto lasciare indifferente nessuno, nemmeno chi sceglie di mantenere la
mafia in secondo piano, come un “disturbo di fondo”. Per la Sicilia è
passata, in questi anni, una linea etica che imponeva schieramento e impegno, e
in ogni caso una assunzione di responsabilità perché anche il far finta di
niente comporta una scelta. Il potere criminale di Cosa Nostra ha imposto anche
agli scrittori di sviluppare conoscenza e coscienza antimafiosa: killer e
picciotti delle cosche così come i colletti bianchi del sistema di potere
mafioso hanno in qualche modo delineato il palinsesto della nostra scrittura,
obbligandoci a rimanere ancor più ancorati ai fatti. Insomma, lo scontro civile
ed etico che ha dilaniato in modo sanguinario la Sicilia ci ha costretto a
essere sempre più scrittori “di cose”.
Ma se tutto questo è vero, è anche
vero che non c’è scrittore di impronta siciliana che non si ponga la
questione della lingua. Anche i più giovani, anche quelli nati nella stagione
dell’alfabetizzazione televisiva nazionale, conviviamo con un duplice registro
linguistico: quello dell’italiano e quello del dialetto. Dove l’italiano
continua a essere il linguaggio ufficiale, quello della scuola e dei tribunali,
degli affari e della convivenza civile, omogeneo e spendibile dappertutto;
mentre il dialetto cambia all’interno della stessa Sicilia e trova, a distanza
di pochi chilometri, lessico e grammatica diseguali. Ma, soprattutto, il
dialetto è la lingua degli affetti, della famiglia, della quotidianità,
dell’esclamazione, dello stupore e dell’insulto, dell’amore e dell’odio.
Chiunque scriva in Sicilia deve fare i conti con questo molteplice campionario
linguistico, e le soluzioni sono sempre varie e diverse. Resta il fatto che
quello della scrittura è per gli autori di Sicilia “un problema”. E dalle
soluzioni che ciascuno adotta emerge nuova e ulteriore ricchezza. La ricchezza
di una lingua sempre viva, forte, palpitante. Una lingua densa di cose. Gaetano
Savatteri (Pubblicato
sul catalogo del Noir in festival 2004) |