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Il regista

Il mondo di Camilleri e la sua poetica dello stupore



Giuseppe Dipasquale

Come ormai sembra essere chiaro nello stile di Camilleri, il racconto parte da un fatto che vuole essere di per se' stupefacente, affabulatorio, misterioso e incantatore. Proprio come il c'era una volta dei bambini. E di un bambino si tratta: l'occhio innocente di un bimbo, per purezza nei confronti del mondo, per incontaminazione , per il suo essere "fanciullino" e il motore dell'azione. Ad esso e destinata, in apertura del romanzo, la scoperta dell'unica grande tragedia che incombe su Vigàta (le altre saranno come delle ipotragedie in questa contenute e da questa conseguenti).
Dunque l'occhio del bimbo è l'occhio che dà origine all'azione e che coincide, lo sapremo solo alla fine, con l'occhio della memoria dell'autore che narra i fatti accaduti... o ricordati.
Il "decino" Gerd è l'autore, come l'autore è un bambino nel suo narrare. Ci chiederemo più avanti quanti autori esistono nel Birraio, o quante emanazioni di esso. Questo spiega in parte il carattere affabulatorio e il gusto del meraviglioso e del paradosso con il quale è tenuta la narrazione di tutto il romanzo. L'autore ricorda e racconta dei fatti storici, ma questi fatti sono appunto recuperati nella sua memoria di fanciullo e con quello stupore li racconta. Lo "stupore" è proprio uno degli elementi che bisognerà tenere da conto per sviluppare il racconto che in scena ne faranno gli attori.
Al bimbo Gerd e dunque lasciato l'annuncio al mondo dei grandi (il padre Fridolin Hoffer) della tragedia che incombe su loro, non su lui! E interessante osservare come Gerd/Camilleri narra, seppure sotto la mai sfilacciata ironia, il mondo degli adulti: minaccioso, di stazza enorme, violento, severo; verso il quale tuttavia ha rispetto, attraverso il quale egli vede e conosce il mondo (dalla finestra piccola il tramonto, da quella grande l'alba: così gli ha detto il padre!). Sa anche reinventarlo quel mondo insegnato dai grandi: dalla finestra piccola può capitare, incredibile a dirsi, di scorgere, nel pieno della notte, l'alba, e sfidare il sonno del padre pur di testimoniare questa esaltante nuova verità.
Annunciata la tragedia, tutto può tornare ad assumere la vera dimensione della problematica esistenziale del bimbo: quanto gli misura l'uccello? Sta in questa abilissimi "sentimenti del contrario" e piu' nuovi e azzardati rispetto a quelli pirandelliani - la maestria di Camilleri nel ribaltare le situazioni e nel non prendersi mai troppo sul serio, nel trovare il giusto distacco dalla pesantezza delle cose, affinché la realtà non si sovraccarichi di inutili pregiudizi. Dunque quella che all'apparenza si annuncia essere, e sarà, un'immane tragedia, ecco che viene puntellata da contrappunti deliziosissimi condotti sul filo del paradosso: il corno come sirena, la sveglia notturna fatta da Hoffer ai suoi uomini, la morte per scanto della vecchina, il paradosso della causa dell'incendio per la stonatura della soprano...
Proprio da tutto ciò e possibile parlare per Camilleri di poetica dello stupore. È questo meccanismo elettivo e narrativo insieme che sta alla base dei racconti camilleriani come dei suoi personaggi. Se ad esempio prendiamo quelli del secondo capitolo del Birraio, li troviamo già pronti drammaturgicamente per la scena e di per se esasperati dalla fantasia dell'autore. Sembra quasi che si svolgano nel ricordo di quei vecchi di paese con il gusto un po' vizioso di fare discussioni importanti e vitali sulla bazzecola della giornata. Con gli occhi di poi si ricorda il modo in cui quelle discussioni venivano sviluppate e condotte, ma senza fare a meno di confessarsi che l'oggetto della questione era, il piu delle volte, futile.
Ed ecco allora l'esasperazione dei caratteri, quel realismo fantastico che rende veri i personaggi solo quanto lo possono essere nella memoria di un vecchio bambino. Il tono è sempre quello stupito: come s'incazzava bene il cavaliere Mistretta, e che minchione era Giosuè Zito, e quel Bonmartino. Ma l'opera era la loro vita o no? Bellini o Mozart o Ricci era davvero una questione esistenziale? Nella misura in cui occupava il tempo del loro stare insieme e discutere e vivere nel circolo, E questo aspetto che gli attori dovranno cogliere in misura maggiore che altrove. Essi dovranno come credere,anche troppo, in ciò che faranno: quanto più seri saranno,tanto il farsesco verrà fuori, non voluto, non cercato, soprattutto non ammiccato.
Il linguaggio narrativo di Camilleri, pur partendo dal vero(un vero umano, più che storico) esorcizza continuamente la realtà, ponendola su un piano di continua metafora, di perenne analogia. E quale processo maggiormente creativo esiste nel meccanismo di interpretazione della realtà, presso la nostra mente, che quello analogico?!
La sua chiave è di certo il "riso", ma non quello alla Bergson, per intenderci, ma quello naturalmente pirandelliano, ed oltre quello pirandelliano, su percorsi non esplorati mai tentati di narrazione divertita e divertente, comica e tuttavia pregna di profonda serietà in Camilleri il filtro della ragione non è applicato a posteriori ad una realtà inaspettata, ma assimilato e sublimato ancor prima dei fatti. Egli non ha bisogno di dimostrare, ma di raccontare, di sapere, secondo il suo senso di realtà, come si sono svolti i fatti.
Ho sempre considerato Camilleri - nella vita, come nella scrittura un nuovo tipo di aedo moderno. Egli è un cantore di storie, pre-filosofico, cantore di miti senza l'intento lirico che permeava la poesia omerica o pre-operica.
Ma cos'è lo stupore in Camilleri e nel suo Birraio? Cos'è,questo meccanismo tutto nuovo che sembra venir fuori dalle pagine e dal suo modo di narrare le cose?
In una frase potrebbe tradursi come il tentativo di rendere sempre nuova ogni cosa nuovamente riproposta. È un giuoco della fantasia, sviluppato per gradi, per assonanze, per sottigliezze ed ironie, al fine di rendere unico e irripetibile il materiale e gli elementi, sebbene non ancora nuovi, della fiaba. Come ogni bimbo, in una sublime coazione a ripetere, ama stupirsi nel giuoco che fa di sé e delle cose del suo mondo mostrandoseli, come d'incanto, sempre nuovi, e nascondendoseli poi per poterli far riapparire al giuoco, così il racconto e l'affabulazione di Camilleri riescono a fare con le parole. Il mondo dei giuochi ha solo trasformato la materia - dai balocchi alle parole ma sempre dello stesso giuoco si tratta. E il primo a doversene stupire immagino sia lui stesso.
Tra il primo e il secondo capitolo, per esempio, c'è un legame sintattico, che sarà analizzato meglio più avanti, alquanto interessante e intrigante al proposito. Perché dal ricordo dell'incendio si passa al tempo in cui questa storia doveva aver avuto principio? Diremo poi del meccanismo letterario e espressivo del salto di tempo. Qui ci preme sottolineare quello che riguarda il processo di memoria della narrazione, nei ricordi di solito avviene così: si coglie il centro dell'episodio o dell'emozione che torna alla mente, ma subito, senza un preciso nesso logico si balza, avanti o indietro rispetto al tempo pensato, a ciò che ha scatenato ciò che si ricorda. Questo romanzo è, nella sua struttura narrante, come il ricomporre una tela, come il puzzle creativo che Camilleri fa comporre in un altro romanzo, a Montalbano e François. È come il recupero di una memoria intorno alle ragioni della fanciullezza perduta, bruciata nell'incoscienza delle azioni umane. Tutto si assomma per frammenti, si organizza parzialmente in un vasto disordine di memoria e fantasia. Tutto viene ripescato. Proust non è citato da Camilleri, ma quante assonanze in questo senso vi sono.
Il mondo di Camilleri è popolato di ricordi. Sono ricordi di fatti veri, vissuti direttamente o indirettamente. Filtrati, nell' assimilarli, attraverso una estrema sensibilità interpretativa, e restituiti alla coscienza mediante la nave della fantasia. Ma questo è il giuoco del suo stupore: ricostruire, senza un voluto ordine preciso, la mappa di una memoria fatta di volti, di suoni, di sguardi, di odori, di sottintesi e di tanto altro di umano. Ricostruita stupendosi di trovarla come nuova, lì, come per la prima volta: e invece vi risiedeva da anni! Stupendo noi perché ogni sembra mai narrato fino ad allora.
In quest'ottica stupisce tutto del suo mondo. Esso non è ordinato e razionale, ma disorganico e felicemente funzionante. I luoghi, i tempi dell'azione sono stravolti nelle loro regole. I personaggi non descritti, ma fatti parlare. Raramente si trova la descrizione di un personaggio se non per esaltarne un elemento utile al suo carattere (Don Memè). Molto spesso i suoi personaggi sono come caratteri, ove l'aspetto più importante e la loro tipizzazione più che la loro descrizione. E se questo deriva al Camilleri scrittore dal Camilleri teatrante, bisognerà, nella prospettiva di questa messinscena, stare attenti a non calcarvi sopra una mano più pesante.
Sono tuttavia personaggi da fiaba, come fiabe sono quelle che Camilleri racconta: v'è l'essenziale della storia e i meccanismi tra azione e personaggi, azione e morale sono perfetti. Il resto, il critico retaggio di molta postura letteraria, è lasciato intelligentemente da canto.

Principi di una riduzione

Da parte mia, parlare della riduzione, mi obbliga a esplicitare il cinquanta per cento delle ragioni che hanno condotto ad essa. L' altro cinquanta per cento lo rimando a ciò che Andrea vorrà esprimere su ciò, sapendo fin d'ora che, come così è stato per tutto il nostro lavoro, non privo di fasi e di cambiamenti apportati alla composizione, tutto quello che dirà sarà nell'ordine delle cose che insieme abbiamo stabilito. La complessità del romanzo sta solo nella sua struttura. Nell'uso del tempo della narrazione. Questa complessità è la sua forza. Era il primo problema che si poneva quando ci siamo chiesti come portare a teatro un'opera narrativa come Il birraio. Comunemente questo romanzo sembra essere ricordato da chi lo ha letto con molta complessità. Complesso è un termine che mi sono sentito ripetere ad una sorta di sondaggio privato. Se ne ricorda oltre che la storia, oltre il linguaggio, la sua rottura della convenzione narrativa nel tempo dell' azione, Ci siamo detti allora che l'andamento d tempo doveva essere come nel romanzo. Bisognava ovvero rispettare, per quanto possibile e per quanto teatralmente plausibile, la struttura del romanzo. Forse solo una disposizione diversa si sarebbe potuta ottenere nel caso in cui l'aziono narrativa non collimasse più con la necessità teatrale dell'azione, che pone il suo fondamento nella tenuta della durata del tempo, in termini di attenzione dello spettatore, più che sul tempo vero e proprio. E così è stato. Il romanzo, nella sua complessità è stato rispettato anche nella riduzione che da questo è nata. Il carattere affascinante di questo progetto, posto essenzialmente sulla novità del testo e della sua possibile realizzazione, si sposa tutt'uno con la possibilità di ricercare strade sempre nuove e diverse per la drammaturgia contemporanea.
Partendo da queste e da infinite altre considerazioni che sono confluite nella creazione di una messinscena, si è ipotizzata una sfida: per mettere in scena Il birraio bisognerà restituire quasi integralmente l'idea che sostiene la sua narrazione. L'idea di una riduzione per il teatro si sarebbe potuta arrestare di fronte al rischio che la parola parlata, a teatro, rubasse il senso della parola scritta di Camilleri. E nata così una lenta e capillare collaborazione tra riduzione e ipotesi di messa in scena, in modo che la peculiarità narrativa del romanzo non soccombesse all'importanza della rappresentazione; e che alle leggi della scena, non si sottomettessero, solo per convenienza, i liberi percorsi della scrittura letteraria. Si è curato, insomma, il principio per il quale il Teatro può farsi sentinella vigile e attenta di un tesoro prezioso, quale il romanzo è, restituendolo alla scena con l'amore e la fiducia con cui si accompagna ad un ballo una timida innamorata.
Si è fatto questo per tutti i settori della regia teatrale: si è curata una ipotesi di spazio che restituisse il senso dello spazio analizzato nel mondo di Camilleri: si è percorsa una scelta nei costumi che seguisse l'ipotesi ironica di una contaminazione molto vicina all'immagine dei personaggi che Camilleri dà: si è andati a recuperare un repertorio musicale che contestualmente accompagna la vicenda del birraio, usandolo alla maniera delle citazioni in testa dei vari capitoli del romanzo. Il palcoscenico. insomma, servirà la storia, e di essa ne farà fedele interprete.
Con il suo linguaggio, certo, con i suoi strumenti, che sono gli attori, innanzi tutto, le scene i costumi e via dicendo, perché così il teatro sa parlare ed è abituato a farsi capire, ma senza che questo voglia dover dire: dimenticate il romanzo, ora c'è il teatro. No. Ricordate il romanzo perché ora c'è il teatro!

Appunti per una regia

Una regia non può essere spiegata, ma preparata per appunti, forse sì.
Ci sono una serie di compiti che bisogna svolgere per apprestarsi ad una composizione organica di idee sullo spettacolo riguardo alla interpretazione de Il birraio di Preston di Andrea Camilleri. Il tutto ha radici nell'analisi del romanzo di cui si è dato sopra ampio resoconto.
I compiti, come lavoro di prima ricognizione, vanno elencati:

  • Bisogna elaborare una serie di passaggi teorici e virtuali del modo di raccontare un romanzo in teatro, prendendo magari alcuni campioni, e verificandoli sulla base del criterio che il prodotto non deve essere un'opera fondata su un testo teatrale, ma sulla coscienza di una trasposizione per il teatro.
  • Bisogna suddividere il romanzo in microframmenti di genere e vedere quali corrispondenze è possibile rintracciare in senso teatrale. Perché l'uso dei registri narrativi funziona a volte come in letteratura, ma non riesce a sorreggere l'attenzione del pubblico, se non è in qualche modo travestito.
  • Bisogna fare una sorta di catalogazione o di semplice raccolta associativa dei riferimenti figurativi e dell'immaginario di Camilleri. Ciò ci aiuterà ad individuare le possibili corrispondenze espressive.
  • Bisogna trovare delle regole alle corrispondenze interne del romanzo: anche se il mondo di Camilleri è volutamente disorganico il palcoscenico ha bisogno di costruirla quasi con razionalità questa disorganizzazione.
    Corrispondenze numeriche, di personaggio, di luoghi, ecc. Ciò che mi incuriosisce riguardo alle corrispondenze è perché credo che sia rintracciabile una sorta di processo di ricorrenze. Ovvero le cose, in questo romanzo, per essere veramente, devono ricorrere. Ricorre l'incendio, ricorre don Memè, rincorre le Bortuzzi o Puglisi, ecc., ma bisogna stabilire in che modo la loro ricorrenza è vita in che modo è ricordo (finzione).
  • Bisogna elencare e conoscere tutti i salti di realtà presenti nei vari capitoli. E farne buon uso nell'ideazione della messa in scena.
  • Bisogna inoltre porsi il problema della verità storica e della verità scenica.
  • Bisogna riflettere sul filone storico (i mazziniani, il Risorgimento).
  • Bisogna chiedersi se davvero ci vuole una struttura scenografica che sorregge l'azione e il suo tempo o se non invece proprio nessuna struttura, ma un luogo virtuale della memoria, della favola, del racconto.
  • Bisogna fare un'analisi strutturale di ogni scena evidenziando:
    a) Parole chiave
    b) Rapporto tra io diretto e indiretto dell'autore
    e) Azione di tipo.
    A) Centrale (Porta avanti la storia)
    B) Marginale (aggiunge particolari)
    O) Superflua (non indispensabile. ma con informazioni per lo spettatore)
    d) Tempo
  • Bisogna orientare la composizione delle scene, nell'aspetto solo d'immagine. sulla base del criterio chiave del ricordo:
    A) Ricordo pieno o completo -> Scena satura
    B) Ricordo parziale -> Scena piena. ma vista da un'angolazione
    C) Ricordo iniziale -> Solo particolari o elementi
    D) Spunto del ricordo -> Solo i personaggi: lo spazio non ha luogo.

    Fine di un lutto

    La vicenda del romanzo è una vicenda esemplare per rac contare oggi la Sicilia. L'eterna vacuità dell'azione siciliana, che spesso si traduce in un esasperato dispendio di energie per la futilità di un movente, è la metafora più evidente del romanzo. Ma quando mi sono accostato alla prima lettura, una sensazione, che è rimasta intatta anche dopo, prese subito corpo: la Sicilia narrata da Camilleri aveva concluso una elaborazione storica del suo lutto. Si era consumata definitivamente una geremiade antropologica e culturale di dannare e dannarsi per il proprio destino di vittime In un esempio sublime e divertito di narrazione dei caratteri la Sicilia e il suo mondo, come i suoi personaggi, venivano narrati sotto una luce solare, piena di nuances e vivida di colori. Non più la Sicilia delle madri, del dolore e della eterna dominazione dello straniero, ma quella del germe, futile e divertente ad un tempo, del paradosso siciliano: vivere della disdetta della propria natura, ed in più, riderci sopra. Questo è quello che subito mi aveva affascinato. Ed è questo quello che mi rimaneva da raccontare in una messinscena. Non più la Sicilia delle lacrime che piange sulla sua inconsolabile tragedia ma una Sicilia ironica e distaccata che riconosce finalmente di essere essa stessa causa del suo utile, e di rintracciarne i germi in una prassi naturale al paradosso. Ciò non significava a disconoscere il movente di un lutto legittimo e storico, ma, finalmente, non lamentarne più astrattamente la mancata soluzione. Con la vicenda di Camilleri sparivano di colpo dalla mia memoria gli adagi del mondo offeso, del siamo come dei e via discorrendo. Era come se si fosse compiuta, sullo specifico tema Sicilia, grazie anche a scrittori come Vittorini e Tomasi di Lampedusa, una catarsi che, per corso naturale, aveva illuminato il lato comico di quell'atteggiamento.
    Questa Sicilia, per certi versi anche un po' ridicola (e so bene quanto questo termine possa suonare offensivo a molti siciliani), un po' caricatura di se stessa, un po' per storia e per natura tragediatura, ma raccontata con gli occhi sinceri e non maliziosi di un siciliano, era la Sicilia che oggi era interessante raccontare. Questa Sicilia che non dimentica i morti, non dimentica i mali letali che cercano di consumarla inesorabilmente dal di dentro, che non dimentica il tradimento verso valori appartenuti a se stessa quando era culla di una civiltà, questa Sicilia oggi può senza timore ricominciare a parlare di se stessa con la necessaria ironia e distacco, affinché l'autocompiacimento delle virtù come dei vizi e dei dolori, non costituisca lo stagno dal quale diviene difficile uscire.

    Il mondo dei personaggi

    Si pone il problema di come raccontare, in termini di regia, la fiaba del romanzo. Molto spesso è utile inventare un racconto parallelo che giovi da guida per la creazione in scena dell'azione con gli attori sui personaggi.
    Tutto dovrebbe partire da lontano. C'è in fondo una finestra, forse illuminata da un lume, fuori e un buio dannatamente stellato, tanto da levare il fiato quanto è buio e quante stelle vi sono in cielo. Si intravede dietro quella finestra la figura di un bambino che, poggiate le mani sul vetro, guarda verso l'esterno. Improvvisamente un bagliore lontano, senza suono, senza rumori di scoppio, illumina l'esterno. Tra le luci di un incendio scopriamo la sagoma di case arroccate su una roccia marina. Anche il bimbo dietro la finestra ha visto tutto ciò. Allora si allontana come impaurito e lascia posto alla visione di quel paese sospeso nel nulla, quasi appeso teatralmente alla soffitta, ma senza contatto alcuno con la terra. E Vigàta, paese di fantasia e verità, sospeso nel tempo e nello spazio: esso ha cielo sopra, sotto e lateralmente. È il luogo della nostra fiaba. Con le stesse caratteristiche di sospensione lo spazio dell'azione dei personaggi lo accoglierà. Sarebbe già possibile adesso, se potessimo avvicinarci tanto a quel paese sospeso, vedere tutti i personaggi che vivono la loro vita. Una vita densa, non frenetica. Il "Circolo Famiglie e progresso" con i suoi vecchi fanciulli che giocano crudelmente tra loro con un certo affare di un'opera lirica che deve essere rappresentata contro il loro volere. È bello notare come questi signori, con le facce scavate dal tempo, dai pregiudizi, da un senso irrinunciabile di arretratezza, si divertano a fare bizzarri giuochi a metà tra la dialettica sofistica e l'insulto bello e buono. Ma scoprire subito questa bizzarra congrega ci fa sorgere il dubbio che la vicenda di cui discutono deve avere origini ben più lontane e conseguenze ben al di là da venire. Davvero!? E se tutto invece fosse già avvenuto. Se quell'immagine iniziale creata dal bimbo Gerd fosse il lembo di un ricordo che pian piano come un immenso lenzuolo stipato nei recessi della nostra coscienza, stesse tornando alla luce? Viene fuori irregolarmente, e le cose non si ricompongono secondo l'ordine con cui sono avvenute. E tuttavia ci portano dentro una storia che ha dell'incredibile, dello stupefacente, per il modo in cui siamo costretti nostro malgrado a raccontarcela. A stupirci è ad esempio quello che riguarda l'incipit di questa storia. Gerd, ne siamo quasi certi, deve aver visto con quel bagliore un incendio. E questo incendio - dove, quando? ci incuriosisce. Ma non ne tiriamo fuori ancora che dei brandelli di ricordo, i quali si impongono alla nostra attenzione. mentre seguiamo i fili di un racconto. Sono tanti i fili di questo racconto e man mano che procediamo ci accorgiamo che non stiamo facendo altro che dipanali dal groviglio della memoria. Li tiriamo fuori uno alla volta, ed ognuno di essi non è altro che un intreccio altri più piccoli che sono tanti altri grovigli di altri più piccoli. Insomma come una sorta di labirinto che ci permette di accedere alla storia attraverso altre storie.
    Il racconto che dobbiamo narrare ha uno spessore popolare. Non è sofisticato e non può essere raccontato in modo sofisticato. Pensiamo solo ai pcrsonaggi1 alla loro azione, allo scopo della loro azione all'interno dell'intreccio. Non sono portatori di un messaggio che riflette un "io" critico dell'autore, ma sono più funzioni della storia che è tutta una metafora popolare. I personaggi seguono e fanno seguire la storia: entrano in scena per portare ognuno un pezzo di racconto (iniziato e creato da un punto casuale da Gerd). L'ingresso dei soci del Circolo, Bortuzzi, Don Memè, Concetta, Gaspàno, Puglisi, Agatina, Gammacurta, Don Ciccio ecc. Ogni loro apparizione è di tipo diegetico. Solo le citazioni - peraltro apposte dall'autore - sono connotative, referenziali ad un contesto, culturale e di genere, altro. La metafora del racconto stesso è in certo senso autorefenziale: rimanda a sé' come i racconti orali, i miti, i racconti di fiaba. Ecco perché bisognerà destinare questo racconto ad un largo orizzonte di fiaba . Come nella lirica questo racconto ha la semplicità degli intrecci, presi ovviamente a sé, ma la complessità e l'articolatezza delle strutture espressive. Dunque tutto deve avere la semplicità popolare: le forme, i colori, l'uso dello spazio, le sonorità, la recitazione. Come popolare deve essere l'uso della contaminazione. E pur tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare da questo intento popolare. Poiché è necessario che ci sia un gioco nuovo nella conduzione del racconto. Il tempo dell'azione, la sua durata. l'immaginario e gli stessi personaggi devono essere trattati alla stregua di nuovi modelli. La loro verità deve essere continuamente spiazzata in una naturale contaminazione di generi e linguaggi. Dobbiamo riuscire a ricreare una poetica inusuale dello sguardo da consegnare al paziente spettatore. Bisogna fare in modo che il pubblico che ci viene a guardare ogni sera sia disponibile a guardare con l'occhio spiazzato di un bimbo la Fabula che gli recitiamo davanti. Guardare è un vedere interpretando. E tutto ciò si ha attraverso una visione poetica e non scientifica, della vita. Non bisogna dichiarare, ma illudere e giocare all'illusione. Lo sguardo di Gerd - che è pretesto poetico deve essere lo sguardo da prestare agli incantati spettatori in attesa di meraviglia, salvo poi svegliarli in ultimo, se sarà necessario.
    Cosa di questo racconto può essere più poetico e infantile? Sembrerebbe proprio il giuoco divertito composto sui personaggi: sono pieni di una visione del mondo, di un'idea su esso. Così concreti, ma così prodotti dalla fantasia. E come se degli uomini in carne ed ossa, con mille particolari che li fanno riconoscere come veri, vivessero in un luogo magico, incantato, inventato, acquisendo anch'essi un po' di quella magia, di quella fantasia, di quella follia e invenzione infantile della vita. In questo contrasto vivo sta il divertimento che abbiamo di loro. Ed è solo il luogo dove abitano che deve apparire stranamente magico. Non dichiaratamente, senza ammiccamenti a mondi fiabeschi triti e ritriti, ma per una naturale conseguenza delle caratteristiche stesse del luogo. Esso ha la magia in sé. Contiene in se' una dimensione che dapprima non è possibile scorgere. E apparentemente reale, ma poi diventerà sospeso come fosse il luogo plausibile di un altro mondo.
    E i personaggi hanno consapevolezza di ciò? No, guai! Non potrebbero viverci. Si romperebbe l'incanto. Ed il pubblico deve invece vedere questo incanto: uomini concreti che vivono in un mondo sospeso.
    Alla luce di quanto detto viene fuori una sommaria suddivisione.
    A) Il mondo dello spazio scenico è nella fantasia.
    B) Il mondo dei personaggi; è nella realtà
    Questo rapporto va segnalato. I personaggi dovranno entrare in scena attraverso un meccanismo che non denunci il loro ingresso in modo naturale. Saranno quasi trasportati in scena dal tempo, o addirittura li troveremo lì da tempo. E l'attore che interpreta un personaggio dovrà costituire la sinapsi di collegamento tra una scena e l'altra, tra un frammento di storia e l'altro, tra un personaggio e l'altro. Ovvero, se i cambi di scena saranno occultati, non lo sarà il cambio di ruolo che compie un attore da un personaggio all'altro Questo varrà per tutti, tranne che per tre personaggi: Bortuzzi, Puglisi, Ferraguto, che in ragione di una loro caratteristica di non appartenenza e in virtù del fatto che sono più portatori di una visione del mondo che di una funzione, vanno isolati nell'interpretazione di un solo attore per ciascuno. Tutti e tre non appartengono alla società che rappresentano. Bortuzzi e un prefetto che cerca di essere al di sopra della legge e dell'opportunità per fini di capriccio; Ferraguto è uno che contravviene alle stesse regole della società d'onore alla quale si vanta di appartenere per una intesa con lo "straniero"; Puglisi si mette al di sopra della legge e della corretta istruttoria di un decesso per un fine di passione e d'amore. Tutti in modo più compiuto e coerente rispetto agli altri personaggi.
    Su tutti viaggia, come un filo conduttore, un personaggio nuovo, non presente apparentemente nel romanzo, ma esplicitato dalla riduzione teatrale: l'Autore.
    Serviva, nel momento in cui ci siamo apprestati a portare in forma drammatica il romanzo, uno strumento narrativo che il teatro non ha naturalmente in sè. Una terza persona che tenesse, come Camilleri fa nel suo narrare, il filo del cunto, l'orizzonte della fiaba, senza che questo diventasse intellettualisticamente straniato in tutti i personaggi. Serviva anche alla messinscena una figura che costituisse l'elemento creativo in corso di azione, non totalmente implicato nella storia. Se la metafora è che 1'autore Gerd, delegato dall'autore Camilleri, ha trattato per fantasia un certo tipo di materiale storico per farne un romanzo, l'Autore come personaggio delegato dall'autore dello spettacolo tratterà un certo tipo di materiale romanzesco per farne teatro. Si giuoca tutto sul crinale della finzione. come atto che plasma la materia in un equazione creativa del tipo
    Autore : Romanzo = AUTORE : Azione scenica
    Nasce così una ipotesi estremamente interessante che supera l'impasse della difficoltà di rendere materia teatrale ciò che non lo è e che difficilmente, a meno di non snaturarla, lo può da sola diventare. Allora bisogna condurla dentro il palcoscenico con una sorta di protezione, una custodia, affinché il suo passaggio conservi genuinità ed esalti efficacia narrativa. La difficoltà tra drammaturgia e romanzo andava, in certo qual modo, dichiarata, raccontata anch'essa. Attraverso la figura, chiamata allo stesso modo Autore, ma che rappresenta tante cos'è un Dramaturg, per esempio, come risonanza scenica di Gerd-Camilleri, posto di fronte ad un problema creativo di una materia oggettiva. Gerd racconta i fatti accaduti quarant'anni prima (ed e finzione della sua memoria); Camilleri racconta Gerd che racconta questi fatti, per salvaguardare con pretesto letterario sua finzione sugli avvenimenti; il Dramaturg finge di narrare Camilleri che narra... ecc; il regista mette in scena il dramaturg come una sorta di alter ego per narrare un atto creativo condotto dal Dramaturg... ecc. Tutto ciò al fine anche di esplicitate quanto to il processo di trasformazione, di trasduzione e di transcodifica da romanzo a teatro sia tutto nell' atto creativo dell' Autore tout court. Ecco allora che la materia che l'AUTORE in scena in narra è usata come la usa l'autore del romanzo e della storia (Gerd): come materia che va, viene, si trasforma, ritorna e si ripete. È lui il filtro per la comprensione di quel mondo.
    Ne è derivato che ogni capitolo, corrispondente a delle scene venisse elaborato all'interno di se stesso. Attraverso il filtro dell'AUTORE è possibile viaggiare dentro il mondo del romanzo. È come una terza persona che garantisce percorsi non scontati, dove il suo ruolo è più quello di indicare la porta da aprire che aprirla.
    Ma il nostro AUTORE non è solo funzione. Esso è soprattutto Un personaggio teatrale. Ovvero deve valere ai nostri occhi, una precisa visione del mondo e dell'arte. Con lui, che interviene dal vivo. discretamente, sulla materia del romanzo, bisogna prendere o non prendere posizioni su varie sollecitazioni che provengono dal romanzo stesso.
    Egli può infatti:
    A) Portare avanti la "terza persona", narrando il narrabile, suggerendo il possibile, indicando l'accadibile.
    B) Mimetizzarsi nell'azione attraverso uno dei personaggi
    Con questa soluzione si cercherà di aiutare il rapporto espressivo di due chiavi che necessitano ad una messinscena del nostro tipo: l'epico e l'illusione. La prima verrà indicata dalla regia, attraverso gli attori, la recitazione, i costumi, le luci, gli oggetti ecc... La seconda sarà ottenuta attraverso effetti di trasformazione di dati visti come reali e concreti.
    L'esempio comune è quello: "io trovo quella sedia e ne faccio il mio cavallo, la mia capanna, il mio cappello...". Ma nel caso nostro sarà vero quando il luogo dell'azione si aprirà su orizzonti visivi che non si erano percepiti, quando un oggetto sarà anche altro rispetto a ciò che serve, quando non necessariamente bisognerà descriverlo tutto un costume, ma narrarlo possibilmente per contaminazione. Così potrà avere forza la materia di un romanzo rivivificata nella idea di teatro.
    Giocheremo a farlo il teatro, senza più sottolineare questo giuoco, ma eseguendolo, semplicemente come eseguono il giuoco dei bimbi divertiti.

    Sullo spazio

    Come primo quesito in ordine allo spazio si pone il problema di Vigàta. Cos'è Vigàta? Ma soprattutto dov'è? Rinuncio subito a cercare una collocazione topografica e geografica a questo ricorrente paese camilleriano. Vigàta è per me il luogo dove coesistono tutti i racconti di Camilleri, tutte le sue storie e rappresenta, in uno, la sua memoria. Vigàta deve essere anche la nostra macchina della memoria. Noi potremmo raggiungere questo luogo della memoria così concreto, ma così sospeso nel tempo e nello spazio, dove i ricordi stanno rintanati nelle cose che volta a volta disveliamo d'incanto senza che ci sia volontà di farlo.
    Se ha una topografia non può essere che magica. Solo dentro questa immagine di luogo concreto e sospeso ad un tempo è possibile svolgere la nostra storia. Vigàta è un paese reale ed immaginario ad un tempo; è il luogo della memoria dove si riannodano tutte le trame della realtà che è sì sempre uguale a se stessa, ma è anche ogni volta irripetibilmente diversa.
    Tutti possiamo entrare nel paese di Vigàta, come in una fiaba. Senza che ciò abbia nulla di banalmente fanciullesco, semmai di primigenio, di ancestrale.
    È il luogo creato dallo sguardo di Gerd che scopre l'incendio, creandolo, in un certo senso, mentre lo guarda. E questa topografia magica si tinge dei colori della memoria, che sono tanti, infiniti e a volte neppure precisabili, Vigàta sembra non avere tempo, in realtà il suo tempo è condensato come in un grande buco nero: se entri da una porta puoi, senza razionale spiegazione, ritrovarti ad un uscita opposta. Perché in Vigàta coesistono il tempo del Birraio come quello di Salvo Montalbano, e sembrano scorrere insieme, senza che l'una infici l'altra.
    A mio avviso tutto questo è possibile solo se lo si considera all'interno di una rappresentazione della memoria. Un mondo virtuale che nessun moderno microprocessore saprebbe restituire, fatto della stessa sostanza dei sogni, che ci appare, nella vicenda del Birraio, per brandelli di ricordo. Tanti brandelli evocati restituiscono l'immagine complessiva di un mondo per nulla ideale, ma disperatamente, e paradossalmente, realistico.
    Questa topografia stessa è fatta della sostanza dei sogni, così veri perché in essi si ha fiducia. Si potrebbe già dare un percorso a questa idea: il luogo scenico e il luogo della fantasia e della memoria.
    Altro sarà per noi quello dei personaggi. Il primo non potrà dettagliare la sua realtà, ma indicarla, o meglio, definirla per scelta. Chiederò dunque allo scenografo di pensare in funzione drammaturgica lo spazio, con la priorità di talune caratteristiche che siano:
    a) Rispetto di dodici luoghi deputati all'azione
    b) Vigàta è un contenitore metaforico di elementi di memoria
    c) Il suo luogo fisico deve poter essere sospeso, con l'aggiunta di uno sfondamento visivo anche lateralmente.
    d) Non può esistere l'opzione di un cambio architettonico per il cambio di scene.
    e) A questo proposito va meglio spiegato che esiste una contemporaneità di spazio e tempo che suggerisce una chiave interessante per la narrazione della vicenda del Birraio. Tutto avviene, superando le dimensioni spazio temporali, e sfruttando al massimo le convenzioni narrative del romanzo, nel medesimo tempo e nel medesimo spazio (non quello della verosimiglianza, ma quello della finzione narrativa: ovvero l'occhio del lettore). Bisogna immaginarlo come un percorso circolare; io mi trovo al centro e tutto attorno e già avvenuto il racconto. Posso, a secondo che mi muova in un senso o nell'altro, venire a capo di tutta la storia senza tema di inficiarne la comprensione.
    f) È dunque la linearità organica e giustapposta dell'azione che viene abilmente superata e trasformata, come avendo una macchina del tempo, in un personale percorso narrativo. Faccio un esempio: io posso seguire, come nel romanzo, il racconto dal capitolo I dell'incendio (Hoffer che accorre a Vigàta) al capitolo XXIII delle tre morti, seguendo l'ordine suggerito dall'autore, ma posso anche procedere all'inverso ed ottenere lo stesso effetto, o partire dal centro e procedere a salti e così via senza che muti l'impianto narrativo del romanzo stesso.

    Giuseppe Dipasquale




  • Last modified Tuesday, October, 22, 2013