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Camilleri e la ‘sicilianità letteraria’

Le tecniche espositive del giallo con particolare ri ferimento alle opere di Andrea Camilleri



Salvatore Guglielmino, nel breve saggio Presenze e forme nella narrativa siciliana, analizza la sicilianità letteraria, vale a dire "la presenza nell’opera di quei dati e di quelle componenti che si ritengono specifici della sensibilità e del modo di essere siciliani" (1). In questo saggio la sicilianità viene intesa come il comune denominatore della produzione degli autori siciliani, dai veristi fino ad oggi.

Una prima importante caratteristica della letteratura siciliana è il canone del realismo. Dai veristi in poi, gli scrittori siciliani cercarono di ritrarre in maniera fedele la società siciliana, soffermandosi su alcuni elementi come la casa, la ‘roba’, la vita contadina, il tipo di società arcaica, le storie d’amore, la mafia, e i delitti per vendicare l’onore. Gli autori della Sicilia occidentale, come Pirandello, Sciascia, Rosso di San Secondo, Alessio Di Giovanni, Nino Savarese, Francesco Lanza, diedero molta importanza all’ambiente della solfatara. Anche Camilleri, in Un filo di fumo, si occupa del mondo della solfatara, narrando la vicenda di uno sleale commercainte di zolfo, Salvatore Barbarbianca. Nelle opere di Camilleri così come in quelle degli altri autori citati, la descrizione della vita siciliana non ha alla base scopi sociologici o antropologici, ma rimane nella sfera dell’arte. Inoltre è difficile stabilire quanto corrisponda alla realtà effettiva e quanto sia dovuto alla storia interiore o alla visione del mondo elaborata dall’autore. Il complesso rapporto tra realtà e immaginazione è preso in esame da Enzo Papa ne La Sicilia nella testa, in cui mette in rilievo il seguente concetto: "Ordunque, amico caro, la / Sicilia non esiste. Essa è una / favola, un’invenzione: la / Sicilia, quella vera, è nella / testa"(2). Giovanni Verga, malgrado fosse uno scrittore verista, tradì alle volte il canone dell’imparzialità a cui voleva attenersi, lasciandosi influenzare da una sua particolare visione del mondo (3). Andrea Camilleri agisce in maniera analoga facendo trasparire dai suoi romanzi una sua idea della Sicilia, al punto da dichiarare che "ognuno la Sicilia la vede alla sua maniera" (4).

Uno degli elementi della realtà siciliana che ricorre spesso è la mafia. Pietro Mazzamuto individua nelle opere dei siciliani la figura del "mafioso aureolato" (5) ovvero uno stereotipo romantico del mafioso. Questo ‘mafioso aureolato’ è diverso dal delinquente comune, e anzi opera contro chi detiene il potere per difendere gli abitanti locali. La sottomissione allo strapotere dei vari governi che facevano solo i propri interessi e non quelli della Sicilia, spinse i siciliani, nel corso dei secoli, a creare un sistema di difesa, una sorta di controgoverno che ripari ai torti e alle ingiustizie. Ma poi, con il passare del tempo, la mafia si trasformò in una semplice associazione criminale. Questo cambiamento fu avvertito dai siciliani, e già nelle opere di Sciascia (Il giorno della civetta e A ciascuno il suo) la mafia è vista in maniera meno romantica, e anzi vengono denunciati i rapporti illeciti tra la mafia e lo Stato. In realtà anche Sciascia fu condizionato dalla visione romantica della mafia tanto che ne Il giorno della civetta Bellodi classifica il mafioso Arena tra gli ‘uomini’ (6). Andrea Camilleri, dal canto suo, ne La gita a Tindari accetta l’idea che la mafia nacque come un sistema protezionistico creato dai cittadini per difendere sé stessi, ma contemporaneamente è consapevole che la mafia odierna sia una degenerazione di quella tradizionale (7). Sempre più la mafia viene ripudiata dai siciliani, i quali, nonostante una diffidenza radicata nel loro animo, credono che lo Stato possa risolvere i loro problemi. La scelta di Camilleri di avere come investigatore una figura istituzionale implicitamente rimanda alla nuova fiducia dei siciliani nei confronti dello Stato.

È singolare il fatto che nella stagione del neorealismo la Sicilia non abbia avuto un esponente di primo piano. Questo è dovuto al fatto che in Sicilia le opere di stampo realista assunsero connotazioni particolari, quasi che la realtà costituisse un pretesto per condurre un’analisi sociale, e uno stimolo per riflettere sull’esistenza umana. Ad esempio ne Il sarto della stradalunga, di Giuseppe Bonaviri, un sarto decide di mettersi a scrivere la propria storia, e scrivendo si rende conto della necessità che il mondo cambi. Similmente ne Le parrocchie di Regalpetra Sciascia vuole rintracciare gli ostacoli che si oppongono alla realizzazione di una ‘vita associata secondo ragione’ (8), passando poi all’analisi del degrado delle istituzioni civili e politiche. Sciascia e gli altri autori siciliani di quel periodo, trattando questi temi, sentirono la necessità di fornire degli ‘exempla’ per non lasciare il discorso su un piano astratto. Inoltre, come sostenne Gramsci, ‘si serve meglio l’interesse generale quanto più si è particolari’ (9). Quindi questi scrittori malgrado ambientino le loro vicende in Sicilia, fanno un discorso universale.

L’autore che trattò con maggior assiduità temi universali fu Elio Vittorini, nelle cui opere la descrizione della realtà assume una valenza simbolica che trascende la realtà descritta (10). Attraverso le sue opere Vittorini propose "progetti per una nuova civiltà alternativa e diversa dalla realtà visibile" (11). Nel gennaio 1946 pubblicò, ne "Il Politecnico", la presentazione del primo numero di Les temps modernes, una rivista diretta da Jean-Paul Sartre, in cui elaborò il concetto di ‘engagement’ ovvero l’impegno sociale e civile degli artisti, per combatte le ingiustizie sociali. Nel breve racconto Nome e lacrime Vittorini fa dire a Ezechiele: "Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso (12). Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso". Poi in Conversazione in Sicilia e in Erica e i suoi fratelli condanna tutte le situazioni che perpetuano il ‘mondo offeso’. Invece ne Le città del mondo vi è l’utopistica fiducia in una dimensione di vita a misura di uomo e rispettosa delle sue esigenze.

Con Vittorini venne alla luce la letteratura d’impegno che ebbe in Sicilia grandi cultori come Sciascia e Consolo, che sono accomunati dalla passione civile e dalla curiosità per la storia, anche se entrambi adottarono strategie diverse. Vincenzo Consolo ripercorse alcune tappe della storia, sia gli eventi del passato più remoto (Il sorriso dell’ignoto marinaio) che quelli più vicini nel tempo (Lo spasimo di Palermo). La rilettura della storia gli consentiva di riflettere sulla presenza del male nel mondo, soffermandosi sulle contraddizioni della vita. Quindi l’opera di Consolo va intesa come un tentativo di educare le persone e favorire un maggior impegno civile da parte loro (13). Per raggiungere l’obiettivo, gioca un ruolo importante il linguaggio che Consolo usa in maniera straniante.

Diverso è il caso di Leonardo Sciascia che assunse il compito di "coscienza critica della società civile" (14), con l’intento di smascherare le contraddizioni del mondo coevo. Il suo obiettivo fu quello di combattere le ingiustizie del mondo, spinto anche da "una disposizione ‘illuministica’ che cerca nella razionalità lo strumento principe dell’ordine delle cose" (15). Secondo E.Ragni e T.Iermano, "Le ambiguità e le contraddizioni del mondo attuale costituiscono i bersagli di uno scrittore sempre alla ricerca della semplicità delle cose, costantemente impegnato nello smascheramento delle contraddizioni di un tempo presente ‘assai greve’" (16). In un paese che metteva in dubbio l’esistenza della mafia, Sciascia sentiva di dover denunciare i rapporti illeciti tra la mafia e lo Stato. Di questo stato di cose Sciascia fornì un’esemplificazione narrativa, facendo uso dello schema del giallo (Il giorno della civetta e A ciascuno il suo). Oltre al rapporto mafia-Stato, Sciascia rivelò altre magagne del mondo politico, utilizzando sempre lo schema del giallo: Il contesto e Todo modo. L’impegno civile di Sciascia non si esaurisce nei suoi gialli, ma anzi caratterizza tutta la sua produzione artistica. Così ad esempio ne L’affaire Moro Sciascia riconosce nella figura del politico democristiano ucciso dalle Brigate Rosse "la vittima di una perdita definitiva dei valori etici dello Stato, perdita che segna il trionfo dell’inumanità e dell’ipocrisia sui valori morali e civili" (17).

Un altro leitmotiv delle opere degli autori siciliani è la delusione per il fallimento (18) degli ideali risorgimentali. I siciliani nutrivano grande fiducia in quelle persone che stavano costruendo il nuovo stato, credendo che in questo modo sarebbero usciti dalla loro secolare arretratezza. Però l’unità politica finì per aggravare i loro problemi e allora l’unità fu valutata come un fallimento, come si evince da opere tipo: I vecchi e i giovani di Pirandello, I Viceré di De Roberto, Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Il sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo e Il quarantotto di Sciascia.

La delusione per ciò che successe in Sicilia in seguito all’unità politica d’Italia è un tema centrale nelle opere di Camilleri, specialmente nel suo filone di ‘romanzi storici’ (19). La Sicilia, in Un filo di fumo, è paragonata a un albero malato, e in questa circostanza l’autore condanna i vari commissari che ne constatarono la malattia senza curarla. Camilleri esprime le sue idee a proposito dell’unità politica d’Italia attraverso le discussioni che hanno luogo al circolo di Vigata. Il Piemonte viene visto come un nuovo dominatore-oppressore, e infatti prima che Garibaldi arrivasse in Sicilia esistevano tremila telai nell’isola, mentre dopo l’unità si ridussero a meno di duecento, con la conseguenza che il materiale arrivava da Biella a doppio prezzo (20). Le parole conclusive: "non c’è niente da fare, inutile dannarsi l’anima e tribbolare, al mondo c’era chi nasceva in un modo e chi in un altro, cu nasci tunnu non può moriri quatratu" (21) ricordano la celebre frase gattopardesca "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi" (22). Le stesse idee si trovano in altri romanzi di Camilleri come La bolla di componenda, in cui viene attaccata, con toni aspri, la commissione parlamentare che volontariamente non seppe e non volle capire la Sicilia. Oppure ne La concessione del telefono in cui si satireggia il nuovo apparato burocratico messo in piedi dal governo subito dopo l’unità d’Italia. In questo romanzo si segue la vicenda di Filippo Genuardi che, dopo aver chiesto una linea telefonica per uso privato, si vede perseguitato da un prefetto che ha gravi turbamenti psichici. Invece ne Il birraio di Preston vi è la delusione di Pippino Mazzaglia, un garibaldino, nel constatare che lo Stato manda l’esercito per sedare le proteste della gente che muore di fame. In questo romanzo l’episodio del prefetto Fortuzzi che si ostina a mettere in scena il melodramma ‘Il birraio di Preston’, mentre gli abitanti locali preferirebbero un’altra opera, simboleggia i sopprusi dei funzionari settentrionali giunti in Sicilia dopo l’unità.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa segna la fine dell’ottimismo che animava i neorealisti. Partendo dall’esperienza risorgimentale, che è un esempio lampante di scarto tra le speranze e la realtà, trasse la norma che regola le vicende umane. Il suo discorso è universale, mentre la Sicilia è solo una ‘localizzazione storico-geografica’ del suo sentire. Da una lettura attenta de Il gattopardo si ricava la visione della vita dell’autore (23), di cui si fa portavoce il Principe Salina. Salvatore Guglielmino scrive, a proposito del Principe Salina, che "le sue ‘teorizzazioni’ (il lungo colloquio con Chevalley) [finivano] col coincidere, lo ripetiamo, con la negazione dell’agire umano, con una insuperabile vocazione all’annullamento, con una lucida contemplazione della morte" (24). Anche Bufalino, in Diceria d’untore, riporta le avvisaglie del disfacimento incombente della vita, cogliendo nella realtà "l’inesorabile processo di sfaldamento e di decadenza che corrode l’uomo" (25). In entrambi i casi la vita viene vista come progressivo avvicinamento alla morte, concetto reso in maniera mirabile ne Il gattopardo:

Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia.

[…] la sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere, anzi questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione per così dire, della sensazione della vita […] (26)



Gli stessi temi si ritrovano pure nelle opere di Stefano D’Arrigo, nella cui opera maggiore, Horcynus Orca, l’orca marina è simbolo "di una implacabile forza distruttrice che il mondo ha in sé" (27). In maniera analoga in Cima delle nobildonne un team di medici, mentre allesta un museo della placenta, scopre alcuni elementi killer insiti nella struttura genetica dell’uomo, come per indicare che la morte è presente già nelle radici della vita.

I temi cari a Tomasi di Lampedusa, a Bufalino e a D’Arrigo compaiono anche in alcuni romanzi di Andrea Camilleri, come ad esempio ne La stagione della caccia. In questo romanzo Fofò La Matina, all’appressarsi della morte, s’accorge dell’inutilità delle sue azioni: "Per tanti anni mi sono incaponito a volere una cosa e quando finalmente l’ho avuta mi sono addunato che non ne valeva la pena" (28). Capecchi valuta La stagione della caccia come "il romanzo dei sogni che svaniscono, della solitudine, della distanza che separa ciò che si desidera da ciò che si riesce ad ottenere" (29). Un altro esempio si ha in Pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili in cui c’è Ettore Ferro, che da vent’anni non butta via niente, neppure i suoi rifiuti organici. Il commissario riflettendo su questo comportamento conclude che si tratta di un metodo per vincere la morte, "un ingenuo desiderio d’immortalità" (30).

La Sicilia, nella seconda metà dell’Ottocento e in tutto il Novecento, fu all’avanguardia della letteratura italiana. Non a caso il movimento verista ebbe come protagonisti principali i siciliani, mentre fu un altro siciliano, Pirandello, che diede avvio a un nuovo tipo di romanzo. Pirandello teorizzò l’impossibilità di avere certezze, il disorientamento, la realtà che può essere interpretata in vari modi. Camilleri, diversamente, crede che si possa arrivare a scoprire la verità, e ad esempio ne La revisione Montalbano sostiene di avere sempre la certezza della colpevolezza delle persone che accusa.

Il pirandellismo è una diretta conseguenza della riflessione dell’autore sulla società nella quale viveva, tanto che Gramsci sostenne che la filosofia pirandelliana prende spunto dalla realtà siciliana più che dalla crisi delle certezze positivistiche. I personaggi pirandelliani sono, secondo Gramsci, personaggi "reali, storicamente, regionalmente popolani siciliani (31), che pensano ed operano così proprio perché popolani e siciliani". Così ad esempio il comportamento di Ciampa, ne Il berretto a sonagli, è dettato dal rispetto di un codice comportamentale che regola la vita all’interno della società siciliana. La tesi di Gramsci è confermata da Camilleri in Being here…, in cui narra la vicenda pirandelliana di Carlo Zuccotti che, ritornato dopo svariati anni dall’America, trova il suo nome in un elenco su un monumento ai caduti. Questo personaggio professa le seguenti parole:

Lo vede, commissario? Il nostro quasi compaesano Pirandello non aveva bisogno di tanta fantasia per inventarsi le cose! Gli bastava trascrivere quello che succede realmente dalle nostre parti! (32)

Le opere di Camilleri non hanno nulla a che vedere con la filosofia pirandelliana, anche se la pazzia è presente in molti dei suoi testi, specialmente nei suoi romanzi storici. Però Camilleri utilizza la pazzia come un pretesto per far sorridere, quello che Capecchi chiama "la tendenza a sdrammatizzare, a ridurre la tragedia in farsa" (33). Infatti Camilleri, nelle sue opere, tende ad attenuare i colori forti della realtà, di fatto un "tentativo di ridurre la tragicità della vicenda a una farsa" (34) per cui "la Sicilia viene fuori come distillata" (35). In modo da ottenere questo effetto Camilleri dà ampio spazio a elementi come la pazzia e l’erotismo. Un’ampia galleria di personaggi pazzi è fornita ne La stagione della caccia. Già dalle prime pagine il lettore viene a conoscenza di don Federico Maria che non si lava da anni, e che per morire va a gettarsi in mare. Al momento del ritrovamento del corpo, uno dei presenti commenta: "Praticamente è morto lavandosi" (36). Anche gli altri membri della famiglia sono pazzi, a partire da Filippo Peluso che cerca in tutti i modi di ingravidare la moglie e avere così un figlio maschio. Finalmente questo figlio tanto desiderato nasce, ma ha gravi disturbi psichici tanto che si innamora di una capra. In tutti questi casi la pazzia serve per attenuare la tragicità della vita, e crea un effetto comico. Si tratta di personaggi capaci di far sorridere, mentre quelli pirandelliani sono rappresentanti di una situazione reale, e tendono a mettere a nudo il disagio dell’uomo novecentesco.

Un’altra importantissima caratteristica comune agli scrittori siciliani è lo sperimentalismo linguistico, a cui diede inizio Giovanni Verga. Gli storici della lingua asseriscono che in Italia, per tanti anni, esiteva una situazione di diglossia: la lingua italiana per lo scritto, e il dialetto per il parlato. Questa situazione era più accentuata nelle regioni meridionali a causa della poca mobilità sociale e del più elevato grado di analfabetismo. Inoltre, essendo la Sicilia un’isola, l’isolamento linguistico fu maggiore. A causa di ciò il dialetto, a differenza della lingua italiana, aderisce meglio alla realtà siciliana. Da parte loro, gli scrittori siciliani, scrivendo in italiano, sentirono la necessità di trasportare elementi linguistici dal dialetto all’italiano. Quindi si parla della "vocazione formale" degli autori siciliani, cioè "la particolare cura e quasi la pervicacia dedicate alla elaborazione di una scrittura fortemente connotata sul piano espressivo, alla vera e propria ‘invenzione’ di uno stile" (37).

La lingua di ogni autore va studiata a parte perché ognuno crea o rielabora moduli linguistici in maniera propria. Così ad esempio Antonio Pizzuto distinse tra ‘narrare’ e ‘descrivere’, e rinnovò la struttura narrativa. Invece Vincenzo Consolo agì per lo più sulla lingua, alternando all’interno delle sue opere diversi registri espressivi (38). Inoltre conferì alla lingua una funzione straniante, con la quale mette a nudo le contraddizioni della società. Anche Stefano D’Arrigo sperimentò sul codice linguistico, andando alla riscoperta di quei suoni più antichi della sua terra. In questo modo la rielaborazione della parlata dello Stretto di Messina conferisce una veste epica a Horcynus Orca. Diverso è il caso di Gesualdo Bufalino, il quale utilizzò la lingua in modo ‘restaurativo’, vale a dire riscattò la lingua dal suo appiattimento, ripristinando i valori tradizionali dello stile e della letteratura. Quindi Bufalino non infranse il codice linguistico ma semplicemente restituì la lingua alla sua tradizionale dignità letteraria. Anche Camilleri sperimenta sul linguaggio, ma questo tratto verrà preso in esame in una fase successiva.

Infine va segnalato che nelle ultime decadi del Novecento, molti scrittori dell’area agrigentina ottennero grande successo in campo letterario. Tra questi vanno segnalati Alfonso Gueli, Matteo Collura, Enzo Lauretta, Antonio Russello, Pasquale Hamel, Gaetano Savattieri, Costantino Chillura, Stefano Milioto, e Lara Cardella.Salvatore Ferlita è dell’opinione che "Parlare di Luigi Pirandello o di Leonardo Sciascia a proposito degli scrittori agrigentini viventi significa fare riferimento ad una vera e propria declinazione letteraria, per certi versi inscindibile ma ingombrante" (39). Di certo questo discorso può essere allargato a Camilleri, che ha grande ammirazione per le opere di Pirandello e di Sciascia. Per quanto riguarda il primo va ricordato che Camilleri mise in scena molte delle opere teatrali di Pirandello e sul suo conto scrisse parecchi lavori. Altrettanto sentita è l’ammirazione per Sciascia, che Camilleri chiama il suo ‘elettrauto’ perché quando "[ha] le batterie scariche si legge un suo libro"

Matthew Scerri

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(1)Il saggio è contenuto nel libro Narratori di Sicilia curato da Leonardo Sciascia e da Salvatore Guglielmino, Milano, Mursia, 1994, pp. 483-506. La citazione si trova alla pagina 483.

(2) Enzo Papa mette queste parole come epigrafe al suo La Sicilia nella testa (Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1991). Nella nota editoriale, che si trova sul risvolto di copertina, si legge: "ciascuno inventa la propria Sicilia che, paradossalmente, è tanto più vera quanto più è inventata. Del resto essa si presta e si è sempre prestata ad ogni pregiudizio, ad ogni mitologia, ad ogni enfasi, mantenendo tuttavia inalterati i caratteri distintivi che la fanno propriamente Sicilia, terra impareggiabile e impareggiata". Salvatore Guglielmino scrive a tal proposito: "Verga rappresenta il mondo siciliano alla luce delle conclusioni ideologiche cui era arrivato e, con immancabile pessimismo, dei processi di trasformazione in atto a fine Ottocento vedeva solo il tributo di lacrime e di sangue che essi comportavano, constatava amaramente lo scardimanento di una società patriarcale, privilegiava le figure dei vinti 'che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei vincitori'" (Presenze, cit., pp.485-486).

(3)Salvatore Guglielmino scrive a tal proposito: "Verga rappresenta il mondo siciliano alla luce delle conclusioni ideologiche cui era arrivato e, con immancabile pessimismo, dei processi di trasformazione in atto a fine Ottocento vedeva solo il tributo di lacrime e di sangue che essi comportavano, constatava amaramente lo scardimanento di una società patriarcale, privilegiava le figure dei vinti 'che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei vincitori'" (Presenze, cit., pp.485-486).

(4) Internetvista del 23 gennaio 2001, trascritta da Paola Rossi, in "The Camilleri's Fan Club", http://www.angelfire.com/pa/camilleri/internetvista.html, gennaio 2001. In questa stessa occasione Camilleri aggiunge: "la Sicilia non è mai quella che un autore rappresenta". Quando poi la giornalista gli chiede se questo discorso deve essere allargato a Verga e a Pirandello, Camilleri risponde in maniera affermativa. Questo concetto sembra essere confermato da quello che Claudio Fava scrive in Fava intervista Camilleri (intervista pubblicata su "Sette" del novembre 1998): "Scusi ma che razza di Sicilia è questa? Lo penso ma non oso chierderlo. Camilleri risponderebbe, giustamente sprezzante: è la mia. Con quel senso di onesta presbiopia che porta ciascun siciliano a eleggere le pietre di casa propria centro dell'universo, come faceva Dalì con la stagione di Perpignan".

(5)P.MAZZAMUTO, Il mafioso "aureolato", in Letteratura lingua e società in Sicilia, a cura di Carmelo Musumarra, Palumbo, 1989, pp. 551-556. Un esempio del 'mafioso aureolato' si trova ne La lega disciolta di Pirandello, in cui viene presentato un mafioso che fa pagare ai proprietari terrieri una 'tassa' con la quale integra la miserabile paga dei contadini. Esempi analoghi si trovano pure ne La Mafia di Giovanni Alfredo Cesareo, Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia e in altre opere.

(6) Don Mariano Arena, il capo mafia locale, distingue cinque classi di uomini e li mette in ordine gerarchico (dal migliore al peggiore): gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà. Il capitano Bellodi sente di dover classificare Arena tra gli uomini, nonostante le sue nefande azioni. Cfr. L.SCIASCIA, Il giorno della civetta, Milano, Adelphi, 1993, pp.108-116

(7) Camilleri, in un'intervista rilasciata a Enzo Biagi, a proposito della mafia, dichiara: "È stato un sistema di protezione reciproca, di difesa, che poi ha degenerato fino ad arrivare a una delinquenza pura. Un sistema di interessi" (E.BIAGI, Cara Italia. I paesi, le città, i luoghi, i ricordi che fanno il Bel Paese, Milano, Rizzoli, p.212). Camilleri crede che i siciliani si siano accorti di questo e appoggino sempre meno la mafia. Infatti dice: "Ma sul tema della mafia, vorrei aggiungere che la mentalità e i comportamenti dei siciliani sono molto cambiati negli ultimi anni: la diffidenza nei confronti dello Stato e dei non siciliani si è notevolmente ridotta, quindi anche l'omertà è meno compatta. Oggi i siciliani sanno che il problema della mafia è un problema collettivo che riguarda tutti, non fanno più finta di non vedere e di non sentire". (F.GAMBARO, Grande festa a Tindari, in "Diario" http://www.diario.it, marzo 2000). Si veda pure G.VIVACQUA, Conversazione con Andrea Camilleri, in "The Camilleri's Fan Club", http://www.angelfire.com/pa3/camilleri6/ott00.html, ottobre 2000.

(8) S.VASTA, L'illuminismo ludico di Leonardo Sciascia, in "Omnia", http://www.omnia.it, s.d

(9) Cfr. N.TEDESCO, Un sorvegliato spazio di moralità e di ironia. Appunti per Sciascia, siciliano ed europeo, in Letteratura lingua e società, a cura di C.Musumarra, Palermo, Palumbo, 1989, pp.557-563.

(10) Camilleri elogia Vittorini per il seguente motivo: "Il vero limite, di noi siciliani, è di non riuscire, o riuscire raramente, a superare il nostro orizzonte. Tra gli scrittori, sicuramente c'è riuscito Vittorini a dare al viaggio di ritorno verso la propria terra il senso di una ricerca della ragione universale di esistenza dell'uomo. È stato un grande irripetibile risultato" (M.SORGI, La testa ci fa dire, Palermo, Sellerio, 2000, p.159).

(11) AA.VV., Storia della letteratura italiana, a cura di Enrico Malato, Vol. IX Il Novecento, Roma, Salerno Editore, 2000, p.741

(12) Ibid.

(13) Scrive Alberto Cadioli, nell'articolo Il siciliano che sogna la luna (in "Società San Paolo", http://www.stpauls.it/letture/0987let/0987le121.htm, s.d.), a proposito dell'uso particolare della lingua fatta da Consolo: "il pastiche si offre come strumento privilegiato di conoscenza della realtà, individuale e collettiva".

(14)S.GUGLIELMINO, Presenze, cit., p.497.

(15)AA.VV., Storia, cit., p.935.

(16)Ivi, p.930.

(17)Ivi, p.937.

(18)Il primo grave problema che il governo dovette affrontare subito dopo l'unificazione d'Italia fu la 'questione meridionale', ovvero l'arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno rispetto al Settentrione. All'epoca fu chiaro a tutti che vi fossero grandi disparità tra le due aree principali del territorio italiano: l'area padana e quella meridionale. Si svolsero diverse inchieste per scoprire le cause di quella condizione sociale. I motivi dell'arretratezza erano da trovarsi nel malgoverno secolare del Sud Italia. Ad esempio i Borboni s'impegnarono poco nei lavori pubblici e nella costruzione delle grandi infrastrutture che caratterizzano uno stato moderno. Quindi la questione meridionale presisteva all'unità d'Italia, ma questo evento storico aggravò il problema e le misure del nuovo governo complicarono maggiormente quella situazione fragile. L'approdo in Sicilia di Giuseppe Garibaldi illuse gli abitanti locali che il loro secolare sfruttamento, da parte dei dominatori, fosse arrivato alla conclusione. Le loro aspettative non trovarono riscontro nella realtà, e anzi sembrò che le misure approntate dal nuovo governo avessero peggiorato la situazione. Infatti il sistema fiscale (che colpiva i ceti meno abbienti), il regime di liberismo, i nuovi ordinamenti amministrativi e la legislazione penale e civile apparivano atti più a soddisfare le esigenze del Piemonte che quelle del meridione. Per riparare al dislivello tra nord e sud furono venduti i beni demaniali ed ecclesiastici, ma queste finirono nelle mani dei ricchi, per cui le condizioni sociali rimasero pressoché invariate. I contadini meridionali, oppressi da quello stato di cose, diedero vita al fenomeno del brigantaggio (1860-65), ovvero bande di contadini oppressi che si ribellavano attaccando le proprietà dei grandi proprietari terrieri. In seguito ci furono altre insurrezioni e rivendicazioni da parte dei locali.

(19)Giovanni Capecchi scrive: "Ma nonostante gli aspetti farseschi e ironici, la riflessione sulla situazione sociale, pur mai predominante, si fa largo nella narrazione delle vicende così come nelle conversazioni del circolo dei nobili, dominate dalla delusione di fronte all'Italia unità che non ha portato nessun significativo mutamento per la Sicilia […]" (Andrea Camilleri, Firenze, Cadmo, 2000, p.54).

(20)Si veda A.CAMILLERI, Un filo di fumo, Palermo, Sellerio, 1999, pp.35-41, e pp. 55 - 58.

(21)Ivi, p.105.

(22)G.TOMASI DI LAMPEDUSA, Il gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1998, p.41.

(23)L'esperienza personale dell'autore (era l'ultimo discendente di un illustre casato ormai in rovina) incise profondamente su questa particolare visione della vita. Stesso discorso vale per Gesualdo Bufalino di cui si parlerà tra poco. Infatti la sua visione della vita fu condizionata da due eventi: la prigionia al tempo della seconda guerra mondiale, e poi l'essersi gravemente ammalato di tisi

(24)S.GUGLIELMINO, Presenze, cit., p.498

(25)Ivi, p.501

(26)G.TOMASI DI LAMPEDUSA, Il gattopardo, cit., p.215

(27)AA.VV., Storia, cit., p.1046.

(28)A.CAMILLERI, La stagione della caccia, Palermo, Sellerio, 1999, p.147.

(29)G.CAPECCHI, Andrea, cit., p.57.

(30)A.CAMILLERI, Gli arancini di Montalbano, Milano, Mondadori, 1999, p.132.

(31)S.GUGLIELMINI, Presenze, cit., p.490.

(32)A.CAMILLERI, Un mese con Montalbano, Milano, Mondadori, 1999, p.166.

(33)G.CAPECCHI, Andrea, cit., p.53.

(34)Ivi, p.50.

(35)S.A., s.n., ne "Il Corriere della Sera", 8/12/1998.

(36)A.CAMILLERI, La stagione, cit., p.29.

(37)S.GUGLIELMINO, Presenze, cit., p.504.

(38)Scrive Gianni Turchetta: "Consolo vuole creare un forte scarto fra la lingua e la povertà espressiva e conoscitiva della lingua appiattita dell'uso del quotidiano" (AA.VV., Storia, cit., p.943).




Last modified Saturday, July, 16, 2011