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News

L'anno che verrà

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Roberto Alajmo torna in libreria con "Riassunto delle puntate precedenti" (Palumbo). Una sorta di antologia per studenti ai quali lo scrittore prova a spiegare cosa si sono persi, per ragioni anagrafiche, negli ultimi 35 anni: dal disastro di Ustica alla tragedia di Vermicino fino all'11 settembre.
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Mario Di Caro - La Repubblica (ed. di Palermo), 2.1.2015

L'enciclopedia dei pazzi


[...] In autunno sarà la volta di "La malintesa poesia": di che si tratta?
"Un saggio contro la poesia cruda, con un repertorio delle parole poetiche. Attenzione: io non sono contro la poesia. Ma il fatto è che nei versi, c' è spesso una concentrazione del cosiddetto poetico che alle volte mi nausea. Faccio sempre l' esempio della cassata: basta una piccola fetta di torta; nessuno del resto mangia lo zucchero a cucchiaiate».
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Salvatore Ferlita - La Repubblica (ed. di Palermo), 7.1.2012

La città infelicissima raccontata ai viaggiatori

Né magica né felicissima così Alajmo racconta Palermo Una guida scritta per l´editore Laterza che attraversa i problemi cronici

Via Libertà potrebbe essere una rambla se non fosse che la corsia centrale, quella che nel viale di Barcellona è riservata ai pedoni, è persino difficile da attraversare sulle strisce. La Favorita potrebbe essere un grande parco urbano ma i palermitani si ricordano della sua fruibilità solo per il saccheggio di Pasquetta, relegandola a territorio di auto e prostitute. E poi c´è il lungomare, che potrebbe essere tale senza quella lunga teoria di cancelli, recinzioni e ostruzioni di vario tipo. La Palermo di Roberto Alajmo, raccontata nel volume scritto per la collana sulle città dell´editore Laterza ("Palermo è come una cipolla", 123 pagine, in libreria a fine mese), offre un singolare biglietto da visita a un immaginario viaggiatore, la consapevolezza di qualcosa che manca. Il mare che non si vede come la possibilità di passeggiare a piedi in onore all´antico struscio dei paesi, un caffè nell´arteria principale, la suddetta rambla mancata, come il rispetto per il verde. Il viaggio di Alajmo nella sua Palermo è un tentativo di offrire una chiave per decifrare la jungla di messaggi in codice che si attraversa sin dall´atterraggio a Punta Raisi. La pista stretta in una lingua d´asfalto tra mare e montagna che ammonisce sulla difficoltà come regola di vita, le case abusive di Carini, il cemento grezzo, gli obelischi che ricordano la strage di Capaci, sono le spie di un modo di vivere che troverà poi riscontro nel cuore della città. È la città dove il clacson dell´automobile «è un mezzo di comunicazione di massa, uno strumento gemellato al telefonino con cui comunicare al prossimo anche i più nascosti moti dell´anima». E allora eccoci in via Libertà dove «è evidente la mutazione genetica che in pochi anni ha stravolto il tessuto del commercio cittadino - scrive Alajmo - Nel primo tratto del viale si trova un solo caffè. Gli altri sono stati spazzati via e rimpiazzati da negozi di lusso, di quelli che intimidiscono la clientela». Non va meglio in via Principe di Belmonte, trasformata, questa sì, in isola pedonale, e da allora ribattezzata come il salotto della città, ma che «specialmente al sabato e alla domenica pomeriggio si trasforma in un ingorgo pedonale ad altissima concentrazione. Sconsigliabile ai misantropi e ai solitari fino alle prime ore del mattino». Il puzzo di ossido di carbonio di via Maqueda, invece, è così persistente che ormai per le narici degli abitanti è diventata «un´allucinazione olfattiva, e la prova sta nel fatto che la puzza col tempo si condensa e va a depositarsi sulle facciate dei palazzi, che paiono costruiti adoperando roccia vulcanica». C´è poi il capitolo sul mare negato, un paradosso tutto palermitano e raccontato con gusto al visitatore immaginario: un lungo percorso che va da Romagnolo a Sferracavallo attraverso cartelli di divieto di balneazione, macchie color marrone come minimo scoraggianti, cancelli invalicabili, porticcioli riservati ai motoscafi e, finalmente, la cara, vecchia spiaggia di Mondello, recintata dalla cancellata e lottizzata in migliaia di «capanne», autentiche case di villeggiatura del ceto proletario. «Questo della cancellata di Mondello è una delle migliori metafore del rapporto che esiste fra la Città e il mare. Un rapporto che può essere riassunto con la formula: gli abitanti della Città se ne fregano del mare. Nella convinzione di appartenere alla stirpe degli dei rinunciano al mare con la stessa arroganza con cui un ricco si accenderebbe il sigaro adoperando una banconota». Resterebbe Capo Gallo, una riserva pressoché incontaminata ma per entrare bisogna pagare il pedaggio a un privato: «La strada che costeggia il litorale è sua, riserva o non riserva». Ma in una guida sui generis come quella di Alajmo non poteva mancare il capitolo sul cibo, quello più tradizionalmente palermitano, quello che sfida allegramente colesterolo e trigliceridi e che chiede agli igienisti di non porsi troppe domande sulla metodologia nella frittura dell´olio: dallo scomparso trionfo di gola alle arancine, dalla stigghiola alle minne di vergine, dalla cassata alle panelle, una botta di calorie che, si chiede l´autore, non si capisce come abbia fatto ad attecchire nelle abitudini di una regione preafricana come la Sicilia. Ma proprio nel gusto per la buona tavola si acquatta un gattopardesco senso di morte, in quella carne così ostentata nei banconi degli antichi mercati come delle macellerie, anzi, delle «carnezzerie». Un senso di morte con il quale il palermitano fa i conti per le strade, quasi per esorcizzarlo, richiamato dalle lapidi delle tante vittime di mafia come dalla tradizione di festeggiare il due novembre con i regali ai bambini, facendosi beffe di una carnevalata americana come la notte di Halloween. Insomma, la Palermo di Alajmo non è felicissima come quella, fulgida di memorie, descritta da Rosario La Duca, non è magica come la Praga di Ripellino, ma val la pena di essere vissuta, strato dopo strato, proprio come una cipolla. E conclude: «Anche se sbucciare la cipolla ti farà piangere non puoi lasciare agli altri il compito di farlo».

IL MARE
Viaggio dalla Marina Alla ricerca di una spiaggia Alajmo immagina di percorrere il tratto che va da via Messina Marine a Sferracavallo per raccontare il tema del mare negato. «Ad acqua dei Corsari finalmente il mare si vede: ma sarebbe meglio che non si vedesse per quanto è fetente. Poi viene la Bandita, dove ogni tanto il mare appare come una tavolata di schiuma marrone con orlo di sabbia e detriti. (...) A Sant´Erasmo comincia una sequenza di muri e cancellate.

LE STRADE
Le passeggiate negate Auto o pedoni è sempre caos Se via Libertà è una rambla mancata, le altre strade di Palermo sono condizionate dallo strapotere delle automobili. Sul Cassaro non è possibile passeggiare perché i marciapiedi sono intasati dalle auto, e in via Maqueda la puzza dei gas di scarico è così persistente che gli abitanti ormai non se ne accorgono più. Paradossalmente non va meglio quando una strada viene trasformata in isola pedonale: in via Principe di Belmonte l´ingorgo del sabato pomeriggio, infatti, è di tipo pedonale.

IL VERDE
La Favorita e i parchi Una sequenza di spazi proibiti Sul tema del verde, Alajmo elenca gli spazi più o meno proibiti: il parco d´Orleans «le cui modalità di apertura sono spesso oggetto di variazioni», il parco di Villa Malfitano, «sede di una fondazione che ne preserva l´integrità tenendolo aperto con parsimonia» e, soprattutto, la Favorita, «una terra disputata alle automobili da una fauna umana compresa fra atleti corridori e prostitute, con diverse figure intermedie di difficile classificazione».

L´ANTIMAFIA
Il caso di Libero Grassi Una battaglia da delegare Roberto Alajmo affronta anche l´argomento della lotta alla mafia e del suo progressivo indebolimento. «Prima del ´92 la pratica comune era di delegare la lotta alla mafia. Si mandavano a morire giudici e poliziotti poi ci si indignava per la loro morte. (...) Rispetto agli altri, Libero Grassi un delegato antimafia unilaterale. Si era delegato da solo. Non aveva un mandato ufficiale da parte di nessuno. Non era poliziotto o magistrato. Ma fu il primo a usare i mezzi di comunicazione».

L´INTERVISTA
"Sforziamoci di credere che non sia irredimibile" «Quando un visitatore mi dice che Palermo è meravigliosa io rispondo che sì, è vero, ma nel breve periodo». Alajmo, la prima cosa che salta agli occhi sono le mancanze di cui soffre la città: il mare, la passeggiata, i caffè... «Sono carenze croniche. Però il mio non è un ritratto pessimista. Non credo che Palermo sia irredimibile: abbiamo il dovere di pensare che non lo sia». Come la mettiamo con via Libertà? «Palermo andrebbe rivoltata come un guanto e via Libertà è il simbolo di questo rovesciamento: in questo modo la corsia centrale sarebbe riservata ai pedoni, come a Barcellona». Alla fine la sensazione è di avere davanti un programma per le prossime amministrative... «Uno scrittore è come un laboratorio di analisi: deve indicare se hai o no il colestorolo ma le diagnosi le fanno i medici, in questo caso i politici».

Mario Di Caro - La Repubblica (ed. di Palermo), 17.8.2005

Serata con Alajmo a Positano

Intervista all'autore e recensione a 'Cuore di Madre'

“Una grande lezione di vita me la diede Enzo Sellerio. Io giovane cronista ero stato mandato a fare la cronaca dell’abbattimento di alcuni silos nel porto di Palermo. Ebbene tutti gli altri fotografi scattarono in fretta le loro foto per spedirle ai giornali mentre Sellerio - che era un free-lance - quando tutti erano andati via aspettò altri cinque minuti e poi scatto le sue quando si era alzato il polverone. Quell’episodio mi insegnò ad aspettare l’evolversi del tempo prima di raccontare un evento… ». Roberto Alajmo è a Positano per la presentazione del libro “Cuore di madre”, Mondadori - secondo allo Strega e che concorre anche al Campiello di quest’anno. Giornalista quarantatrenne della Rai, “irrimediabilmente” palermitano, della sua Sicilia dice che è un laboratorio dove le cose “non è che accadano prima ma con più evidenza e con efferatezza rispetto ad altre terre… “. Ci dice di quando a vent’anni scrisse una lettera di ammirazione a Leonardo Sciascia che gli rispose e presero ad incontrarsi - non solo a Palermo - ma anche negli esili estivi presso la casa in contrada Noce a Racalmuto. “Mi manca Leonardo Sciascia un uomo ed uno scrittore che avrebbero meritato una divulgazione più intensa di quella da interpretazione autentica di pochi circoletti che ogni tanto si riuniscono in Italia per ricordarlo ma che in realtà finiscono a raccontarsi le barzellette che conoscono già… “.

Camilleri, gli chiediamo? “Si è speso molto per il mio libro che ha adottato da subito facendomi un paginone su La stampa di Torino… “.

Il secondo posto allo Strega? “Beh, in fondo la mia è l’unica storia di uno arrivato secondo che ancora si ricorda… Ma lì è la Rimoaldi che decide… “.

Il libro è stato capito dalla critica? “Sì, anche se io oltre ad un libro di stile volevo anche fare un libro di trama, e questo qualcuno l’ha capito… Poi c’è da dire che quasi ogni mio libro inizia con una corda umoristica che poi scivola quasi su un piano inclinato e finisce in tragedia che non è mai consolatoria ma che spero inquieti anche quando si rifiuta il testo… “.

Nella scrittura come lavori? “A togliere lasciando grande spazio all’immaginazione di chi legge… Nel caso di Cuore di madre ho cercato di spiegare il mito di Demetra che è proprio di tutto il Mediterraneo - perché per dirla con Sciascia la linea della Palme si è innalzata - e che io ho trovato anche in qualche storiella yddish… “.

La famiglia a volte spaventa? “Sì le famiglie sono delle pentole a pressione dove l’aria sembra quasi non passare e sono dei luoghi di metabolizzazione degli istinti più cavernicoli. E’ uno spazio privato contrapposto ad uno pubblico: se in alcuni condomini di Palermo anche ricchi la spazzatura viene messa fuori dalla porta verso le sei del pomeriggio ciò mi fa pensare e dice di due mondi senza alcuna possibilità di osmosi… “.

“Qua siamo” Un sogno fatto in Sicilia?

“La realtà costa sempre qualcosa, la finzione è gratuita”. Quando si finisce di leggere “Cuore di madre” del palermitano - è del 1959 - Roberto Alajmo non si può non pensare al brocardo di Sofri. I romanzo infatti affronta con un titolo da operetta morale un tema - in realtà molti - soprattutto: quello di cosa sia la mafia ed in quale brodo culturale essa nasca e si riproduca. Calcara - paese immaginario di una Sicilia riconoscibilissima e remota. Qui vive e lavora Cosimo Tumminia che aggiusta pneumatici per biciclette. Vive da solo e la sua socialità - viene considerato una sorta di Benjamin Maluassenne del luogo - si riduce alla madre che vive da sola ed alla signora Pina che gli tiene la casa in ordine. Poi - loro: i mafiosi? - gli affidano un bambino - frutto di un rapimento? - per tenerlo pochi giorni e la vita di Cosimo esce dal circuito lavoro, settimana enigmistica, madre, prostituta locale. Prima un respiro leggero, poi un passo leggero, poi un viso: ecco come il recluso viene visto da Cosimo… La mamma sospetta che ci sia una donna - perché Cosimo non passa più dalla casa casa materna e lei gli piomba nella sua con un preavviso da ispettore del lavoro ammonendolo , “tu puoi fare quello che vuoi , ma non mi devi pigliare in giro. Oppure non ti devi fare scoprire. E’ lo stesso. Ma se ti fai scoprire, no”. E’ il succo del libro che è scritto in un bel italiano, con poco dialetto che si raggruma in esortazioni militaresche “Avà; Aspé” e che ha delle interiezioni mono-consonantiche ma espressive con la semplice “z”. La mamma riprende possesso di Cosimo e della sua vita perché ognuno ha le sue funzioni e dato che loro non si fanno vivi e neanche gli altri - i carabinieri? - la famiglia rinsaldata riprende le sue attività fatte di silenzi, visioni di televisioni mute, principio di competenza. E’ l’aggettivo possessivo suo - variante mio - che poi detta i ritmi e “la calma senza pensiero”. Ma Cuore di madre è solo il possesso fisico - il tenere - senza che l’arto dell’amore sentimentale si palesi. “L’apparenza è anche peggiore della realtà”.

Vincenzo Aiello

L'Isola dei soli

Camilleri legge "Cuore di madre" di Roberto Alajmo: nella tragedia di tre solitudini, una metafora della condizione umana

LUIGI Pirandello pronunziò due discorsi sull' arte di Giovanni Verga. Il primo lo fece nel 1920, al Teatro Bellini di Catania, presente lo stesso Verga che compiva ottant'anni. Il secondo lo tenne undici anni dopo, a Roma, all'Accademia d'Italia nel cinquantesimo anniversario della pubblicazione dei Malavoglia. Tra l'uno e l'altro discorso ci sono delle varianti anche se non sostanziali. Ma una considerazione rimane intatta nelle due versioni. Ve la leggo: I siciliani, quasi tutti, hanno un istintiva paura della vita, per cui si chiudono in se, appartati, contenti del poco, purchè dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e più si chiudono in se, perché di quest' aperto che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé e da sè si gode -ma appena, se 1'ha -la sua poca gioja; da sè, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato. Nel 1945, quindi 25 anni dopo il discorso di Pirandello al Bellini di Catania, un professore siracusano , prima allievo di Russo alla Normale di Pisa e poi per anni insegnante in Toscana, pubblica un volumetto che è un profondo esame antropologico dei siciliani. Si intitola: Che cos'è questa Sicilia? Molti lettori siciliani se n'ebbero a male e Sciascia giustamente ricordò l' affermazione di Gogol' secondo la quale chi ha il naso storto tende a darne la colpa allo specchio. Da questo libro traggo una citazione che riguarda il rapporto tra l'uomo e la natura già accennato in Pirandello: La malinconia del siciliano, il suo pessimismo perpetuo, la taciturnità, il dolore dell'esistenza sono di quelle forze che smorzano il fiato, sono catene che costringono mani e piedi all'inazione.. .Nel silenzio solatio delle campagne squallide, nella costa rocciosa e scabra. in questo suolo che per lunghe distanze ignora la presenza di persona viva, possiamo scorgere lo scenario più adatto, o piuttosto l'unico scenario plausibile, delle passioni dell'isolano e della tragedia insita nella sua esistenza. Un'ultima citazione. Nel 1970 Leonardo Sciascia pubblica La corda pazza che ha come sottotitolo Scrittori e cose di Sicilia. Il primo degli scritti, datato 1969, ha per titolo Sicilia e sicilitudine. Da esso traggo le righe seguenti: Si può dunque dire che l'insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita -paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporto al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo - della collettività e dei singoli. Dal 1920 al 1970 corrono cinquant'anni. Non sono stati anni da poco, per l'Italia e la Sicilia. La presa del potere del fascismo, la guerra d'Etiopia, la guerra di Spagna, la guerra del '40, la caduta del fascismo, lo sbarco degli alleati in Sicilia, la guerra partigiana, la liberazione, il dopoguerra, il separatismo siciliano, la ricostruzione, la concessione dell' autonomia regiona1e , il boom economico e l'inizio della sua crisi... "I siciliani hanno paura della vita" - scriveva nel 1920 Pirandello. E puntualmente, cinquant'anni appresso, dopo tutto questo succedersi di avvenimenti, Sciascia gli fa eco parlando anche lui di paura e apprensione. Perchè? Di gran parte di questi grandi eventi storici dalle nostre parti sono arrivati dei piccoli relitti lasciati sulla spiaggia da pigre onde di risacca. Lo stesso sbarco alleato in Sicilia non fece che lasciare sulla spiaggia relitti un po' più grossi, qualche carrarmato distrutto, qualche mezzo anfibio semiaffondato. Certo, arrivò la libertà, ma i mafiosi e gli amici degli amici diventarono sindaci, primi cittadini. L'ordine tornava a regnare a Varsavia. Tutte queste citazioni per mettere le mani avanti, per avvertire il lettore di Cuore di madre di Roberto Alajmo (appena uscito da Mondadori, pp. 232, €16). Non creda cioè di trovarsi davanti a un romanzo d'invenzione fantastica, sviato anche da una bandella che parla di un "noir grottesco" Il protagonista del romanzo, Cosimo Tumminia, vive a Calcara, un paese immaginario della Sicilia interna e possiede una piccola officina per la riparazione di pneumatici di biciclette. Attenzione: non ripara altri pneumatici che non siano di bicicletta. Ma da quelle parti biciclette ce ne sono assai poche, perchè Calcara, come scrive 1'autore, è "disposto su una montagna che rende facilissime - fin troppo facili -le discese, e difficili - fin quasi impossibili -le salite". Oltretutto è da tenere presente che il paese è costantemente sotto il maglio di un sole implacabile. Apro una parentesi riferendovi un fatto che mi raccontò Leopoldo Trieste, commediografo e attore da non molto scomparso. Mentre girava in Sicilia Divorzio all 'italiana, Trieste ebbe qualche giorno libero. Si mise in macchina e cominciò a visitare i paesi più o meno vicini. Un giorno, sotto un sole implacabile. si fermò sulla piazza di un paese semideserto per bere qualcosa di fresco in un bar. All'uscita, vide in lontananza un tavolinetto davanti alla porta di una bottega e sul tavolinetto c' erano dei giornali. Decise di comprarsene uno. Ma quando l'occhio gli cadde sui titoli, trasecolò. Tutti i giornali esposti risalivano ad almeno dieci anni prima. Guardò dentro alla bottega. Dietro il banco c' era un vecchio con il cappello in testa, gli scaffali erano pieni di saponette, dentifrici, scatole di brillantina. Irresistibilmente attratto entrò per guardare meglio. C'erano pacchetti di lamette per barba con sopra stampato il volto di Mussolini, scatole di dentifrici che risalivano agli anni 40 o di ciprie Petalia Tokalon ("la sera che ballai col principe" - recitava la réclame). Decise di comprare un dopobarba che gli aveva fatto rinascere lontani ricordi di gioventù. Il vecchio aprì la scatola, estrasse il flacone, svitò il coperchio e lo capovolse. Non venne fuori manco una goccia. "Sbaporò" - disse rimettendo tutto meticolosamente a posto. A questo punto Trieste non potè trattenersi. " Mi spiega perchè tiene aperto questo negozio?" - domandò, sinceramente e quasi umilmente. "Perchè ogni tanto capita qualcuno come lei e io passo tempo" - fu la risposta. Tornando al romanzo bisogna dire almeno due cose su Cosimo. La prima è che ha nomea di jettatore e che questa nomea, naturalmente, lo fa scansare dagli altri abitanti. Sul Perché Cosimo sia considerato uno iettatore, Alajmo scrive delle pagine molto belle, di nobilissima ascendenza brancatiana. L'altra cosa da dire è che Cosimo, da qualche tempo, non vive più con la madre nella casa che hanno in paese, ma in una casupola isolata in campagna. Non c'è stata una vera ragione per questa separazione che ha, in qualche modo, offeso la madre. Cosimo ha sentito questo bisogno e basta. La sera, prima di tornare in campagna, va a trovare la madre e talvolta cena con lei Più spesso preferisce mangiare da solo e allora la madre gli riempie barattoli di brociolone o di polpette, mutamente rimproverandog1i l' allontanamento e oppressivamente circondandolo di cure e di attenzioni. La mattina, quando apre l' officina, Cosimo mette accanto alla porta una sedia, sulla quale siede, cambiandone il posto via via che il sole gira per trovarsi sempre in ombra. L' occupazione di Cosimo nella vana attesa dei clienti consiste nel sentire i giornali radio e certe trasmissioni dedicate ai camionisti da un vecchio transistor e nel risolvere i giochi della Settimana enigmistica per i quali impiega una settimana esatta. Quasi mai ascoltare la radio e risolvere i giochi vanno in contemporanea. Ora sul Sistema che Cosimo ha messo in atto per leggere la Settimana enigmistica e risolvere i giochi, Alajmo dedica tre pagine e mezza, circostanziatissime, del suo libro. E sono pagine magistrali. L' ordine maniacale, direi claustrofobico, col quale Cosimo s' imprigiona e imprigiona il tempo definisce il carattere del personaggio assai meglio di ogni possibile descrizione diretta, ci dice quanto sia estesa a perdita d'occhio la sua solitudine perchè nel corso della lettura della Settimana anche il paese intorno sembra sparire, dissolversi: in un nulla assolato non c' è che una sedia sulla quale sta seduto un uomo con una rivista in una mano e un mozzicone di matita nell'altra. Di questa straordinaria solitudine c'è chi ha pensato di servirsi perchè può tornare molto utile. Infatti due individui ,da lui intravisti talvolta in paese, si avvicinano e gli dicono che deve tenere segregato, nella sua casupola di campagna, un bambino. Solo qualche giorno. Forse, dopo, avrà una ricompensa. Ma, ricompensa o non ricompensa, si tratta di due persone alle quali non si può rispondere di no. Il bambino viene messo in una cameretta senza finestre della casupola. Il mangiare gli viene passato da Cosimo attraverso la gattaiola. Certo, la presenza del bambino procura a Cosimo più che fastidio, disagio, è costretto ad allontanare con una scusa la donna che una volta alla settimana veniva a fargli le pulizie, ad andare a comprare delle merendine, ad accudire ai bisogni elementari del bambino. Il quale bambino fin dal primo giorno si rivela impaurito sì ma dotato di un suo carattere. Addirittura stacca con un morso un pezzetto di lobo dall'orecchio del suo carceriere. Di preoccupante scarso appetito, non vuole essere avvicinato da Cosimo, appena questi lo tocca si mette a urlare. Via via che passano i giorni Cosimo diventa sempre più inquieto: del bambino evidentemente rapito non viene data notizia nè dai giornali nè dalla radio. E quel che è peggio anche i due che gli hanno ordinato di tenere prigioniero il bambino sono svaniti nel nulla. Che fare?la madre di Cosimo, che nota immediatamente le abitudini del figlio cambiare senza un motivo apparente, decide un giorno di andare a vedere di persona che cosa succede nella casupola di campagna. E scopre il segreto . Nelle pagine di Alajmo il bambino, diventa la cartina di tornasole che rischia di rivelare a Cosimo aspetti del suo essere mai voluti vedere prima o, se intravisti, subito riposti. Credo che la sua eliminazione si renda infine necessaria non tanto perché madre e figlio non sanno come uscire da una situazione realmente senza uscita,quanto piuttosto perchè il bambino viene a essere, da un certo momento in poi, un pericolosissimo reagente, capace d'innescare una reazione della quale non si conoscono gli effetti. I quali effetti, questo è pacifico, non possono essere altro che dannosi per la madre e per Cosimo. Non vorrei che l'eventuale lettore venisse tratto in inganno dal fatto che ho parlato di alcune pagine esemplari di questo romanzo e pensasse a una certa sua frammentarietà strutturale; tutt'altro. Il romanzo ha una tale solidità e una tale compattezza che obbligano chi inizia a leggerlo a cercare di non interrompere più la lettura sino alla fine e questo in virtù di una capacità di racconto che oggi, in Italia, è alquanto difficile da trovare . Un'ultima osservazione. Dialogo tra madre e figlio a pagina 41 : "Che si dice?" "E che si deve dire? Qua siamo". Qua siamo. Come a dire: che vuoi che succeda in questo paese? . Pagina 72. Dialogo tra la signora Pina, la donna delle pulizie allontanata con la scusa di una finta partenza di Cosimo: "Signor Tumminia"... " Qua siamo"... Come dire: le cose vanno in certo modo e non c'è niente da fare. Pagina 232. Ultima del romanzo. "Se non era per l' orecchio che ogni tanto mi tocco, chi me lo dice a me che il bambino, quelli che l'hanno rapito e tutto non me lo sono sognato io ? Che dici? Può essere che me lo sono sognato?" "Se te lo sei sognato tu, me lo sono sognato pure io". "E può essere che ce lo siamo sognati tutt' e due". Cosimo sorride, si farebbe pure un risolino, ma la madre non sorride affatto, e quindi lui rinuncia. Piuttosto, cambia argomento: "E se invece vengono gli sbirri?" "Pure loro"... "Che cosa??" "Pure loro, oramai, se dovevano venire, erano venuti" "E ma se vengono poi?" "Se vengono, ci diciamo che il bambino ce lo siamo sognato". Cosimo la guarda per capire se sta scherzando o no, ma lei è imperscrutabile, dice solo, con gli occhi fissi televisione: "Se vengono , noi qua siamo" Cosimo decide che sua madre ha ragione: "Qua siamo". Qua siamo. Sono le ultime parole di questo potente e struggente romanzo. E allora ti sorge un dubbio. E cioè che le parole di Cosimo non siano un'eco di quelle della madre. Non appartengono a lui, Cosimo bensì all'autore. E allora il romanzo forse va riletto tutto di nuovo, dall'inizio, e con una chiave diversa. Vuoi vedere che si tratta non di una tragedia isolana, di una tragedia di tre solitudini che s'incontrano e cortocircuitano, ma di una splendida, altissima metafora sulla condizione umana?

Andrea Camilleri - La Stampa, domenica 13 luglio 2003

ECCO COME HO PERSO LO STREGA

Tutto è cominciato a Palermo dove molti mi dicevano: non ti preoccupare sei nella cinquina

15 maggio. Palermo, ottavi. La prima cosa che devo ricordarmi sempre, in ogni momento dei prossimi due mesi è: vincerà la Mazzucco. Vincerà-La-Mazzucco. Melania G. Mazzucco si presenta per la terza volta al Premio Strega e dicono che se non vince quest'anno è autorizzata ad andare a casa Bellonci e spaccare tutto con una mazza da golf. Per lei voterà la maggioranza dei quattrocento Amici della Domenica. Oltretutto, di questi quattrocento quanti ne conosco io? Sì e no una decina. E allora? Allora non ti preoccupare, mi dicono tutti alla presentazione palermitana del Premio. Mi prendono sottobraccio e mi fanno fare delle passeggiatine di dieci metri per dirmi: tu nella cinquina ci sei di sicuro. Ho capito che le passeggiatine sottobraccio sono fondamentali, al premio Strega. Durante le passeggiatine parli con le persone che ti hanno appena presentato, che potrebbero essere Amici della Domenica, ma anche no. Perchè in effetti chi sono tutti questi Amici della Domenica non si sa bene. Per cui rischi di farti una chiacchierata dando sfoggio di competenza letteraria con uno e poi scoprire che hai messo in campo tutto il tuo charme per nulla: era l'autista della Rimoaldi. La Rimoaldi è il motore immobile del premio, e almeno lei mi vuole bene. Almeno credo. Spero. Mi fa sedere accanto a lei, mi chiede di Palermo. Io le rispondo cercando di apparire affabile e misurato. I suoi collaboratori mi danno delle gran pacche sulle spalle e pure loro mi dicono di non preoccuparmi, ma io mi preoccupo moltissimo, invece. Anche perché tutti quelli che mi prendono sottobraccio e mi portano a fare la passeggiatina prima mi dicono che il mio libro è bellissimo, ma poi si addentrano in una serie di valutazioni di politica editoriale di cui io non capisco niente, se non che -invece, purtroppo, eccezionalmente - alla fin fine non mi voteranno. Tutti però sono gentili. La Mazzucco è pure lei gentile, considerato che il ruolo di superfavorita non agevolerebbe la simpatia. Se fossi nei suoi panni non farei altro che scongiuri, e invece lei è così rilassata, morbida, disponibile con tutti. Secondo me non ha nemmeno bisogno di farsi le passeggiatine: vincerà per il puro e semplice fatto che dio è dalla sua parte. Faccio amicizia con alcuni altri candidati. Matteucci lavora pure lui alla Rai, è vicedirettore di Rai Uno. Mi dice: chissà chi di noi due voterà l'Annunziata? Apprendo così che il presidente della Rai è un'Amica della Domenica. Mi sento di rassicurare il povero Matteucci: 1'Annunziata nemmeno sa che io esisto. La serata si conclude con un lento avviarsi all'uscita, io mi sforzo di asciugarmi il palmo delle mani prima di stringere quelle altrui per salutare e dare appuntamento alla prossima occasione. Chiudo senza aver fatto nemmeno una gaffe. Non che io sappia.

5 giugno, Benevento, quarti. È finita. Finita. Forse potrei ritirarmi ora e fare un gesto clamoroso, di quelli che restano nella storia della società letteraria. Potrei denunciare la falsità dei premi e le magagne che ci stanno dietro. Almeno otterrei qualcosa, farei parlare del libro. Tanto è finita. La sentenza è stata pronunciata dalla Rimoaldi, che appena mi ha visto ha detto: non ti appoggio più. E' successo che sono arrivato in ritardo alla presentazione degli scrittori agli studenti di Benevento. E' una tappa intermedia del Premio, una tradizione che va onorata a tutti i costi. E io mi sono presentato con due ore di ritardo. Ho un sacco di scuse, ma quando finalmente sono arrivato e le ho quasi fatto il baciamano, la Rimoaldi mi ha gelato: non ti appoggio più. Sono bastate queste quattro paroline per fare di me uno scrittore finito e un uomo in profonda crisi depressiva. La depressione mi piglia anche perché dopo aver resistito per un po', ho dovuto cedere. Ho fatto le telefonate. Non molte, ma abbastanza. Non so come sia successo. All'inizio ne ho fatto una, ho trovato la segreteria telefonica, e mi sono preso di coraggio. Si comincia sempre così, ma prima o poi le persone si trovano, e bisogna parlarci. Non pensavo di esserne capace, ma invece sì: c'è un mostro di sfacciataggine che si nasconde in me. Bilancio finale delle telefonate: una è amica della moglie di Matteucci, e sette sono già impegnati perché sono amici miei, ma pure di un altro candidato e siccome l'altro gliel'ha chiesto prima, loro ormai gliel' hanno promesso, tuttavia il loro candidato non ha speranze di arrivare fra i cinque finalisti, e alla conta finale il voto me lo danno di sicuro. Tutto chiaro? Tanto - aggiungono - io non ho problemi a entrare in cinquina. Metto giù la cornetta e mi ritrovo in preda alla sindrome di Jospin, quasi sicuro di restare fuori dal ballottaggio finale. Insomma, Benevento. Dopo la scomunica della Rimoaldi per tutto il giorno resto in balia di tristi premonizioni. E' mestamente che al teatro comunale rispondo alle domande di Marzullo, ma dopo, alla cena sociale, nella dinamica dei posti a sedere riesco piazzarmi in pole position, vale a dire in un tavolo da sei con diverse personalità, fra cui la Rimoaldi in persona. Mi abbandono al cibo, mangio per dimenticare. E forse proprio perché ormai totalmente privo di ambizioni, riesco a essere a tratti persino spiritoso. Dev'essere questo il segreto, perché alla fine della serata la Rimoaldi mi fa un discorso da cui si capisce che mi ha perdonato: a certe condizioni io potrei essere il vero avversario della Mazzucco. Sentendo queste parole rinasco alla speranza e trovo subito per me confacente il nuovo ruolo: l'antagonista. Quello che almeno a tratti può oscurare la stella della giovane eroina, magari anche in forza della sua antipatia, come Arnoldo Foà nella Freccia nera. Praticamente, lo stronzo della situazione.

19 giugno, Roma, semifinale. Per dare un'idea: stamattina ho guardato l'oroscopo della tv. Alla voce Lavoro, due miseri pallini. Per dare un'idea ancora più precisa: mi sono messo a cercare fra i canali altri oroscopi televisivi. Ma solo per poter contare almeno su un campione significativo. Insomma, è una giornata un po' così. Ma è anche la giornata decisiva: o eroe o verme. Sono venuto con anticipo a Roma immaginando di dover fare qualcosa di determinante per riuscire a entrare nella famosa cinquina, e invece la mia giornata è praticamente vuota. Quelli di Mondadori mi tengono fuori dalle riunioni perché dicono che mi avvilirei. Io sento di doverli ringraziare per quello che stanno facendo per me: calcoli, ipotesi, flussi di voti in entrata e in uscita. Ma mi sento solo e inutile. Mi sento, precisamente, come una mucca alla fiera della mucca da latte. In questa solitudine bovina trascorre l'intera giornata, fin quando vengono a prendermi per andare a casa Bellonci, dove si svolge lo spoglio dei voti. . A Casa Bellonci c'è già un sacco di gente che straripa dalle stanze alle terrazze. Cocktail. Tartine. Chiacchiere. Piccole maldicenze. C'è pure Bevilacqua. E' il famoso mondo romano delle lettere. E io sono in mezzo a loro. Probabilmente qualcuno dei presenti ha votato per me oppure no, non posso saperlo. Per sicurezza sorrido a tutti, e tutti mi sorridono nella convinzione che se sorrido io abbiano motivo di farlo anche loro, chiunque io sia, e chiunque siano loro. Fra molti sorrisi scambio complimenti e in bocca al lupo con gli altri candidati che si confermano simpatici e disinvolti. Chissà se sono nervosi come me, chissà se provano la mia stessa pena di essere mucca da esposizione. Chissà cosa diceva il loro oroscopo televisivo. Comincia lo spoglio, mi metto a seguire l'andamento spiando su un taccuino altrui. Mi dicono che la Mazzucco nello stesso momento è in terrazza. che fa conversazione con quelli del suo cenacolo di intellettuali e funzionari editoriali. Beata lei. Io sono qua che sudo e conto i voti uno per uno. A metà spoglio la Mazzucco è modestamente in testa, con un distacco consono alla sua classe, cioè non troppo umiliante per gli avversari. Col passare del minuti si delinea un testa a testa mortale per il quinto posto, fra la Petrignani e Pascale. Alla fine resta fuori Antonio, che per fortuna la prende bene, sorride e dice che è un gioco. Beato anche lui: se mi avessero eliminato, io avrei tenuto una conferenza stampa di commiato direttamente dal cornicione di casa Bellonci. Questo, sia detto incidentalmente, significa che ce l'ho fatta. Sono finalista al Premio Strega. Nell'alternativa fra eroe o verme, oggi ho scelto di essere eroe, sebbene scegliere non sia la parola più appropriata. E tuttavia, per essere una mucca, mi sento abbastanza felice, stasera.

3 LUGLIO, ROMA, FINALE Una risorsa c'abbiamo noi siciliani: il fatalismo. E a quello conviene aggrapparsi, con le unghie e con i denti. Ripeto ossessivamente il mio mantra: Vincerà - La - Mazzucco. Comunque sia, devo tener sempre presente che per me è già un successo essere qui, al mitologico ninfeo di Villa Giulia. Mi sento orgoglioso e preoccupato di essere qui. Mi sento, per l'esattezza, come Peter Sellers in Hollywood Party. Mi aggiro tra i tavoli e stringo mani sconosciute, ma temo di rovesciare bicchieri nella scollatura delle signore e creare altri disastri modani del genere. Inoltre temo che da un momento all'altro possa avvicinarsi un addetto alla sicurezza e comunicarmi che sono stato invitato per sbaglio e quindi, per favore: si accomodi fuori. Come se non bastasse il disastro oggettivo della situazione, temo di aver fatto un errore a portarmi dietro Arturo, che ci teneva a vedere suo padre perdere in diretta televisiva. Arturo ha sette anni, e mi rendo conto di averlo inconsciamente portato per impietosire i giurati più sensibili. Uno scrittore meridionale che tiene famiglia, con un bambino di sette anni potrebbe essere l'arma segreta per convincere gli ultimi incerti e raccogliere consensi sul piano umano, se non su quello letterario. Mi fanno sedere in un tavolo in prima fila in mezzo ai vertici di Mondadori. Gli emissari di Bruno Vespa sono categorici: si sieda qui e non si muova per nessun motivo. Mi guardo sullo schermo cercando di mettere insieme una faccia intelligente, resistendo alla puerile tentazione di salutare gli amici a casa. A un certo punto appare persino Valeria Marini, che va a sedersi nel salottino bianco in rappresentanza, mi pare di capire, di quelli che non leggono libri. Comincia lo spoglio. Fra i primi venti il mio nome non compare praticamente mai. Sento tutto il mio fatalismo siciliano squagliarsi miseramente. Alle mie spalle Arturo cerca di farmi coraggio. Ogni volta che viene estratto un nome diverso dal mio, fa una piccola pernacchia. Non dimostra molto fair play ma funziona: comincia una rimonta, e alla fine la classifica è Mazzucco 162, Alajmo 76, Matteucci 54, Petrignani 43, Spirito 19. Insomma, alla fin fine ho fatto la mia porca figura, arrivando primo nella categoria Comuni Mortali. Non è male, e soprattutto, come ben sappiamo noi tifosi dell'Inter: andrà meglio l'anno prossimo.

Roberto Alajmo - La Repubblica, sabato 5 luglio 2003

Roberto Alajmo, quando la cronaca diventa romanzo,

Cosa significa per lei scrivere? Perché scrive?

«La risposta è un luogo comune, ma vero: è sempre meglio di lavorare. Per tutti scrivere è innanzitutto riuscire a farsi leggere. Io sono un assertore delle letteratura che deve diventare popolare, nel senso che lo scrittore deve prendere per mano il lettore e portarlo però dove il lettore non sa».

Quale apprendistato suggerisce a chi desidera scrivere per pubblicare?

«La formuletta meno peggiore è: trovatevi un maestro e cercate di imparare il mestiere da lui. Che lui lo sappia o no».

Per concludere, cosa si aspetta dalla sua attività di scrittore?

«Mi piacerebbe comprarmi una casa, prima o poi, coi diritti d'autore».

E dai suoi lettori? «Io mi aspetto che i lettori mi seguano in un posto che non conoscono, mentre invece mi accorgo che la maggior parte degli scrittori di successo in Italia va sempre in un posto che i lettori già conoscono, dandogli sempre la pappa che loro già si aspettano, un po' liofilizzata, credendosi in dovere di rassicurarli. Io vorrei per lo meno che i miei libri non fossero per nulla rassicuranti, vorrei che facessero ridere ma nello stesso tempo, mentre il lettore si sta piegando dal ridere, gli dessero anche un calcio nella pancia. Vorrei che fossero sempre leggermente spiazzanti rispetto alle aspettative del lettore. Di sicuro Notizia del disastro è spiazzante, perché io passo per essere uno scrittore umoristico, mentre in realtà questo libro di umoristico ha poco, molto poco».

Francesco Piraino - 2001

Wagner e Garibaldi ad Acireale

Scopro su Diario una storia zen che ha come protagonisti Wagner e Garibaldi. Nell'articolo di Roberto Alajmo sul soggiorno di Wagner a Palermo, tra il 1881 e il 1882, si racconta l'incontro a distanza, avvenuto ad Acireale, tra l'inventore della musica dell'avvenire e l'eroe dei due mondi. Il treno che trasporta Garibaldi si ferma alla stazione, proprio di fronte all'Hotel delle Terme, residenza temporanea di Wagner. La folla acclama. Il compositore in vestaglia scende in strada e chiede al direttore dell'albergo chi è quel vecchio acclamato dalla folla. Il direttore dell'albergo gli risponde che è l'eroe dei due mondi. Wagner dice: "Ah!".

A sua volta Garibaldi, vedendo dal treno quella figura venerabile in vestaglia, chiede chi sia. Gli viene risposto che l'inventore della musica dell'avvenire. Garibaldi dice: "Ah!". Nessuno dei due si muove, il treno riparte.

È un evento che nella storia dell'Occidente - come si suole dire per convenzione astronomica - non ha uguali. Due uomini epocali suggellano il loro muto incontro con l'interiezione più arcaica: "Ah!". Viene così risparmiata ai posteri ogni frase memorabile e ci si limita a un lascito esemplarmente alieno da ogni volontà dimostrativa ("Ah!"), da ogni entusiasmo edificante ("Ah!"), da ogni scoperta della comune matrice storica ("Ah!"), da ogni irrinunciabile impegno, compito o missione ("Ah!"), da ogni abbraccio fraterno ("Ah!"). Ci viene offerta invece l'immagine familiare e dimessa di una curiosità rassegnata ("Ah!"), di una concentrazione distratta ("Ah!"), di una Storia centripeta trasformata in Storia centrifuga ("Ah!"), di una evasione privata ("Ah!"), di uno scandaglio intimo ("Ah!"). Anche "Ah!" del resto, secondo alcuni grammatici, è una frase. Solo che ne contiene così tante, da diventare alla fine la più ricca ("Ah!") e la più completa ("Ah!").

Giuseppe Pontiggia, Prima persona, (Mondadori, 2002)




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