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Roberto Alajmo

 

 

…poi c'è Roberto Alajmo, autore del "Repertorio dei pazzi della città di Palermo" e di un altro gran bel libro che è "Notizia del disastro". Voglio dire, c'è gente brava (Andrea Camilleri)

 

Roberto Alajmo è nato a Palermo il 20 dicembre 1959.
Dal 1988 lavora come redattore alla sede siciliana della
Rai. Ha svolto il ruolo di critico teatrale al Giornale di Sicilia. Collabora abitualmente da editorialista con le pagine di Palermo di Repubblica e tiene una rubrica sulla rivista Diario della Settimana.
Ha pubblicato il racconto
Una serata con Wagner (Novecento, 1986) e poi i volumi Un lenzuolo contro la mafia (Gelka, 1993), Epica della città normale (Edizioni della Battaglia, 1993), Repertorio dei pazzi della città di Palermo (Garzanti, 1994), Almanacco Siciliano delle morti presunte (Edizioni della Battaglia, 1997), Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998, Premio Arturo Loria). Nel 2001 si è aggiudicato il Premio Letterario Mondello Città di Palermo con Notizia del disastro (Garzanti, 2001), un’analisi sulla sciagura aerea del 1978 avvenuta a Punta Raisi, con interviste ai sopravvissuti. Del gennaio 2003 è Cuore di madre (Mondadori).
Per il teatro è autore delle commedie Seicentocinquantamila senza contributi (debutto a Palermo, Museo delle Marionette, 1990), Repertorio dei pazzi della città di Palermo (premio Eti - Progetto giovani, debutto a Roma, Teatro Valle,1995) e Centro divagazioni notturne (debutto a Palermo, Festival del Novecento). Ha scritto inoltre il libretto dell’opera Ellis Island commissionata dal Teatro Massimo di Palermo, per la musica di Giovanni Sollima e con la regia di Marco Baliani.
E’ stato docente a contratto di Storia del Giornalismo alla facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo e consigliere d’amministrazione del teatro Stabile di Palermo.
Il
Repertorio dei pazzi della città di Palermo è diventato, su Internet, un work in progress: Enciclopedia dei Matti Italiani è un progetto di catalogazione sistematica dei pazzi che abitano le città italiane. I risultati parziali della ricerca, in attesa di essere raccolti in volume, vengono pubblicati settimanalmente su Diario.

 


Cosa significa per lei scrivere? Perché scrive? «La risposta è un luogo comune, ma vero: è sempre meglio di lavorare. Per tutti scrivere è innanzitutto riuscire a farsi leggere. Io sono un assertore delle letteratura che deve diventare popolare, nel senso che lo scrittore deve prendere per mano il lettore e portarlo però dove il lettore non sa».
Quale apprendistato suggerisce a chi desidera scrivere per pubblicare? «La formuletta meno peggiore è: trovatevi un maestro e cercate di imparare il mestiere da lui. Che lui lo sappia o no».
Per concludere, cosa si aspetta dalla sua attività di scrittore? «Mi piacerebbe comprarmi una casa, prima o poi, coi diritti d'autore».
E dai suoi lettori? «Io mi aspetto che i lettori mi seguano in un posto che non conoscono, mentre invece mi accorgo che la maggior parte degli scrittori di successo in Italia va sempre in un posto che i lettori già conoscono, dandogli sempre la pappa che loro già si aspettano, un po' liofilizzata, credendosi in dovere di rassicurarli. Io vorrei per lo meno che i miei libri non fossero per nulla rassicuranti, vorrei che facessero ridere ma nello stesso tempo, mentre il lettore si sta piegando dal ridere, gli dessero anche un calcio nella pancia. Vorrei che fossero sempre leggermente spiazzanti rispetto alle aspettative del lettore. Di sicuro Notizia del disastro è spiazzante, perché io passo per essere uno scrittore umoristico, mentre in realtà questo libro di umoristico ha poco, molto poco».

Dall’intervista di Francesco Piraino Roberto Alajmo, quando la cronaca diventa romanzo, 2001


Wagner e Garibaldi ad Acireale  

Scopro su Diario una storia zen che ha come protagonisti Wagner e Garibaldi.
Nell'articolo di Roberto Alajmo sul soggiorno di Wagner a Palermo, tra il 1881 e il 1882, si racconta l'incontro a distanza, avvenuto ad Acireale, tra l'inventore della musica dell'avvenire e l'eroe dei due mondi.
Il treno che trasporta Garibaldi si ferma alla stazione, proprio di fronte all'Hotel delle Terme, residenza temporanea di Wagner.
La folla acclama.
Il compositore in vestaglia scende in strada e chiede al direttore dell'albergo chi è quel vecchio acclamato dalla folla.
Il direttore dell'albergo gli risponde che è l'eroe dei due mondi.
Wagner dice: "Ah!".

A sua volta Garibaldi, vedendo dal treno quella figura venerabile in vestaglia, chiede chi sia.
Gli viene risposto che l'inventore della musica dell'avvenire.
Garibaldi dice: "Ah!".
Nessuno dei due si muove, il treno riparte.

È un evento che nella storia dell'Occidente - come si suole dire per convenzione astronomica - non ha uguali. Due uomini epocali suggellano il loro muto incontro con l'interiezione più arcaica: "Ah!".
Viene così risparmiata ai posteri ogni frase memorabile e ci si limita a un lascito esemplarmente alieno da ogni volontà dimostrativa ("Ah!"), da ogni entusiasmo edificante ("Ah!"), da ogni scoperta della comune matrice storica ("Ah!"), da ogni irrinunciabile impegno, compito o missione ("Ah!"), da ogni abbraccio fraterno ("Ah!").
Ci viene offerta invece l'immagine familiare e dimessa di una curiosità rassegnata ("Ah!"), di una concentrazione distratta ("Ah!"), di una Storia centripeta trasformata in Storia centrifuga ("Ah!"), di una evasione privata ("Ah!"), di uno scandaglio intimo ("Ah!").
Anche "Ah!" del resto, secondo alcuni grammatici, è una frase. Solo che ne contiene così tante, da diventare alla fine la più ricca ("Ah!") e la più completa ("Ah!").

Giuseppe Pontiggia, Prima persona, (Mondadori, 2002)


REPERTORIO DEI PAZZI DELLA CITTA’ DI PALERMO

(Garzanti, 1994)

…piccoli grumi intorno ai quali si coagula un’intera esistenza, dove la realtà e l’allucinazione si scontrano lasciando cadere scintille di poesia o di disperazione, di imprevedibile saggezza o di beffarda tragedia. Questi mille destini anomali, spesso incastonati in un grido, in un gesto, in un silenzio, appena sotto la superficie grottesca costituiscono altrettanti modi di guardare e vivere il mondo. Roberto Alajmo li ha colti e isolati nella scrittura con la passione di un entomologo, per poi raccoglierli in uno schedario di bizzarrie, di ribellioni, di fughe: eccentricità che però, tutte insieme, finiscono per comporre, come un mosaico, il ritratto anticonvenzionale di una città, e forse anche una delle sue anime più segrete.

Una diceva di essere l’autore di tutte le canzoni di Lucio Battisti. Una volta partecipò ad una festa che gli infermieri avevano organizzato nell’istituto dove era ricoverata. C’era un piccolo gruppo musicale. Lei ballava sotto il palco, da sola. Muoveva i capelli sulla faccia fregandosene di tutti e fregandosene anche della musica. A un certo punto si stancò di ballare, salì sul palco, zittì il complesso musicale e nel silenzio generale cantò da sola il blues più bello che si fosse mai sentito.

Uno lo chiamano Garibaldi, perché ha una bella testa bianca e una camicia rossa. Tiene sempre in mano un sacchetto di plastica e nell’altra un libro sulla vita di Gesù. Si incontra nella zona di via Roma. I suoi vestiti sono impeccabili, perché viene da una famiglia ricca.
Ogni tanto fa piccoli discorsi. Se incrocia un passante prima si ferma e poi si volta seguendolo con lo sguardo.

Uno faceva collezione di chiodi usati e li classificava in diverse cassette con su scritto: utili, forse utili, difficilmente utilizzabili.

Due erano nati nella zona di piazza Magione e vollero diventare giudici. Poi uno fu ucciso e l’altro gli sopravvisse solo cinquantasei giorni.


ALMANACCO SICILIANO DELLE MORTI PRESUNTE

(Edizioni della Battaglia, 1997)

ventinove sette ottantatré

Sentì il citofono suonare e guardò l'orologio. Erano da poco passate le otto. Scese le scale e arrivò in portineria.

Fuori, la luce forte di luglio raccontava di un'altra bella giornata troppo calda. Nel buio della portineria c'era quello squarcio di luce che gli pareva ancora più forte del solito. Man mano che lui avanzava, lo squarcio si ingrandiva. Sulla soglia c'era il portiere che lo salutò. Lo salutarono anche i carabinieri della scorta. Lui ricambiò i saluti, naturalmente. Ma era sovrappensiero: varcata la soglia per poco non si fermò a lasciarsi stordire dalla luce. Anche un attimo prima di salire in macchina stava pensando che quella luce era davvero troppo forte.

 

Una specie di Varanasi
postfazione di Roberto Scarpinato

 

[…] In una  stagione storica quale quella che stiamo attraversando, segnata da una crescente volontà di cancellazione della memoria del passato, quasi che la memoria fosse una pioggia acida che impedisce ai "radiosi" frutti del presente di germogliare, egli [Roberto Alajmo, n.d.c.] è uno di quelli che si ostinano a ricordare, che si sono assunti il peso di non dimenticare.

Ricordare è essenziale e sempre scomodo.

"La memoria delle morti violente", ha scritto Renate Siebert, "costringe al confronto con la possibilità che esse avrebbero potuto essere evitate. Il ricordo del sacrificio di queste vite pone questioni di responsabilità, offre parametri di giudizio sul corso degli eventi". Nelle quarantadue microstorie del libro, Alajmo con un linguaggio sommesso e minimalista restituisce alla morte violenta quello sguardo interno, intimo, dalla parte delle vittime, che non trova spazio nell'asettica aridità dei rapporti di polizia e nella deriva retorica delle commemorazioni ufficiali.

L'evento finale non si annuncia quasi mai con il rullare di tamburi ed il clangore delle armi consentendoti di metterti all'erta e di prepararti: mai, neppure quando - come accadde a Carlo Alberto Dalla Chiesa o Paolo Borsellino - sei una vittima predestinata.

La morte si insinua, con uno scarto improvviso di luce e di suoni, nella vita.

Forse è proprio così che si muore a Palermo: con un fiotto di pensieri e di immagini normali che slittano verso il buio, come la pellicola di un film che si inceppa aggrovigliando, in uno stridio di suoni e di colori confusi, una storia in corso che si vorrebbe poter raccontare.

E l'ultima immagine è quella "normale" del sorriso del killer sconosciuto che si avvicina chiamandoti per nome, come accadde a Paolo Giaccone, o quella dei fiori che stavi innaffiando quando "da dietro le sbarre della cancellata spuntò la canna di un fucile, ma corto, di quelli che sparano informa di rosa", o della luce "davvero troppo forte" da cui si sentì investire Rocco Chinnici in quell'assolata giornata di luglio, poco prima di salire in macchina, quando improvvisamente si fece buio.


LE SCARPE DI POLIFEMO e altre storie siciliane

(Feltrinelli, 1998)

C’era questo bambino enorme. Se sicuramente aveva un nome, l’avevano scordato tutti per sempre quando Pinuccio tornò trafelato da una lezione d’Omero per annunciare:

- Polifemo!

Disse, e stette zitto. Di lì a poco qualcuno gli chiese:

- Ma quale Polifemo?

E Pinuccio si spiegò.

 

[…] Roberto Alajmo, giornalista a Palermo, poco meno che quarantenne, alle spalle tre libri e qualche commedia, […] abituato a frequentare il quotidiano, ha gusto, curiosità e talento di cacciatore di storie. Preferisce la misura alle provocazioni che non provocano nessuno, e il lettore stabilisce con lui una comunicazione immediata e amichevole: sorride agro, si immalinconisce, si “diverte” come ci si può divertire davanti a degli exempla di vita contemporanea.

Questa di Alajmo non è la solita Sicilia torva di una sua grandiosa idea del Male, quella sanguinaria della Piovra, o quella ambigua delle collusioni tra mafia e politica, o delle faide tra inquirenti; ma è la Sicilia minima e “normale” di tanti anonimi “vinti” che al massimo alimentano tre righe di cronaca. C’è il vecchio borsaiolo specializzato nel depredare i passeggeri degli autobus che si sente arrivato a fine carriera quando negli occhi delle sue vittime non scorge che stanca indifferenza. C’è il fattorino di un giornale, eterno precario, che vorrebbe vendicare l’insulto che gli ha fatto un sindacalista, ma non trova di meglio che ricorrere a un risibile temperino. C’è un portiere, per altro assai riservato, che si è allestito una fornitissima videoteca porno, e quando muore lascia la moglie alle prese con l’incubo di dover restituire al noleggiatore le quaranta cassette che lei, nel frattempo, ha buttato via. […] O il gigantesco bambino obeso e strabico, ribattezzato Polifemo dai compagni di scuola, che passa di colpo dai ritardi dell’handicap a una carriera di maniaco sessuale nel distratto imbarazzo dei più…

Tredici storie che Alajmo lascia volutamente aperte, senza mai concluderle con il botto dell’Evento o con una trovata a sorpresa. Storie in progress, come avviate a un malinconico, interminabile spegnimento, in cui il vero inferno è che non succede mai nulla di veramente decisivo (nemmeno la morte sembra esserlo). La Similitudine si avverte soltanto nella speciale, metafisica tristezza di questi impassibili clown del degrado urbano, nell’ostinazione con cui ancora si ingegnano a perseguire una parvenza di Decoro.

I racconti hanno un tono misurato di allegretto, ma la loro comicità resta tutta implosa, non deraglia nel grottesco o nel drammatico. E’ il paradosso, di ascendenza pirandelliana, di una materia anche tragica che non riesce a deflagrare in tragedia, ma si ripiega in una sorta di amaro stupore. E’ qui che la Palermo di Alajmo, ancora intimamente secentesca, diventa una metafora del resto dell’Italia. […] Accade, insomma, come per i libri di Sciascia: credevamo di trovarci una realtà inquietante, ma lontana e diversa, sostanzialmente innocua come le atrocità delle fiabe: ed è invece di noi che questi apologhi siciliani stavano, e stanno, parlando.

Ernesto Ferrero, Anonimi di Sicilia. I vinti di Alajmo, Tuttolibri, 12 marzo 1998


NOTIZIA DEL DISASTRO

(Garzanti, 2001)

VOLO AZ4128 ROMA - PALERMO e accanto, più in piccolo: NON ATTERRATO.

Cosa significasse quella specie di eufemismo fu subito chiaro a tutti. Non fosse bastato, sarebbe stato sufficiente vedere lo stato d’animo collettivo e il numero dei parenti, che era andato aumentando fino a mille, duemila, tremila persone. Chiunque arrivava da Palermo si trascinava dietro il suo pezzo di angoscia mischiata alle notizie che ormai erano sempre le stesse: era caduto un aereo, c’erano dei superstiti.

 

Il 23 dicembre 1978, dopo la mezzanotte, un Dc9 dell’Alitalia, decollato a Roma e diretto a Palermo, precipitò in mare a poca distanza dalla pista dell’aeroporto di Punta Raisi. Nell’impatto morirono 108 persone; 21 si salvarono. In realtà, quelli che uscirono vivi dallo schianto erano oltre il doppio, ma i soccorsi tardarono ad arrivare, e il disastro ebbe il suo epilogo. Roberto Alajmo ha scritto un libro molto bello che racconta in poche pagine la storia dei passeggeri di quel volo. È un racconto secco, essenziale, accorato e a tratti commovente. L’ha intitolato “Notizia del disastro”. L’etimologia della parola “disastro” è “cattiva stella”. Il racconto si concentra soprattutto sui sopravvissuti, sulla casualità che li ha voluti salvi. Sono tanti piccoli ritratti; in alcuni casi solo di poche righe o pagine, in altri Alajmo dilata il racconto fino a comprendere eventi ed episodi prima e dopo la catastrofe. Lo scrittore palermitano conosce bene l’arte della concisione: poche parole bastano a descrivere una vita. È un libro che si legge con la stessa vivacità con cui si sfoglia un album fotografico: curiosità, apprensione, malinconia, e persino qualche sorriso.

La tragedia è qualcosa di essenziale, e Alajmo non ha tempo né voglia di pigiare il pedale del patetico. Il senso complessivo del libro è quello di un reliquiario fatto di parole. Per quanto sia un’opera d’impegno civile (le responsabilità di chi ha costruito e gestito l’aeroporto di Punta Raisi sono evidenti, così come le omissioni nei soccorsi), allo scrittore interessa più di tutto il tema del destino. Non il caso, la fortuna o il fato, ma proprio il destino, l’irrevocabile. Una volta Leonardo Sciascia ha detto che l’immagine di un uomo morto a vent’anni sarà per sempre quella di uno che ha vent’anni. La parola destino ha questo significato: fissare, fermare nel tempo. Alajmo fissa attraverso la scrittura l’implacabilità del destino dei vivi e dei morti, ma al tempo stesso, scrivendo di loro, li fa muovere; per un attimo soltanto - il tempo della lettura - li convoca di nuovo sulla scena della vita. Così li vediamo sfilare, da Francesca Accardo a Francesco Zumbo: atti unici simili a noi.

Marco Belpoliti, In volo verso il destino, L’Espresso, 24 maggio 2001


ELLIS ISLAND

(Teatro Massimo, Palermo, ottobre 2002)

Roberto Alajmo (a sinistra) con il regista Marco Baliani

[…] Sollima ha scritto con Ellis Island la prima opera per il teatro. Gliela commissionava il Massimo di Palermo, che l’ha portata con successo in scena, chiamando co-autori e compartecipi del felice esito del debutto il librettista Roberto Alajmo, che ha firmato uno dei testi più belli del teatro contemporaneo, e la cantante pop Elisa, fanciullina grintosa e dolce, di voce e aspetto, ideale per lanciare un ponte tra opera e giovani.

Collante fondamentale per il giudizio positivo sull’opera (a occhi chiusi non faceva lo stesso effetto) le scene bellissime di Carlo Sala. Perfette nello spazio immenso del Massimo – non una crepa dal terremoto!, quelli sì sapevano fare i teatri – rivisitato prima come una stiva di una nave, opprimente prigione, e poi restituito coi tratti della body art, tra corpi ammucchiati, materassi e coperte. Di suo Sollima ci ha messo una scrittura semplice e pulita (uno sguardo alla partitura, pubblicata da Casa Sonzogno, e ti sembra di leggere Händel) erede della minimal music – meno serrata, meno spezzata armonicamente rispetto a Nyman – con in più il confronto tra voce impostata e non, tra italiano e inglese, e con l’aggiunta finale della nuova Babele di curdo e tamil dei nuovi migranti. Il tutto venato da un retrogusto un po’ mélo, dato dall’espressività, sempre scopertamente lacrimevole, e accentuata dalla regia di Marco Baliani. Efficace nei movimenti delle masse (con l’immancabile citazione di Pellizza da Volpedo) toccante in alcuni gesti dei bambini, molto in primo piano (indimenticabili quelle manine alzate fragili, sull’appello militaresco degli schedatori), ma talora un po’ stucchevole. Ad esempio in certi trascinamenti carezzevoli di sguardi, di passi, di pause. Il dolore è freddo. Scarnificato passa meglio. Come nei due prologhi parlati ai due atti, dove il vecchio contadino Tommaso Bordonaro (l’attore Giorgio Li Bassi) raccontava, carico di anni, la Sicilia dell’emigrante: coi dolcetti di mandorla messi in bagaglio che ammuffiscono e puzzano, le famiglie in aumento anche durante la traversata dell’Oceano, il travaglio per nascere e rinascere dove la memoria finisce per smarrirsi su date e nomi, e i silenzi sul cantilenante palermitano stemperano la rabbia della fatica in nostalgia […]

Carla Moreni, Disoccupazione all’Opera, Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2002


CUORE DI MADRE

(Mondadori, 2003)

Quello che mi interessava, principalmente, era riuscire a mettere a fuoco un certo habitat familiare siciliano dove secondo me trovano rifugio sentimenti e azioni di livello proprio belluino. Dietro questa patina di affetti morbosi che sono tipici del rapporto soprattutto fra madri e figli maschi in Sicilia si nascondono violenze inaudite. Gli esempi che si potrebbero fare sono tantissimi. Quante volte noi abbiamo visto madri anche non siciliane, diciamo madri mediterranee - perché poi è un tipo che ricorre in tutto il bacino del Mediterraneo e forse non solo in quello - quante volte noi abbiamo visto madri difendere i figli contro ogni logica e contro ogni senso di giustizia…

Quando Abraham Yehoshua è venuto a Roma per presentare il suo ultimo romanzo (La moglie liberata, Einaudi), dopo la presentazione ho avuto modo di conversare un'oretta con lui, assieme a un gruppo di amici. A un certo punto il discorso è caduto sull'agghiacciante fenomeno dei kamikaze e la madre, è proprio lei a diventare una figura-chiave nel martirio del ragazzo.
Un improvviso cortocircuito mentale mi ha fatto tornare alla mente questi discorsi quando ho letto il romanzo di Roberto Alajmo, Cuore di madre (Mondadori, pagine 240, euro 14,40); romanzo robusto e importante, che si svolge in tutt'altro contesto (la Sicilia) e parla di tutt'altro tipo di violenza (quella maturata in ambiente mafioso, peraltro non esplicitato). Ma che ripropone ancora una volta il ruolo centrale della madre in un atto tragico e criminoso. Siamo a Calcara, nel pieno di quella lunghissima estate ("da maggio a settembre: caldo. Oppure in certi giorni: molto caldo") che fa precipitare il paese in uno stato di totale sonnolenza.
Cosimo Tumminia è un uomo poco più che quarantenne, proprietario di un negozietto dove si riparano gomme di biciclette. Calcara però è un luogo di continui saliscendi e la bicicletta non è certo il mezzo migliore per muoversi, a maggior ragione quando c'è quest'afa insopportabile: viene da sudare soltanto a guardarla. Non bastassero tali, oggettive ragioni a rendere l'attività di Cosimo praticamente inesistente, ci si è messa anche una diceria di paese, che lo vuole menagramo. Di modo che tutti si allontanano dalla sua bottega e dalla sua persona: isolata, vagamente sinistra, taciturna e - dopo la morte del padre - immancabilmente vestita di nero.
Proprio questa condizione di totale isolamento fa ricadere su di lui la scelta di una banda di malfattori, che gli affida un bambino da tenere nascosto nella sua casa di campagna, promettendo di tornare a prenderselo dopo qualche giorno in cambio di una lauta ricompensa. Ma la vaghezza è assoluta, e frattanto il tempo passa e la relazione con il piccolo peggiora di ora in ora. Cosimo non riesce più a distrarsi nemmeno con la lettura minuziosa della Settimana Enigmistica, né con l'ascolto della radio dei camionisti: le sue uniche, grandi passioni.
Dapprincipio si dà un tono e cerca di infischiarsene di quell'esserino di dieci anni che vive recluso al di là di una porta; gli passa acqua e cibo al di là della gattaiola e poi si sdraia inebetito in poltrona davanti al televisore. Ma via via che trascorrono i giorni e quello non tocca il cibo (nemmeno il "brociolone" preparato con amore dalla mamma di Cosimo), l'uomo comincia ad allarmarsi. Allora prova ad ingraziarselo e con goffaggine inaudita cerca di abbracciarlo ("non sapendo dove mettere le mani, dove stringere e quanto stringere"), ma l'altro - con mossa improvvisa e felina - gli mozza la punta dell'orecchio. Cosimo non ci vede più e lo malmena, ma è un uomo, più che buono inerte, e dunque il rapporto tra i due riprende nel più assoluto mutismo e nella progressiva disappetenza del piccolo.
E' a questo punto che entra in scena la madre di Cosimo, preoccupata nel non vedere il figlio da ormai qualche giorno ("forse è la prima volta che capita un intervallo così lungo, a parte il servizio militare"). L'uomo infatti si è emancipato da lei per modo dire: da qualche tempo ha sì preso casa da solo, ma dipende ancora dalla mamma in tutto e per tutto. A cominciare dal cibo, che passa a ritirare ogni giorno in opportuni recipienti di plastica. Con poche, smozzicate parole, Cosimo spiega alla donna il motivo della presenza dell'ospite e lei non se ne meraviglia più di tanto.
Evidentemente, l'occasione di riprendere il pieno controllo sul figlio è troppo ghiotta e così, con un esorbitante carico di valigie (neanche dovesse fermarsi lì per anni), si trasferisce armi e bagagli nella casa di Cosimo; il quale, per contro, accetta di buon grado questo trasferimento, avendo verificato la sua totale inettitudine nel gestire l'intera faccenda: "E' stato uno stupido a non coinvolgerla fin dal primo momento. Lei avrebbe risolto tutti i problemi o almeno lo avrebbe consigliato. Così è stato fin da quando lui era piccolo e non c'è motivo che vada diversamente, specie ora che si trova nei guai". E difatti anche stavolta la donna prende in mano con vigore la situazione….”

Franco Marcoaldi, Mafiosi figli di mamma, La Repubblica, 13 gennaio 2003


A cura di Paola

Last modified Wednesday, July, 13, 2011