Uno scrittore dalla fama non duratura
di Giacomo Cacciatore
C'era un'atmosfera da salotto sospeso sul ciglio dell'abisso, al culmine del
giardino con passeggiata socratica. Nell'aria, a Villa Niscemi, un mese fa, il
fremito di un manipolo di ultimi cavalieri del sapere contro barbari che si
svuotano la vescica su un sagrato. Si presentava un testo teatrale fattosi libro
e un libro destinato alle assi del teatro. Il pubblico era immobile, assorto. Si
annusava il fumo di novelli poemi omerici dell'odissea d'essere siciliani che
svaporava da teste calve e fronti aggrottate, in sala, dove ognuno sembrava
spiare il livello di spremitura delle meningi del vicino per surclassarlo.
C'era una poetessa con il trucco da rifare a ogni schiusura di labbra e ottanta
chili di levità di pensiero in veli da musa. C'erano cinque colletti bianchi
inamidati, tanto da far sospettare che il sottogola servisse pure da sottotesta,
perché lì si parlava di crani d'uovo, densi di conoscenza e citazioni,
anatomopatologi di corpi letterari, teste che avrebbero schiacciato un
bottondown non abbastanza resistente alla bisogna. Gran parte del pubblico si
reggeva il mento con un'alzatina di indice e pollice. Altri scongiuravano
volgari caldane soffiandosi con un programma di spettacoli per solo violino,
voce e bidoni capovolti battuti da manici di pennello. Uno, uno solo, in terza
fila, stringeva in mano un libro. Teneva la copertina rossa nascosta agli
sguardi altrui.
Avresti pensato che fosse appena scampato al taccheggio negli scaffali del
supermercato. Un'occhiata circospetta piombò sul volume. L'uomo arrossì, infilò
ancora più in profondità, sotto il braccio, il libro che ora una vicina
incartapecorita stava passando ai raggi X. Fece una smorfia di sofferenza. Si
sarebbe incassato il volume nelle costole, se avesse potuto, per farlo sparire
come le dita dei manipolatori di viscere filippini. «È un regalo per mia
moglie», disse. I vicini compresero, il naso turato da invisibili pinze da
bucato.
C'era l'autore teatrale. Anziano. Forse perduto in una nuova e definitiva
variante filosofica sul chi siamo, dove andiamo e chissà se mai l'isola guarirà
da certe piaghe, subcultura compresa. Piaghe buone da curare in mille
conferenze. Ora nemesi del popolo siciliano afflitto, ora baldanza di un'isola
irredenta, talvolta spocchia di una razza che è unica al mondo, che ha dato il
meglio di sé, ma è acqua passata ahinoi.
L'argomento, però, avrebbe dovuto essere il libro. Così fu. Ma non quello
dell'autore in sala. Sulla pièce, poche parole. Idee in cerca di paternità
nobile. Si tirò in ballo Pirandello, che c'entrava e non c'entrava, un po' come
l'ospite che non falla, pronto a risollevare le sorti di un varietà che non
decolla. Il relatore, un travetpensatore di fama, fu brillante, compìto, bocca
stretta e mani giunte da parroco, e passò a Verga e Capuana, acchiappò uno
Sciascia, tanto per colmare il carniere, e intanto la sua pelata scintillava,
gli occhi gli si facevano piccoli, s'andava agitando.
«Sta per dire qualcosa di importante», mormorò un ottantenne in prima fila.
«Ed è ora che si dica», gli fece eco la poetessa, accalorata da tanta cultura
che aleggiava nell'aria. L'anziano sollevò lo sguardo sull'oratore. Di lui
aveva letto l'ultimo libro. "La Sicilia e Pirandello", o qualcosa di
simile. Per qualche istante, giorni prima, aveva pensato a un acquisto
sbagliato, visto che un libro identico dello stesso autore, datato '92,
campeggiava sullo scaffale. Aveva risolto subito l'equivoco. Si trattava di
"Pirandello e la Sicilia". Tutt'altra cosa, guarda la distrazione.
«È un grande studioso di cose culturali nostre», disse il vecchio,
risollevato. «Sta per buttarla lì, lo conosco...».
L'oratore chinò il capo di scatto. Riprese fiato. Bevve un bicchiere d'acqua.
«E ora, cari signori», ricominciò, «dico la mia su un argomento che esula da
questo nostro incontro». Brusio dalla sala. L'oratore assentì. «Frequentando
le librerie, scorrendo le classifiche delle vendite, non posso, non possiamo,
non tener conto della decadenza che continua a investire la nostra isola.
L'isola dei grandi autori. Sapete tutti di chi parlo, non si scrive d'altro sui
giornali».
L'assise fece sì, sì, a labbra strette, con rabbiosi gesti del capo.
«Vorrei tranquillizzarvi», aggiunse il relatore. «Frequento i migliori
salotti di Roma, di Milano, e la situazione è ormai chiara».
«Vogliamo sapere!», disse un musicologo sulla novantina, sbacchettando un dito
tra il pubblico. L'oratore si asciugò la gran testa con un fazzoletto di lino.
Sorrise.
«E va bene. Mi hanno assicurato... mi hanno garantito... che il successo di
quel famoso signore è cosa che non lascerà traccia. Le sue inutili storie, che
finiscono dove cominciano, svaniranno. Nessuno ne parlerà, fra dieci anni,
nemmeno nell'agrigentino. È una fama facile, la sua. E come tutto ciò che è
facile, popolare, volgare, scomparirà così», schioccò le dita, «come una
bolla di sapone!».
Il commiato fu uno sciamare di fantasmi, di saluti, ben lieto, commendatore, ben
trovato, notaio, alla prossima, dottore. Soltanto l'uomo con il libro dalla
copertina rossa, ben rincalcato sotto il braccio, sfuggì ai saluti. Temeva che
qualcuno potesse scorgere il nome dell'autore. «È per mia moglie», sussurrò,
rimasto solo, davanti al portale della villa. Ma carezzò la copertina, la tastò,
con ansia, come un ladro. Voleva accertarsi se l'ultimo romanzo di Andrea
Camilleri potesse davvero svanirgli tra le dita, da un momento all'altro, come
una bolla.
Sarebbe stato triste, non avere niente di arguto da leggere, quella sera.
La Repubblica
(ed. di Palermo), 30.7.2002 |