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Int'allu Salento

- Curu ete nu pacciu!- [1] inorridì Tonio Lu Siccu, bloccando il vecchio Ape al margine della carreggiata.

- None. Curu ete nu strunzu!- filosofò Santiago, tergendosi il sudore dalla fronte.

Ma i due vecchi pescatori non ebbero il tempo di riprendersi dalla sorpresa, diciamo pure dallo choc, che alla Volvo lanciata a velocità folle sui tornanti della Duchessa fece seguito un’altra berlina. Tonio notò i vetri oscurati, Santiago il braccio che sporgeva dal lato passeggero, e impugnava una mitraglietta, o forse un fucile a canne mozze.

- Hai visto?- chiese Santiago.

- Aggiu visto- annuì Tonio Lu Siccu.

- Contrabbandieri?

- O furastieri. Hai visto come fuciono?

Perché solo due pazzi o due forestieri potevano scatenarsi a centocinquanta su quell’infame tratturo quando mancavano solo due, tre chilometri al massimo alla Curva Maledetta. Cioè alla morte sicura.
Tonio, scuotendo la testa, rimise in moto il furgoncino. Santiago si grattò il moncherino illustrato da una perenne fioritura di peli, incanutiti dall’età e dall’esposizione al sole, e si accese con la mano sana due sigarette. Una la passò al socio. Da quando la bomba era esplosa nel Canale d’Otranto,  gli era rimasto solo il fratello. E anche Tonio non aveva, nella vita,  che quella capa gloriosa di bombardiere improvvisato e fallito. Due vecchi fratelli solitari e amareggiati che se ne tornavano a Maruggio (Mare Uggium, mar Uggioso, in omaggio a quel pezzo iridescente e traditore di Jonio che, quando meno te l’aspetti, esige il periodico tributo umano) dopo aver piazzato tre casse di pescato al mercato di Torre Colimena. Intorno, il tramonto rosseggiava sugli ulivi dai tronchi bassi e forti, sui filari di vite tenace, sui muretti a secco dai quali spuntavano, con i loro occhi verdi, gialli, scarlatti e lillà, i fichi d’India prossimi alla maturazione.

- Minchia, frate!

- Siento, siento…

Lo stridìo disperato dei freni e il rumore del cozzo erano echeggiati per la campagna deserta. I due fratelli si fissarono senza dire una parola. Era chiaro che le due macchine erano uscite di strada, e ora dovevano giacere nel fossato, sotto la curva maledetta. Ma quasi subito altri suoni invasero il tramonto che si faceva vespro: il rombo di un motore, un nuovo stridìo di gomme sull’asfalto, un isolato grido selvaggio, come di esultanza.

- Abbasciati!- ordinò Tonio.

I due fratelli si appiattirono sul fondo del furgoncino. Sentirono, non videro ripassare la macchina. Lo spostamento d’aria agirò il vecchio Ape. Attesero ancora due, tre minuti, finché il rombo del motore si spense in lontananza e i grilli ripresero pieno possesso della situazione.

- Sce vidimu?- propose Santiago.

- Tanto ci dobbiamo passare- concesse Tonio.

Quanto mancava alla curva? Un chilometro, forse meno. L’Ape avanzava esitante, mentre le ombre della notte si allungavano rapidamente sulla campagna. Tonio spostò il mezzo al centro della carreggiata, e svoltò. Forse il guidatore era riuscito a calcolare con la forza della disperazione l’angolo impossibile che gli aveva permesso di infilarsi fra i tronchi di due enormi ulivi, evitando la rovinosa caduta. O forse era stata solo la fortuna. Fatto sta che il Volvo se ne stava accasciato su un fianco giusto sul ciglio del fossato.

- Ju va’ vesciu!- disse Santiago.

- Lassa stare! Arrivamu a Maruggio e chiamamo li Carbinieri!

- None. E ci è vivu?

Quando Santiago si metteva una cosa in testa, non c’era niente da fare. Tonio lo seguì malvolentieri. Da quella storia non poteva uscire niente di buono. Non poteva mai uscire niente di buono dalla vita. Sennò come si spiegava che erano finiti così miserabili? Comunque, seguì il fratello.

- Signore? Sta nisciuno ddà? Siete vivo? Signore?

Un rantolo rauco, un sibilo ringhiante, un grido. I due fratelli si precipitarono sulla carcassa del Volvo. Per essere vivo era vivo, l’uomo. Stava furiosamente cercando di districarsi dalle lamiere e dalla morsa dell’airbag. Aveva un volto magro, scavato, abbronzato, ornato da due imponenti mustacchi macchiati di sangue e di nicotina. Santiago lo riconobbe a prima vista.

- Frate, custu ete Nik Sapienza

- Lu cantante?

- Proprio. A’ sigaretta c’ha m’hai appicciato/ quanto ne purtava e’ veleno/  e mo’ nun te pozz’ chiù scurdà-à-à…- intonò Santiago, che prima di perdere il braccio aveva suonato la fisarmonica nella banda del paese.

- Tiratemi fuori di qui!- urlò il cantante.

Tonio si grattò la testa. Santiago si grattò il moncherino. Facile a dirsi. E se s’era incastrato di sotto? E se c’aveva qualcosa di rotto?

- Tiratemi fuori, cazzo!

Comunque, là così come stava non potevano lasciarlo certo.

- Mittiti qua. Ca iu lu tiru!- ordinò Santiago.

Tonio girò intorno all’uomo, che continuava ad agitarsi e a sbraitare. Santiago piantò un piede nelle lamiere, afferrò con la mano superstite  quella che il ferito gli protendeva e tirò con tutte le sue forze.

- Bovozzone!- urlò Nik Sapienza, e poi svenne.

 

Dopo la cena, il passaggio obbligato nella discoteca sul mare e un’interminabile conversazione sulle reciproche “aspirazioni”, Giacomo “Jack” (per via di una vaga somiglianza con il fante del mazzo da poker) Anfuso era riuscito a portarsi la ragazza nel capannone, a sdraiarla sul materassino strategicamente predisposto fra le scocche di due vecchi camion in disarmo, e aveva appena ingaggiato con il gancetto del reggiseno a coppa un corpo a corpo dall’esito ancora incerto, quando un colpo furioso quasi divelse la porta girevole, accompagnato da un urlo imperioso e incazzato.

- Anfuso! Figghiu di cane, issi fora!

Circonfusa dal lucore delle lampade di sicurezza, la sagoma massiccia e tondeggiante di Ciriaco Bovozzone occupava tutto intero lo spazio che separava la tarantata notte salentina dall’improvvisata alcova che sapeva di olio combustibile, gomme vulcanizzate e del lieve eccitamento sudato della coppia.

- Anfù, mannane quedda uagnona, ca’ mi siervi! [2]

Prima che la ragazza potesse abbozzare una protesta, Anfuso le infilò nella scollatura una banconota da duecento euro, le sistemò sulle spalle la camicetta e sussurrando un poco credibile “ti chiamo domani, ciccia”, la spedì via con una pacca sul sedere. La uagnona, tipo spierto, guadagnò rapida la libertà, circumnavigando don Ciriaco. E Anfuso venne allo scoperto.

- Eccomi, boss. Ci cumannate?

- Lu cantante. E’ vivo.

- Ma non è possibile! L’ho visto coi miei occhi uscire di strada, e voi sapete che la Curva Maledetta non perdona…

- Beh, uagno’, stavota perdonò!

- Mi… mi dispiace, don Ciriaco…

 Bovozzone si prese la testa fra le mani.

- Giacchi, io a te ti sopporto solo perché trent’anni fa pateto mi salvò la vita, e in punto di morte il gli giurai che mi avrei preso cura di te. Ma quanto cazzo lo devo pagare ancora, stu diebito? Nik Sapienza vivo è. Ora tu ti prendi U’ Gnauru e int’annora mi lu acchi e spicci la fatìa. O, sangu di santu niente, stavota ti faccio zuppare lu sicchio! [3]

 

Tonio U’ Siccu guardava alternativamente il cantante e il filo del telefono, che pendeva sfilacciato dalle sue mani dalle unghie lunghe e ben curate. O quel Sapienza era pazzo, o ci era diventato a seguito dell’incidente, o tutte e due le cose. Santiago, non meno esterrefatto del fratello, si grattava il moncherino. Come avrebbero fatto meglio a lasciarlo al suo destino, il signor Nik Sapienza! Che, intanto, trascinandosi una gamba mezza cionca e con gli occhi allucinati, aveva tirato fuori da chissà quale tasca un pistolino cromato, e l’agitava, e sbavando scaracchiava fili di sputazza e insulti senza senso:

- Ah, site tutti d’accordo, eh? E’ ‘na congiura! Pure voi state cu chillu fetiente e’ Bovozzone! Ma io v’accido! Io v’accido, quant’è vero…

Il fendente di Santiago, vibrato con una certa elegante noncuranza, colse il polso del cantante. La pistola cadde. Tonio, lesto, la raccattò, la soppesò, e, ignorante com’era in fatto di armi, non trovò niente di meglio che puntarla verso il cantante e lasciar partire un colpo. Ci fu un rumorino piccolo piccolo, insignificante, seguito da un gemito, da uno scroscio e, infine, dal tonfo di un corpo che cade.

- O madonna!- esclamò Tonio, gettando via l’arma.

- L’è accisu?- s’informò Santiago.

- E ce ne sacciu?

Ma Nik Sapienza, già sopravvissuto a un tentato omicidio truccato da incidente stradale, doveva avere da qualche parte una buona scorta di vite di riserva. Perché la palla l’aveva solo sfiorato, andando a sgretolare un bel piatto da muro, di quelli dell’artigianato povero, fatto con la madreperla delle conchiglie.

- Acceriteme mo’, avanti, strunzi, acceriteme!

Dopo un’ultima grattata al moncherino, Santiago prese in mano la situazione. Con la mano sana tirò su il cantante, che si era rannicchiato in posizione fetale, e gli spiegò: che l’avevano raccolto malconcio dopo l’incidente e  trasportato nella loro modesta casa in località Monacizzo (olim terra dei monaci, o monastero); che durante tutto il viaggio a bordo del furgoncino, vaneggiante, egli non aveva fatto che pronunciare, a più riprese, il nome di Bovozzone; che era noto in paese che Ciriaco Bovozzone, omo de panza del luogo, aveva pagato le spese di trasferta e il soggiorno di esso, noto cantante, nonché offerto alla cittadinanza tutta il gratuito concerto in piazza, e ciò non più tardi di ventiquattr’ore prima. Ergo, avevano deciso di informare dell’accaduto don Ciriaco in persona, assumendosi la responsabilità di svegliarlo telefonicamente in piena notte. Don Ciriaco era stato ovviamente sorpreso dall’annuncio, e si era premurato, da quel gran signore che è, di ringraziare l’ancora ignoto interlocutore, assicurando che avrebbe mandato un uomo di sua fiducia per risolvere la situazione. Ma proprio mentre Santiago stava per qualificarsi, e dunque declinare generalità e, soprattutto, indirizzo del modesto casamento monacizzano,

- Voi vi siete avventato come nu pacciu e c’avite rotto lu telefono!

Lungi dal mostrarsi contrito, il cantante si produsse in una sonora risata che fece venire voglia a Tonio di riprendere il pistolino e, stavota, piantargliela in capa, una palla.

- Così, chillu grandissimu curnuto non sa dove sto!

- Proprio così!

- Voi la tenete una macchina?

Tonio e Santiago si scambiarono un’occhiata contrita.

- Proprio proprio macchina no…- sussurrò Tonio.

- Furgone Ape- precisà Santiago

- Cammina?

- Insomma…

Il cantante si frugò nelle tasche, estrasse un libretto degli assegni e una penna.

- Ve lo compro!

- Nossignore- protestò Tonio- ni serve pi lu pisci!

- O’ sapite quanto pesce vi putite accatta’ cu trentamila euri?

- No!- disse Tonio.

- Sì!- urlò  Santiago

Nik Sapienza staccò l’assegno dal blocchetto e lo porse al monco.

- Affare fatto!

 

- Mi scopo tua sorella! - [4] disse U’ Gnauru.

- E io la tua- sospirò stancamente Jack Anfuso.

Esaurito il rituale del saluto, U’ Gnauru indicò una casupola di contadini che nereggiava nell’incerto lucore dell’imminente alba.

- Trovato!

Jack Anfuso fissò l’albanese con un mezzo sorriso che doveva, nelle sue intenzioni, esternare tutto lo sconforto di quel momentaccio. Ma U’ Gnauru era incapace di cogliere la sfumatura. Piccolo, nerissimo, tozzo, sfregiato, bastardo e fedelissimo al boss che, chissà per che vie, l’aveva fatto assolvere da una sacrosanta accusa di duplice omicidio (faida, codice Kanun, rideva U’ Gnauru fra i denti marci), l’albanese prese quel sorrisetto come un complimento alla sua tenacia e abilità di predatore.

- Due fratelli preso lui, vecchi pescatori. Ora andiamo, su, fra poco è alba, magari già partito.

Anfuso montò sospirando sul BMW. Nessun dubbio. L’albanese avrebbe portato a termine il lavoro. Ne andava del suo onore. A Jack Anfuso dell’onore di quel montanaro neanderthaliano in veste di killer di fiducia del boss non gliene fregava un accidente. E men che meno gliene fregava di un altro onore, quello di Ilenia Bovozzone non gliene fregava niente. Quando don Ciriaco gli aveva ordinato di liquidare il cantante, sorpreso con la lingua fra le generose gambe dell’adorata figlia unica del boss, aveva cercato di dissuaderlo in tutti i modi. Ma cercare di far ragionare quel torello infuriato era impresa impossibile anche per la sua sciolta parlantina. Quando quel grasso maiale ricoperto di catene e di  bracciali si metteva una cosa in testa… eppure, lo sapeva tutta la Puglia che per far aprire le gambette di Ilenia bastavano un giro di pista e una pista di coca… Gli unici a ignorare le apprezzate (dal genere maschile) qualità della ninfetta erano, a quanto pare, il tronfio paparino e il futuro genero, un emaciato bocconiano che don Ciriaco contava di accasarsi all’unico scopo di far girare l’inerte fortuna accumulata in un trentennio di furti, rapine, traffici e malversazioni.  Per dirla tutta, a Jack Anfuso non gliene fregava niente nemmeno del boss. Lo detestava. Lo avrebbe visto volentieri morto. Con il pretesto del debito di gratitudine verso il suo povero papà lo costringeva a un’infame esistenza di luogotenente senza gradi, gravandolo di sgradevoli missioni, lesinandogli la paga, sottoponendolo alla tortura della comunanza con i “ragazzi”, un branco di rozzi ignoranti animali palestrati buoni solo a menare le mani, affondare il coltello, sventolare la mitraglietta. Lui, Jack Anfuso, aveva studiato sino al diploma liceale coltivando il segreto sogno di un futuro nel mondo dello spettacolo. Lui era agile, belloccio, “cool”, aveva letto una volta in una rivista. Aveva una bella voce roca, modello Califano. Piaceva alle ragazze, e non solo alle paesane jattemorte tipo Ilenia, ma alle ragazze vere, quelle di buona famiglia… questione di eleganza, di stile, di modi, e che minchia!

All’altezza di Nardò l’albanese fece una spericolata inversione.

- Io pensa: secondo me, hanno preso strada di aeroporto. Tu che dici se  li aspettiamo là?

- Va bene, va bene-  bofonchiò Jack.

Aveva altro da pensare, lui. Doveva pur esserci il modo di mollare quel borgo di pezzenti e lanciarsi nella vita vera.

 

Alla fine, il cantante aveva insistito per essere accompagnato, almeno sino a Brindisi, dove contava di prendere il primo aereo per Qualunque Posto. Santiago aveva suggerito di scartare le vie complanari e ora il furgoncino arrancava sulla superstrada, favorito, il suo passo pesante, dall’ora morta che demarca il ritiro degli ultimi nottambuli dal primo turno dei camionisti. Tonio guidava concentrato e guardingo, accarezzando la pistola che s’era portato appresso più per ricordo che per precauzione. Continuava a pensare che fidarsi di quel cantante era stata una minchiata. Che non ne sarebbe venuto niente di buono. Per giunta, oltre alla strada doveva badare al testone del fratello, che a ogni sobbalzo gli si schiantava contro la spalla. Anche Santiago, nel suo sonno sorridente, accarezzava qualcosa: il sogno di un arto nuovo di zecca, una di quelle cose meccaniche che facevano l’uomo mezzo robot, come si vede nei film di Schwarzenegger. Cyber- Santiago, il primo pescatore bionico dell’universo… Dal suo canto, Nik Sapienza, relegato nel cassone, cercava di difendersi alla meno peggio dal moto e dalla puzza di pesce, contando i minuti che lo separavano dalla fuga e dalla salvezza, santiando Bovozzone e quella troietta della figlia, e giurando che appena tornato a Napoli avrebbe detto due parole a chi sapeva lui, e allora si sarebbe visto, cu ‘stu guappo ‘e niente… e intanto la strada si accumulava, e il tempo passava, e quel certo dondolìo, unito agli effetti della botta…

- L’aeroporto!- esclamò infine Santiago, svegliandosi, u figghiu di mamma giusta, proprio quando le torrette brindisine erano in vista.

- Sono loro, maronna mia!- esclamò, quasi nello stesso momento, il cantante, indicando la grossa berlina che si era staccata dall’uliveto al bordo di una rete di recinzione e puntava decisa contro il furgoncino.

- E mo ca facimu?- sbiancò Santiago.

- Niente- tagliò corto, serafico, Tonio, spegnendo il motore.

- Ma io m’ha sposo, a chella guagliona, v’o giuro ‘ngoppa a o’ sang’e San Gennaro!

- Non può sposare. Già promessa.

Li avevano messi in fila contro gli ulivi, come per una fucilazione. Il ragazzo alto, con la faccia che sembrava una carta da gioco, e quella specie di mostro balcanico che impugnava una mitraglietta in ogni mano. A Santiago era stato concesso di accendersi una sigaretta. Il cantante, caduto in ginocchio, stava implorando, a quanto pare inutilmente, pietà. Non li avevano perquisiti: non considerandoli, evidentemente, pericolosi. Tonio, apparentemente indifferente, stringeva il calcio del pistolino che, forse, non aveva del tutto sbagliato a portarsi dietro. Quanto a usarlo, poi…

- Beh, coraggio, fratello!- disse l’albanese, porgendo una mitraglietta al giovane alto.

Anfuso la prese per la canna, come se scottasse.

- E che ci devo fare?

- Tocca a te. Tuo compito, ha detto boss!

- Statemi a sentire: io a Napoli tengo amicizie importanti! Conosco a tutti i capoclan… come li chiamate qua? I boss? So’ tutti i meglio amici miei! Io canto alle feste delle figlie loro, e ai matrimoni e ai battesimi! Se voi mi ammazzate, e quelli lo vengono a sapere, vi fanno scendere piano piano nell’acido muriatico, nu’ piezzo a’ vota! Statemi a sentire…

Nik Sapienza piagnucolava, abbrancato alle ginocchia di Jack, che sembrava confuso, incerto sul da farsi.

- Ma io non ho mai…

- Mi scopo tua sorella! - rise U’ Gnauru- primo difficile, poi tutto facile… se vuoi, io prima sparo questi due vecchi…

Santiago si avvitò su se stesso, e cadde, svenuto. Tonio cercò di estrarre la pistola (se non ora, quando?) ma aveva le dita rattrappite, paralizzate da un incomprensibile torpore.

- Sentite, vi faccio ‘na proposta. Venite con me a Napoli. Tutti e due. Pure l’albanese. Vi presento ai boss. Tu, tu ca si’ ‘nu  bello guaglione… magari sai pure cantare, eh? Magari tieni ‘na bella voce… ci possiamo mettere insieme, ‘nu spettacolino e’ musica popolare, eh…

- Dai, si fa tardi!- incalzò U’ Gnauru.

Jack Anfuso sollevò la mitraglietta. Tonio chiuse gli occhi. Il cantante urlò “mamma, mamma!”. Echeggiò una rapida raffica. Seguì un tonfo. Tonio riaprì gli occhi. L’albanese era bocconi, la faccia schiacciata sullo sterrato. Dalla bocca gli usciva un rivolo di sangue. Aveva gli occhi pieni di un’amara sorpresa. Jack Anfuso stava aiutando l’incredulo cantante a risollevarsi.

- Io la tengo veramente una bella voce. E voi mi siete debitore della vita!

- E chi s’o scorda!

 Poi Anfuso agitò l’arma verso i due fratelli.

- Sciativine. Voi non esistete.

Più tardi, uscendo dalla banca, mentre Tonio divideva i trentamila euro, Santiago si grattò il moncherino.

- E mo ce facimu?

- Niente. Curu c’amu fattu sempre. Sci piscamu!- [5]

 

[1] Quello è un pazzo!

[2] Manda via quella ragazza, che ho bisogno di te!

[3] Ora tu prendi Il Nero e entro un’ora me lo trovi e finisci il lavoro, o, sangue di Santo Niente, stavolta ti mando all’altro mondo! (zumpare lu sicchiu, saltare il secchio, cioè morire).

[4] Tipico saluto malavitoso albanese, riservato ai membri di uno stesso clan.

[5] Niente. Quello che abbiamo sempre fatto. Andiamo a pescare!

 

Giancarlo De Cataldo

 

Il racconto, per gentile concessione dell'Autore, è stato qui pubblicato il 28 marzo 2004.
Nel 2012 è stato poi pubblicato nell'omonimo volume edito da
Ad est dell'equatore, insieme al racconto "Una terra promessa, un mondo diverso" (già pubblicato nell'antologia Omissis).

 


 
Last modified Sunday, February, 24, 2013