Esce l'8
giugno 2007 "Nelle mani
giuste" (Einaudi), il nuovo romanzo di
Giancarlo
De Cataldo.
Grazie all'Autore e all'Editore, ne pubblichiamo in anteprima il prologo.
Campagna casertana, estate 1982
L'uomo che dovevano eliminare si faceva chiamare Settecorone. Sicuro di sé fino alla spavalderia, si nascondeva in un casolare in pieno territorio dei Casalesi, dalla parte degli infedeli, protetto da una rete d'informatori che avrebbero dovuto garantirgli l'inviolabilità del nascondiglio. Per sua disgrazia, uno di costoro, un mariuolo di Acerra, era da tempo sul libro paga della Catena. Il Vecchio aveva girato la pratica a Stalin Rossetti. -Ma perché? È una storia loro! -Infatti. Il suo intervento si limiterà a una semplice copertura. Se nota qualcosa di strano, si esfiltri immediatamente.
Cosi, ora Stalin se ne stava a fumare appoggiato alla Land Rover nascosta nel folto di una macchia di pini stitici, a cento metri dalla via Domitiana e a vista del casolare. In un pomeriggio da spaghetti-western, in questa campagna da spaghetti-western di guappi, zoccole e povericristi che nessuna azione umana, nessun miracolo divino avrebbero mai potuto riscattare dalla loro irredimibile banalità da spaghetti-western. Il camorrista incaricato dell'esecuzione, Ciro 'o Russo, si era avviato da un paio di minuti. Era un tipo grasso e ansimante che mascherava un antico puzzo di cipolle sotto litri di acqua di colonia modello «chella che costa 'e cchiù». Stalin fumava e rifletteva. Affare di camorra, ma anche affare di Stato. E come sempre, alla fine il gioco sporco toccava a loro. Alla Catena. Questo Settecorone era uno dei sicari più affidabili di don Raffaele Cutolo. Doveva il nome alle corone che portava tatuate sulla spalla destra in ricordo dei nemici ammazzati: sette corone, sette scalpi. Ma non scalpi qualunque, ché di quelli non si curava più di tenere il conto. Scalpi, per cosi dire, qualificati. Da capozona in su, e una volta persino un sindaco che teneva la fissazione della «legalità». Un duro, uno che non molla, fedelissimo al capo che gli aveva dato istruzione, ruolo, prestigio. In altre parole, una speranza. Poco più di un anno prima, quando le Brigate rosse avevano rapito l'assessore Ciro Cirillo, e le alte sfere avevano deciso che avrebbero fatto per Cirillo quanto in precedenza avevano orgogliosamente rifiutato di fare per Aldo Moro, e cioè trattare con i sequestratori, Cutolo si era rivelato un prezioso alleato. Grazie alla sua mediazione, Stato e terroristi avevano raggiunto un soddisfacente accordo, e l'ostaggio era stato liberato dopo tre mesi di prigionia. I compagni combattenti avevano ottenuto un po' di quattrini da reinvestire nella lotta per la liberazione del popolo dall'oppressione capitalistica. A Cutolo erano state fornite ampie garanzie: mano libera contro i clan rivali e un occhio di riguardo sugli appalti per la ricostruzione delle terre devastate dal terremoto del novembre 1980. Anche qualcos'altro era stato garantito a Cutolo. Un intervento deciso sulla sua tragica situazione giudiziaria. Ora, non era ben chiaro quale attacco di follia avesse posseduto il capo della Nuova camorra organizzata nel momento in cui aveva dato il via libera all'operazione. Perché solo un folle poteva illudersi che lo Stato avrebbe veramente tirato fuori dalla galera un carcerato seppellito da secoli di condanne. Esistono limiti che nessuno, nemmeno il Vecchio, avrebbe mai osato varcare. Primo fra tutti, il limite della convenienza. Si era già fatto troppo per Cutolo, e questo Cutolo, che passava per capo saggio e prudente, avrebbe dovuto capirlo. Invece, smaltita l'euforia per la favorevole conclusione della trattativa, Cutolo non solo non si era dimostrato all'altezza della sua fama di uomo di mondo, ma aveva alzato il tiro. Il riconoscimento della seminfermità mentale non gli bastava. Evitare le carceri di massima sicurezza non gli bastava. Cutolo voleva la libertà. Cutolo pretendeva la libertà. Dalla sua cella partivano messaggi tanto espliciti quanto inquietanti. Cutolo minacciava rivelazioni e minacciava stragi. Il tutto era inaccettabile. Un po' alla volta, pertanto, con discrezione ma anche con decisione, si era consentito ai vecchi clan di rialzare la testa. Il predominio militare dei cutoliani era stato rimesso in discussione da una serrata e intelligente controffensiva. I suoi uomini venivano inesorabilmente decimati. E adesso toccava a Settecorone. Stalin accese un'altra sigaretta con la cicca. Ma quanto ci metteva, 'sto Ciro 'o Russo? Era già entrato? Secondo l'informatore, l'infame era solo, e per quanto abile potesse essere nel tiro, con il fattore sorpresa dalla loro, non avrebbe dovuto avere scampo. Filtrò l'eco di uno sparo. Bene, storia conclusa, si disse Stalin, preparandosi a risalire sulla Land Rover. Poi arrivò il secondo sparo. E il terzo. E il grido. Stalin armò la calibro 22 e si mise a correre zigzagando verso l'edificio. Un altro grido. La porta era socchiusa. Stalin entrò. Quello che vide non gli piacque affatto. L'interno era insospettabilmente lussuoso: due divani, un piccolo televisore, tappeti, un volgare acquerello con una marina e il Vesuvio sullo sfondo. Lo stato delle cose fu subito chiaro agli occhi di Stalin. L'infame era andato. Un buco al centro della fronte. Ma l'informatore era stato impreciso. C'erano una donna e un ragazzo. La donna stava morendo. Ancora giovane, un po' sfatta, si lamentava piano, scossa da un tremito rassegnato. Il ragazzo, semisvenuto, si massaggiava la testa. Poteva avere tredici-quattordici anni. Alto, magro, scuro. Ciro 'o Russo bestemmiava, tentando di sfilarsi dalla coscia sinistra la lama di un piccolo coltello. Sui calzoni color cachi si andava allargando una vasta macchia di sangue. - 'Stu bastardo! Accirile, Rosse', accirile e jamme! Stalin valutò con freddezza la situazione. 'O Russo era entrato e aveva fulminato Settecorone. La presenza della donna e del ragazzo l'aveva colto di sorpresa. Aveva sparato d'istinto alla donna. Il ragazzo gli era saltato addosso ferendolo alla coscia. 'O Russo se n'era liberato scaraventandolo contro il muro. Il ragazzo aveva avuto coraggio. - Accirile, cazzo, ho perso la pistola, accirile, chillu fetiente! Il ragazzo era riuscito finalmente a mettersi in piedi. Barcollava, faticando a inquadrare la scena. Ciro 'o Russo urlava e bestemmiava. Stalin raccattò il revolver del camorrista. La donna aveva smesso di lamentarsi. I suoi occhi spalancati fissavano il soffitto. Occhi verdi. Stalin si avvicinò al ragazzo e indicò la donna. - È tua madre? Il ragazzo fece segno di no con la testa. - Ma che cazzo stai aspettando? Spara, strunze, e jammuncenne! Stalin mise l'indice sotto la gola del ragazzo e lo costrinse a guardarlo. Aveva gli occhi azzurri. Occhi disperati. Stalin Rossetti detestava i martiri e gli eroi. Ma sapeva riconoscere a prima vista un combattente. Quel ragazzo era un combattente nato. Quel ragazzo meritava di vivere. Stalin gli porse il revolver di Ciro 'o Russo. Il camorrista urlò e fece per avventarsi. Il ragazzo sparò. Ciro 'o Russo si avvitò su se stesso, ma non cadde. Il ragazzo sparò ancora, e ancora. Quando il caricatore fu esaurito, Stalin gli sfilò delicatamente dalle mani l'arma arroventata. - Come ti chiami? - Pino. Pino Marino. - Vieni con me, Pino Marino. Il ragazzo chinò il capo. E scoppiò a piangere. |