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La concessione del telefono



Sul frontespizio della copertina Camilleri scrive: "Nell'estate del 1995 trovai, tra vecchie carte di casa, un decreto ministeriale (che riproduco nel romanzo) per la concessione di una linea telefonica privata. Il documento presupponeva una così fitta rete di più o meno deliranti adempimenti burocratico – amministrativi da farmi venir subito voglia di scriverci sopra una storia di fantasia (l'ho terminata nel marzo del 1997).La concessione risale al 1892, cioè a una quindicina di anni dopo i fatti che ho contato nel Birraio di Preston e perciò qualcuno potrebbe domandarmi perché mi ostino a pistiare e ripistiare sempre nello stesso mortaio, tirando in ballo, quasi in fotocopia, i soliti prefetti, i soliti questori, ecc.. Prevedendo l'osservazione, ho messo le mani avanti. La citazione ad apertura del libro è tratta da "I vecchi e i giovani" di Pirandello e mi pare dica tutto. Nei limiti del possibile, essendo questa storia esattamente datata, ho fedelmente citato ministri, alti funzionari dello stato e rivoluzionari col loro vero nome (e anche gli avvenimenti di cui furono protagonisti sono autentici). Tutti gli altri nomi e gli altri fatti sono invece inventati di sana pianta." Il messaggio del brano tratto da "I vecchi e i giovani" è di facile lettura: sia la Destra che la Sinistra parlamentare, quando sono state al governo hanno trattato la Sicilia come terra di conquista e i siciliani come barbari da incivilire; in Sicilia arrivarono tutti gli scarti della burocrazia, furti, assassini e grassazioni eseguite in nome del Real Governo. E' proprio questa la Sicilia che appare nel romanzo. Il periodo storico va precisamente dal 12 giugno 1891 al 20 agosto 1892, come risulta dalle date della prima e dell'ultima lettera. I luoghi geografici citati sono: Vigata, comune di Montelusa, Palermo, Fela; ovvero Porto Empedocle, comune di Agrigento, Palermo, Gela. Più difficile discernere nel romanzo quali siano i nomi e i fatti inventati di sana pianta e quali i limiti entro cui siano stati fedelmente citati gli alti funzionari dello Stato. Le conoscenze storiche del lettore possono arrivare ai nomi dei ministri di quell'epoca, Crispi, Di Rudinì, Giolitti. Altrettanto difficile è capire se sia autentico o meno il documento (pg175-176) del Ministero, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, rivolto ai Prefetti e questori dell'isola, che riassume la preoccupazione del governo sia per il pullulare nell'isola di società di ispirazione mazziniana, che si fanno promotrici di scioperi per ottenere aumenti salariali, sia per il possibile raggruppamento di tutte le società operaie siciliane in un'unica organizzazione destinata ad assumere la denominazione di "Fasci dei lavoratori siciliani". Quanto al "pistiare e ripistiare", termini insostituibili, sulla medesima realtà storica, posso dire che l'identità di epoca collega solo cronologicamente questo romanzo con "Il birraio di Preston", che presenta una sua originalissima storia e un'altrettanto personale struttura. Ben venga che si capisca che la mano è la stessa.

Il romanzo è articolato in tredici capitoli, sei intitolati "Cose scritte" intervallati a sei intitolati "Cose dette" e un tredicesimo di "Cose scritte e dette": questa costruzione crea una esatta corrispondenza tra i capitoli e sembra ubbidire a un disegno di ordine e di precisione, di fatto smentito dalla mancanza di una perfetta sequenza temporale nello svolgimento dei fatti, che sono affidati a corrispondenza privata e a dialoghi, altrettanto privati, tra due persone. Un elenco dei personaggi, stilato dall'autore ad introduzione del romanzo, rende possibile sin dalla prima pagina l'individuazione di destinatario e mittente per le lettere e dei due interlocutori per i capitoli dialogati. Sottotitolo del romanzo potrebbe essere: "Tutto in Sicilia è tiatro" Si tratta infatti di una specie di commedia degli equivoci e degli imbrogli, che trova la sua ambientazione ideale in un'isola, come la Sicilia, che è terra di contraddizioni e di "componenda" (vedi "La bolla di componenda", 1973), che da Camilleri stesso sappiamo significare "accordo, compromesso, transazione". L'equivoco, che ridicolmente fa da motore a tutta la storia è lo scambio tra due lettere dell'alfabeto, la M e la P. Il protagonista, Genuardi Filippo, per ottenere la concessione di una linea telefonica per uso privato, fa domanda formale al prefetto di Montelusa, denominandolo Vittorio Parascianno anziché Marascianno come in realtà il prefetto si chiama. Da qui nasce una storia complessa, in cui equivoci e imbrogli non si contano più e che coinvolge: il Genuardi, siciliano qualsiasi, e la sua famiglia; i vari apparati dello Stato, ovvero Prefettura, Questura, Pubblica Sicurezza e Benemerita Arma dei Reali Carabinieri; don Calogero Longhitano, il mafioso del paese; la Chiesa; quei compaesani, siciliani qualsiasi, che involontariamente capitano sulla strada di Pippo Genuardi

Il Genuardi, come scrive la delegazione di Pubblica Sicurezza di Vigata, "A lungo nullafacente, campando sulle spalle della madre vedova, da tre anni commercia in legnami" E' sposato con la figlia dell'uomo più facoltoso, ma anche onesto, del paese, che inutilmente si oppose a questo matrimonio dopo il quale il Genuardi occasionalmente ebbe relazioni adulterine, di cui la moglie è sempre stata all'oscuro. Da due anni ha messo la testa" a partito", mantenendo una condotta "senza pecche" e rallentando anche i rapporti con l'amico Sasà La Ferlita, "vera sentina di ogni deboscio". La sua vita familiare sembra scorrere senza problemi; Taninè è sinceramente innamorata del marito e il padre di lei, risposatosi con una donna coetanea della figlia, ha imparato a tollerare questo genero, che, se non fa granchè, non sembra combinare neppure guai. Ma qualcosa non quadra, perché al lettore viene fatta leggere una lettera anonima destinata a "Pippo amori mio adoratto"; è un indizio che Camilleri, autore di gialli, butta lì perché il lettore lo colga e lo colleghi ad altri piccoli indizi sparsi lungo il romanzo. Indizi di che cosa, il lettore accorto può capirlo; Salvo Montalbano lo capirebbe subito. Quanto all'amico Sasà, scappato a Palermo per aver contratto debiti di gioco, il Genuardi è pronto a tradirlo se gliene capita l'occasione o la necessità.

Il prefetto Marascianno, cui il Genuardi fa domanda della concessione del telefono, è una macchietta ben riuscita: napoletano, parla "smorfia alla mano": 12 - 72 - 49, che significano rispettivamente rivolta - incendi - omicidi ; oppure: 66 – 6 – 43, che equivale a congiura – segreto – socialista; o ancora: 56 – 50 – 43, e cioè guerra – nemico – socialista. Si inventa una moglie morta e una fuggita; paventa lo scoppiare sia di una guerra civile che di una guerra sociale e vede congiure dovunque attorno a sé; fino a credere che i socialisti stiano infettando le campagne siciliane con "maleodoranti unguenti" e diffondendo "germi di color rosso acceso", ciascuno dei quali dotato di "2402 zampine"; pur di arrestare un socialista arresterebbe una vecchietta di 93 anni perché zia di un socialista. Poiché in napoletano "Parascianno" significa "barbagianni" e nel gergo più triviale addirittura "membro virile di gigantesche proporzioni", il prefetto deduce di essere stato denominato a bella posta dal Genuardi "grandissima testa di c…". Camilleri sottolinea sempre le diversità tra regione e regione e le difficoltà di comunicazione cui tali diversità danno origine. Si tratta spesso di semplici incomprensioni linguistiche che possono diventare anche equivoci gravi e determinare il corso delle vicende (come in questo caso), ma offrono di solito lo spunto per costruire scenette spassose in cui i personaggi sono guardati dall'autore con ilarità. Nei romanzi di Camilleri c'è il piemontese, il romano, il napoletano, il bergamasco, il fiorentino, sempre figure di secondo piano, ma che servono a sottolineare le differenze di lingua, di abitudini, di tradizioni. Il Questore, bergamasco, parlando con il commendator Parrinello, siciliano, dice "…lei avrà capito che io sono uno che dorme con la serva" e si sente rispondere "No, non l'avevo capito. Ad ogni modo, fatti suoi, lei è padronissimo." perché il siciliano non può sapere che il modo di dire bergamasco significa semplicemente "Io sono uno che parla chiaro". Tornando al prefetto Marascianno, per impedirgli di dire o fare sciocchezze davanti all'Ispettore il suo diretto sottoposto lo fa scivolare e percorrere "rotolando, ben due rampe di scale"; per cui "in seguito a rovinosa caduta…..gli si sono spezzati molari, canini e incisivi" (il che equivale a tutti i denti eccetto premolari e denti del giudizio, che, si suppone, siano rimasti al loro posto); ha subito inoltre "frattura del braccio destro e rottura dei femori". Come non immaginarci un fantoccio fatto a pezzi?

La Benemerita Arma degli RR CC cui il Tenente Lanza-Turò appartiene è la polizia di stato e mostra "nella sua inspiegabile persecuzione contro un cittadino qualsiasi" caratteristiche comportamentali di stile mafioso. Il Tenente Lanza-Scocca, che "le sta studiando tutte per riabilitare il cugino" trasferito, agisce con pregiudizio e in modo tendenzioso segnalando al prefetto (il famoso Marascianno!) di sospettare ("più che il sospetto") che sia stato il Genuardi stesso a dare fuoco al suo quadriciclo a motore per incassare i soldi dell'assicurazione. O addirittura usa metodi illeciti, come lo scasso senza furto nei locali dell'Officio delle Regie Poste e Telegrafi, per conoscere l'indirizzo del Genuardi, che, impaurito dal comportamento di don Lollò, si nasconde a Palermo; per non parlare del vergognoso "tiatro" finale a bella posta messo in scena per portare gloria a sé stessi e alla Benemerita. Ma Prefetto e Reali Carabinieri non sono gli unici a rappresentare lo Stato in Sicilia; ci sono anche un Questore e un Delegato di pubblica sicurezza, che possiamo chiamare "la controparte". Essi, l'uno bergamasco e l'altro siciliano vedono e giudicano il Genuardi "uno che santo non è" ma non si interessa di politica (ha votato sempre secondo i consigli del suocero) e si interessa molto invece al suo quadriciclo, al quale "teneva assai più che alla propria vista" e al quale non avrebbe mai dato fuoco "non per scrupolo ma per l'incerto esito dell'intrapresa".

Don Lollò, ovvero don Calogero Longhitano, ci è presentato da Camilleri come Commendatore, uomo di rispetto. Così lo definisce anche il Delegato di pubblica sicurezza "in uno sfogo" con il Questore nel quale confessa di aver proposto "questa persona di rispetto per il confino di polizia", ma la richiesta era stata respinta dal Presidente del Tribunale di Montelusa; gli restituirono anche il porto d'armi che egli era riuscito a fargli togliere e "con tante scuse"; inoltre "coloro che lo proteggono l'hanno fatto insignire del titolo degli onesti e degli obbedienti alle leggi!". Don Lollò è insomma persona che con "sistemi non leciti e con affiliazioni mafiose è assurto a grande potere". Questi sistemi non leciti ubbidiscono comunque a una loro etica in quanto il rapporto tra uomo comune e uomo di rispetto (e viceversa) è regolato da norme precise: lo scambio è sempre reciproco e segreto; si parla del tutto casualmente di un favore fatto in segno di amicizia o per dovere di onestà, e, più avanti, nel discorso, altrettanto casualmente, se ne domanda il contraccambio. "Allora guardi: noi due non ci siamo mai visti, non ci siamo parlati. Nel suo interesse. A buon rendere" dice al Genuardi, che gli confida l'indirizzo di Sasà, il Commendatore, che cerca il La Ferlita per lavare un'offesa fatta da questi a suo fratello. Perché le offese vanno lavate e i debiti vanno pagati. In cambio Don Lollò attraverso "persona nostra" facilita al Genuardi le pratiche per la concessione del telefono; ma quando capisce che Pippo Genuardi fa il doppio gioco a proposito di Sasà e sospetta, erroneamente, che sia immanicato con i carabinieri, lo "avverte" bruciandogli il quadriciclo e in seguito esercitando pressioni su alcuni proprietari perché non gli concedano il permesso per la palificazione della linea telefonica che dovrebbe attraversare i loro terreni. Ma è disposto a riconoscere di aver sbagliato (come a proposito della collusione del Genuardi con i carabinieri) e anche a far credito. Dal processo per tentato omicidio il Genuardi deve "nesciri assolto", dice don Lollò, che vuole a tutti i costi restituire a Sasà l'ingiuria ricevuta, lasciandolo zoppo per la vita e facendo assolvere chi lo ha reso tale. E i mezzi non gli mancano. Perfino chi è rinchiuso all'Ucciardone "trasi e nesci"; come l'avvocato Orazio Rusotto, che "è sbiquo: qualcuno dice che si trova a Messina? Cento persone giurano che invece è a Napoli".

La Chiesa è indubbiamente considerata un potere. Il Delegato di Pubblica Sicurezza dice al Questore che "….se appresso al Genuardi, oltre ai Carabinieri, ci si è messa macari la Chiesa, io a quello lo vedo fottuto….". Il tutto nasce dalla confessione fatta da Taninè a Don Pirrotta, che trova in ciò che gli dice la donna una conferma al fatto che il Genuardi sia un pericoloso socialista. Egli infatti non solo non frequenta la chiesa ma propone alla moglie, invece di andare alla messa, di fare all'amore , anzi lo fa anche "ante retro stante, nell'altro vaso; e farlo nell'altro vaso è contro natura! E contro natura è macari il socialismo!". E poiché le voci al confessionale sono alterate e la vedova Rizzopina sente tutto, in paese circola la voce che "il Genuardi Filippo, ogni volta che assolve al debito coniugale, si tinge il membro di rosso per parere un diavolo e possiede la moglie contro natura gridando: viva il socialismo!".

Gli altri personaggi del romanzo, i proprietari dei terreni attraverso cui dovrebbe passare la linea telefonica, sono tutti soprattutto ridicole macchiette. Il Signor Giliberto, sembra voler difendere con affetto paterno l'onore della figlia Annetta e si definisce "omo di core", ma per qualche migliaio di lire venderebbe l'anima. I Signori Giacalone costruiscono una gustosissima scenetta in cui lui si finge inebetito per non dover firmare il permesso per la palificazione, ma alla fine proclama: "Non ce la faccio a stari sempri chiuso in casa e a fare finta d'essere addiventato stòlito solo per fari un piacìri a don Lollò Longhitano!": perché anche recitare stanca. Il Cavaliere Mancuso "su consiglio" di don Lollò nega al Genuardi il permesso per la palificazione, ma più tardi, sempre "su consiglio" di don Lollò deve concederglielo; afferma allora con alterigia di non voler essere "un pupo", ma fa rapidamente retromarcia con un "mi lasci almeno sfogare tanticchia", quando capisce che è meglio perdere la faccia che i favori dell'uomo di rispetto.

La fine del romanzo Tutti gli equivoci sembrano essersi chiariti: il Genuardi è stato assolto sia dall'accusa di essere socialista che dal tentato omicidio. Don Lollò ha lavato l'ingiuria. Ma anche Sasà è siciliano e anche lui ha ricevuto un'ingiuria, precisamente dall'amico Pippo, che lo ha tradito con don Lollò . Al Genuardi sono state rivolte due accuse nel corso del romanzo, entrambe rivelatisi infondate. Sasà si vendica raccontando una verità; se è falso che Pippo è socialista o che ha bruciato il quadriciclo è vero che lui e Lillina se l'intendono. Le tracce erano sparse per il romanzo: la lettera anonima, i viaggi a Fela. Questo rivela Sasà in una lettera, rigorosamente firmata, al suocero del Genuardi. E la verità muta la commedia in dramma, il classico dramma della gelosia, che si conclude con due morti. Ma la verità non è destinata a trionfare. E se è vero che la vita in Sicilia è "tiatro", a far "tiatro" è una volta ancora la Benemerita Arma dei RR CC, attraverso l'appuntato Licalzi, siciliano, che "spiega" al tenente come volgere le cose a loro vantaggio e dimostrare di aver sempre avuto ragione. Di nuovo infatti i "carrabbinera" riescono a far passare il Genuardi per un sovversivo, dichiarandolo morto per una bomba incidentalmente scoppiatagli mentre la confezionava. E' così che il Prefetto, persona psicologicamente ed intellettivamente incapace, è gratificato con una promozione finale; il Questore e il Delegato di pubblica sicurezza, persone competenti, ma evidentemente prive di forza, per così dire "contrattuale", finiscono in Sardegna (che chiaramente lo Stato considera a un livello più basso della Sicilia); i Reali carabinieri, vero organismo di polizia di stato e che hanno agito sempre secondo metodi mafiosi ricevono un Encomio Solenne e un graditissimo trasferimento nella capitale. Reali Carabinieri, Questore, Delegato, don Lollò sono i personaggi seri del romanzo; tutti gli altri personaggi, anche il Genuardi e lo stesso don Nené, uomo onesto ed equilibrato, sono descritti, almeno una volta in atteggiamenti comici. Anche il dramma finale è filtrato nei toni della commedia. Don Nenè è visto attraverso gli occhi della moglie Lillina, che, non sapendo la causa del comportamento del marito, lo descrive come "pazzo, i capiddri dritti, gli occhi sbaraccati". E l'unico personaggio che avrebbe potuto esprimere dolore e solo dolore, la moglie del Genuardi e figlia di don Nenè, e che è stata interprete nel romanzo sempre di episodi comici, nel finale non è nominata.

A cura di Odeia




Last modified Wednesday, July, 13, 2011