home page




Era robusta e leggera così trovai mio padre

Queste mie poche righe di prefazione non sono solamente dettate dal ricordo dei giorni che trascorsi con la mia famiglia a Serradifalco, da metà maggio alla fine del luglio 1943, ospite di una lontana parente proprietaria di una grande villa fuori paese. A Serradifalco, anche se fui costretto ad assentarmi per una diecina di giorni, facilmente mi feci amici della mia età, ogni mattina scendevo in paese (la villa distava circa un chilometro e mezzo) per comprare i giornali, se erano arrivati, e dopo andavo a trovare il figlio del proprietario (o gestore) del mulino per lunghe chiacchierate.
Dormire le lunghe notti serene, con la finestra aperta sulla campagna, dopo i quotidiani notturni bombardamenti degli angloamericani sul mio paese, Porto Empedocle, che ci tenevano svegli e tremanti e ci avevano costretto a sfollare, mi faceva uno strano effetto. Vale a dire che verso le due di notte, l'ora tipica delle incursioni aeree, mi svegliavo di soprassalto e solo dopo essere stato a lungo affacciato ad ascoltare il canto dei grilli potevo rimettermi a letto e abbandonarmi al sonno.

La guerra
La guerra arrivò a Serradifalco pochi giorni dopo lo sbarco alleato avvenuto nella notte tra il nove e il dieci luglio, quando la divisione tedesca "Herman Goering" si dispiegò a difesa lungo una linea che attraversava proprio Serradifalco.
I soldati tedeschi avevano letteralmente invaso i campi attorno alla nostra villa e si erano mimetizzati con le loro armi, i loro carri, i loro accampamenti, sotto il folto degli alberi. Da quelle parti la vita divenne impossibile, i tedeschi infatti ininterrottamente venivano fatti oggetto di mitragliamenti e spezzonamenti aerei. Gli abitanti delle case vicine corsero a rifugiarsi nella villa della nostra parente che era dotata di una vastissima cantina scavata nella roccia. Dentro questa sorta di Alcazar, quasi subito scarseggiarono i viveri. Uno dei presenti, il signor Inglese, uscì una volta per andare a recuperare quattro galline che teneva da qualche parte. Tornò a mani vuote e piuttosto spaventato: intercettato dai tedeschi, era stato derubato e minacciato. Allora io, mio zio Massimo e mio cugino Alfredo, che era venuto a trovarmi da Agrigento ed era rimasto intrappolato, ci dedicammo all'approvvigionamento. Ci recavamo nel campo tedesco più vicino e barattavamo vino contro le loro scatolette. Ogni volta immancabilmente incocciavamo in un mitragliamento.

La liberazione
Una mattina che era appena l'alba, udii un assordante silenzio. Uscii fuori dal cancello e vidi sfilare il primo gigantesco carro armato americano preceduto da una jeep con un generale che, poco dopo, seppi essere il mitico Patton. Due ore dopo scesi in paese e mi presentai al comando americano per avere il permesso di raggiungere Porto Empedocle dove era rimasto mio padre e del quale non avevamo più notizie da almeno quindici giorni. Un tenente mi rispose in siciliano (erano tutti composti da siculi-americani i reparti d'assalto) che non c'era bisogno di nessun permesso.

La bicicletta
Tornai dalla mia parente: "Ce l'hai una bicicletta?". "Ne ho due". Una la presi io e l'altra mio cugino Alfredo. Erano di una marca che non avevo mai sentito nominare, ma mi diedero a prima vista un'impressione di solidità, davano sicuro affidamento. Salutati i parenti, iniziammo il disagiato viaggio verso Porto Empedocle. Non c'era più asfalto, se l'erano portato via i cingoli dei carri armati e il suolo era letteralmente coperto da frammenti metallici. Pensai che avrei forato almeno un centinaio di volte prima di arrivare. Il viaggio si prospettò subito irto di difficoltà perché procedevamo in senso inverso a un flusso ininterrotto di camion, jeep e carri armati americani che spesso e volentieri ci buttavano fuori strada.
A metà del percorso Alfredo non se la sentì di proseguire con quel ritmo e decise di prendersela con calma. Io invece proseguii alla disperata. Ricordo che attraversai un tratto attorno al quale si era svolta una battaglia tra carri armati, gli alberi erano stati tutti troncati e bruciati, c'erano quattro nostri carri sventrati. Dalla torretta di uno di essi fuoriusciva a metà il corpo di un nostro soldato ucciso, le braccia penzoloni, la giacca che gli copriva la testa. Dalle tasche gli era caduto un mazzetto di lettere. Mi fermai, raccolsi le lettere, me le misi in tasca, ripromettendomi di spedirle alla famiglia appena avessi potuto.

La stanchezza
Arrivai ad Agrigento e la fortuna volle che la prima persona che incontrassi fosse un parente. Gli domandai ansiosamente notizie di mio padre. Mi disse che la sera prima avevano cenato assieme. Allora la stanchezza della lunga corsa in bicicletta mi crollò addosso di colpo. Per percorrere (in discesa!) i sei chilometri da Agrigento a Porto Empedocle ci impiegai quasi quanto ci avevo messo a fare la strada da Serradifalco ad Agrigento!
Non forai mai, la bicicletta non subì nessun guasto meccanico. Un miracolo che si ripetè quattro giorni dopo quando rifeci la stessa strada per andare a dire a mia madre che papà era vivo. Ma che splendida bicicletta! Era robustissima e leggera, elegante, funzionale. Qualche giorno dopo, quando mi incontrai con Alfredo, egli mi riferì che anche la sua bicicletta aveva eccellentemente fatto il suo dovere.

L'orgoglio
Sessantatrè anni dopo, apprendo con stupore, meraviglia e orgoglio che quelle biciclette erano state fabbricate proprio a Serradifalco dalla ditta fondata da Calogero Montante e che alle loro spalle c'era una storia di successi. Sia gloria dunque alle biciclette Montante che oggi non ci sono più! Qualche rigo sopra ho scritto la parola orgoglio. Orgoglio di un siciliano per un suo conterraneo che seppe dal nulla mettere su un'azienda che dava un affidamento tale che perfino l'Arma dei Carabinieri se ne volle servire per dotare i suoi reparti di biciclette.
E hanno fatto bene i discendenti di Calogero Montante a dedicargli questo esauriente e vario libro che onora il loro congiunto il quale, a sua volta, ha onorato, con il suo lavoro e le sue iniziative (per esempio passando dalla bicicletta alla motorizzazione su due ruote), la Sicilia tutta.

La faccia pulita della Sicilia
Oggi il gruppo Montante si dedica, dal 1956, a una vasta attività di "rigenerazione di ammortizzatori per autoveicoli" e dalla Sicilia si è portato con successo a gareggiare nelle aree europee. E allora mi sorge spontanea un'esortazione rivolta a questi poco conosciuti industriali siciliani. L'esortazione è che, vincendo la loro connaturata ritrosia, si facciano avanti a dire quello che hanno fatto e continuano a fare, sì da poter mostrare al mondo la faccia autentica di una Sicilia pulita, onesta, produttiva, che possa controbilanciare l'altra faccia oscura che i media, con nessuna conoscenza della realtà, godono a rappresentare.

Andrea Camilleri


La favola della bici di Camilleri

Com'è piccolo il mondo che ti intreccia le vite di un corridore ciclista diventato industriale e di un giovane di nome Andrea Camilleri diventato scrittore. E' una storia straordinaria che parte da lontano, da Caltanissetta, dove Calogero Montante, classe 1904, diventa corridore ciclista nel 1928, data di nascita del Giro d'Italia, nel 1934 forma una squadra di 25 corridori e l'anno appresso realizza la prima fabbrica di bici da corsa dell'Italia meridionale, la «Cicli Montante».
Allora le bici erano un lusso, nemmeno le famiglie più abbienti le compravano, preferivano prenderle in affitto. Racconta il nipote Antonello Montante, vicepresidente vicario di Confindustria siciliana: «Nel '43 a Serradifalco, nelle nostre case di famiglia, c'era un giovane di 17 anni che si chiamava Andrea Camilleri, sfollato in queste case assieme alla madre. Il giovanissimo Camilleri non sapeva che fine avesse fatto suo padre a Porto Empedocle. Allora mio nonno gli diede una bici con cui Camilleri partì alla ricerca del padre. Siccome avevano bombardato il Municipio di Serradifalco, Camilleri trovò dei libri, se li mise sulla bici e pedalò verso Porto Empedocle. Lungo il percorso vide di tutto, carri armati, file di sfollati in cerca di rifugio, gente che moriva, macerie dappertutto. Lui si meravigliava che quella bici non forasse mai, altrimenti non avrebbe saputo come ripararla. Fino a che non arrivò a Porto Empedocle e riabbracciò finalmente il padre. Poi si mise a divorare quei libri presi dal Municipio bombardato e forse da lì è nata la sua passione per la letteratura. Lo scrive anche nella prefazione di un libro sulle bici Montante e su mio nonno. Un fatto eccezionale anche questo perché Camilleri non ha mai scritto una prefazione [Affermazione quanto meno azzardata, quest’ultima… NdCFC]».
Ma nella vicenda della bici e di Camilleri giovane c'è dell'altro, c'è la storia di un'azienda modello che è stata premiata come la migliore di tutto il Mezzogiorno e al 25° posto in tutta Italia. Dice ancora Antonello Montante: «Quando arrivarono in Italia le moto, l'azienda si diversificò e divenne concessionaria delle più importanti marche di motociclette. Nel '53 nuova diversificazione, l'azienda si mette a produrre ammortizzatori per auto, autobus e per treni e diventa la prima azienda europea del settore. Abbiamo conservato uno stabilimento a Caltanissetta con 150 addetti. Non abbiamo mai avuto uno sciopero, mai fatto ricorso alla cassa integrazione, abbiamo un bilancio sociale approvato, un codice etico applicato, la palestra, l'asilo nido. Tutte queste cose hanno un punteggio e ci siamo classificati primi nel Meridione: e tutto parte da una bici e da mio nonno che faceva il corridore».
Incredibile, perché tutto questo avviene nel cuore della Sicilia delle ex zolfare, non a Lambrate. «La svolta avvenne nel '56 - ricorda Antonello Montante -. Due anni prima la Fiat aveva messo sul mercato la "600" e si apprestava a lanciare la "500". C'è una grossa emigrazione dalla Sicilia a Torino, che diventa l'unico polo automobilistico. Allora mio padre Luigi ha l'idea vincente: buttarsi nel mondo delle quattro ruote. Naturalmente non si tratta di costruire macchine, ma di trovare una nicchia di mercato. Fu così che si decise di iniziare una attività di rigenerazione di ammortizzatori per autoveicoli. E da allora l'azienda ha avuto una nuova espansione. Mio nonno è morto il 14 giugno del 2000, ma ha lasciato un'azienda sana che ha contribuito con inventiva e intelligenza allo sviluppo della sua terra».
La storia non è finita. Camilleri ha chiesto un regalo: di avere una bici come quella che ebbe quando aveva 17 anni. «Abbiamo rifatto tutti gli stampi di quell'epoca - dice Montante -, un lavoro enorme, i pezzi fatti a mano, i freni a bacchetta, le manopole e il sellino tutti Frau cuciti a mano, sono bici gioiello da collezione che non si possono comprare e che sono identici a quelle di 70 anni addietro. E siccome anche Fiorello ne vuole una uguale e un'altra la daremo al presidente della Repubblica, e un'altra ancora a Luca di Montezemolo, ne produciamo una cinquantina così faremo felici tutti quelli che possiamo». Da queste vicende umane ed esemplari della famiglia Montante è nato un libro, con una prefazione di Andrea Camilleri che riportiamo in questa stessa pagina.

Tony Zermo (La Sicilia, 27 dicembre 2006)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011