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Boatpeople

Manuale di sopravvivenza per chi compra una barca



Autore Carlo Romeo
Prezzo E 11,60
Pagine 160
Data di pubblicazione 2007
Editore Longanesi
Collana I libri del mare


La barca ha solo due momenti belli: quando la compri e quando la vendi. Almeno a quanto recita un vecchio luogo comune. Ribaltando questa e molte altre asserzioni relative al tragicomico e spesso autenticamente periglioso universo della compravendita di una barca, Carlo Romeo, guida il più o meno navigato lettore attraverso le tappe obbligate di un vagabondaggio per porti reali e virtuali, dalla ricerca della custodia per la patente nautica al più o meno indispensabile conseguimento della stessa, dalla sofferta scelta dell’oggetto del desiderio alla (più o meno drammatica) prova in mare.
Veleggiando in vista di leasing, ipoteche e normativa fiscale, spesso finendo dritti tra le secche della burocrazia, in fuga da broker nevrotici e sanguinari pirati, si rientra in porto con le reti colme di suggerimenti pratici, ma soprattutto divertiti dall’esilarante ritratto di umana fauna in cui è inevitabile imbattersi nel corso di quest’avventura.

Ci sono molte ragioni – «ragioni» in senso lato, trattandosi di barche – che possono portare una persona, dotata di un livello medio di intelligenza e di buon senso, a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di comprarsi una barca. La maggior parte di queste ragioni sono totalmente irragionevoli ma, alla fine, prevalgono spesso su tutto il resto, comprese le obiezioni di parenti e direttori di banca...


Presentazione di Andrea Camilleri
Libreria Melbookstore, Roma, 5 aprile 2007

Questo libro del quale non dirò il titolo perché, non sapendo l’inglese, non mi piace pronunziarlo con la stessa penosa finta disinvoltura di certi politici italiani che l’hanno imparato evidentemente per corrispondenza, e per di più seguendo un corso accelerato, questo libro di Carlo Romeo, dicevo, l’ho letto con divertimento e rabbia.
Comincio dalla rabbia così mi sfogo e non se ne parla più. Il sottotitolo recita: “Manuale di sopravvivenza per chi compra una barca”. E già la parola “barca” dà un piccolo scuotimento al mio sistema nervoso. Perché ai miei templi e dalle mie parti, una barca era una barca. Vale a dire quel natante di legno a forma di mezzo guscio dotato di un paio di remi e in grado di portarti al largo fino a dove ti reggevano le braccia e la schiena.
Invece la barca assai più grande con una vela sopra si chiamava paranza.
E a nessuno veniva in mente di chiamare barca una paranza. E men che mai ti saresti sognato di chiamare barca il motoscafo di proprietà della capitaneria di porto che serviva essenzialmente al comandante del suddetto porto per portarci a spasso la sua signora. In occasione delle uscite della signora, il motoscafo perdeva la sua austera aria militare e si trasformava in un piccolo boudoir con vezzosi e soffici cuscini, nappine, poggiapiedi e altri aggeggi di arredo. Pilota ufficiale e insostituibile ne era il maresciallo Gammacurta che per quel motoscafo si giocò la carriera. Un giorno, mentre il comandante, mio padre e io appena decenne passeggiavamo lungo il molo centrale, vedemmo il maresciallo che rientrava dopo aver portato a spasso sua moglie col motoscafo attrezzato come quando usciva con l’altra moglie, quella del comandante. Il quale, a quella vista, impallidì visibilmente come davanti a un sacrilegio, e quando il maresciallo, fatta sbarcare la moglie, restò solo, lo chiamò con un cenno imperioso. Il maresciallo accorse e gli s’impalò davanti sugli attenti.
“Comandi!”
“Perché avete messo i cuscini anche per vostra moglie?”
L’altro, sempre irrigidito nella posizione d’attenti, non batte ciglio.
“Perché il culo della mia signora non ha nulla da invidiare a quello della sua signora”.
Andò incontro a un mare, è il caso di dirlo, di guai. Vedo che sto divagando, mi capitava già da giovane, figuratevi ora. Accorcio. Oggi tutto ciò che sta a mare con delle persone a bordo e che non appartenga alla marina militare viene chiamato barca.
“Quella è la mia barca” - ti dice un tale mostrandoti un galeone tutto vele e cannoni come direbbe Brecht che per farlo muovere ci vuole un equipaggio di dieci uomini.
“Quella è la mia barca” - ti dice un altro tale e ti mostra un caicco o un gozzo o, massimo massimo, una pilotina.
Questo non è giusto e nemmeno leale. E inoltre tenete presente che da piccolo e fin alla prima giovinezza, essendo nato e cresciuto a dieci metri dal mare, il mio sogno era di diventare un giorno ammiraglio. Volevo andare all’Accademia di Livorno. Me l’impedì il progressivo calo della vista. E questa fu la prima frustrazione. Pensai di poter ottenere una rivincita quando mi chiamarono alle armi con un anno d’anticipo e mi mandarono in una base navale dieci giorni prima che in Sicilia sbarcassero gli americani. Appartenevo al Crem, Corpo reale equipaggi marittimi, e quindi m’illusi che finalmente mi sarei imbarcato. Macchè, venni assegnato ai servizi di terra. Quando, anni dopo, mi capitò di vedere il mio foglio matricolare, scoprii che c’era scritto letteralmente, lo giuro, “abbandonato all’esercito”.
Capite? Abbandonato, come un neonato rifiutato dalla madre e lasciato sui gradini di una chiesa o dentro la ruota di un convento.
E quindi non volete che non mi arrabbi a sapere che Carlo Romeo si è comprato una barca, qualche che essa sia, è andato per mare e ci ha anche scritto sopra un libro?
Prima ancora di essere un manuale di sopravvivenza, questo delizioso, ironico, intelligente libro è un manuale di navigazione, o meglio, una sorta di raccolta di “avvisi ai naviganti”.
Ai naviganti intendo di quelle acque insidiose composte da venditori di barche, da sfuggenti e misteriosi intermediari, da direttori di banche e da amici improvvisatisi consiglieri di lungo corso.
Più che la via dell’inferno, la strada per comprarsi una barca appare lastricata da finte buone intenzioni. Perché la meta agognata, la barca, per persone come Carlo, che della barca non vuole farne uno status symbol (come l’ho pronunziato?), la barca non è una barca.
Vediamo allora che cosa è.
Egli fornisce due buone motivazioni per giustificare il suo desiderio di comprare una barca. La prima è che noi italiani, apro virgolette, “il mare lo abbiamo per la maggioranza nel sangue”, chiuse virgolette. Perché ce l’abbiamo nel sangue? Forse perché il nostro paese è circondato per tre quarti dal mare e un quarto solo confina con le montagne e la differenza, lasciatemelo dire, tra quelli che hanno attorno il mare e gli altri che hanno attorno vette innevate e pascoli alpini, si vede, eccome se si vede? La seconda motivazione, sempre a dir di Romeo, è perché, apro virgolette, “viene voglia di prendere il largo”, chiuse virgolette. E a suo conforto, cita Baudelaire e cita Hikmet ponendoli tra loro in posizione dialettica. E qui, proprio perché cita due poeti, finisce per scoprire la terza motivazione, quella che non dice. Mi azzarderò a dirla io. Nella personale geografia dei poeti, c’è sempre un luogo più o meno segreto che è il luogo dell’anima.
Il Caucaso per il tedesco Holderlin o la casetta di Noto per l’arabo Ibn Hamdìs o, appunto, la barca per l’italiano Mario Luzi. La barca, per uomini come Romeo, è un mezzo per prendere il largo il più possibile dentro di sé, nel mare di sé, quindi è una sorta di motore immobile, un luogo dove si può realizzare il moto fermo del mutamento. Parlo per diretta esperienza. Non ho mai visto Carlo Romeo sulla sua barca, ma mi è capitato di osservare il rapporto di Gianmaria Volontè con la sua barca per capire quello che vi ho appena detto.
E quindi il libro non può essere altro che una sorta di gradus ad Parnassum per dirla alla Clementi. Ma a differenza degli esercizi che gradino dietro gradino insegnano all’aspirante pianista come arrivare al som de l’escalina, lì alla completa padronanza del pianoforte, qui del pieno possesso e del godimento della barca, Romeo, aggiunge un capitolo finale che forse rappresenta per qualsiasi proprietario di una barca, il momento più difficile. Il capitolo infatti si intitola: “Teorie e tecniche dell’abbandono”.
Dal primo capitolo, intitolato “Alle origini della follia”, che sarebbe quella dell’insorgere dell’idea di comprarsi una barca a quest’ultimo, c’è di mezzo, letteralmente, il mare.
Per il momento dell’abbandono, Romeo adopera frasi come “esperienza lacerante”, “psicodramma dalla potenza sconvolgente”, “momento molto, molto difficile”.
Ma davvero per tutti è così?
Romeo sostiene di sì e giura di aver visto uomini capaci di qualsiasi nefandezza piangere nel momento in cui vedevano la propria barca salpare, ormai divenuta proprietà di un altro. Mi permetta Romeo di non crederci. E’ l’unica pagina dalla quale dissento. Uomini capaci di qualsiasi nefandezza non piangono sul pontile a vedere la loro ex barca che si allontana: o sghignazzano perché ne hanno comprato un’altra tre volte più grande dopo aver truffato sul prezzo l’acquirente o se ne stanno immobili perché, avendo venduta la barca a sua insaputa al proprio miglior nemico e avendola debitamente imbottita di tritolo, ora aspetta il momento nel quale salterà in aria tutto. No, coloro che piangono sono quelli alla Romeo e piangono perché vedono allontanarsi un pezzo della loro anima, come ho tentato di dire all’inizio.
Il libro è inserito dalla casa editrice, la Longanesi, in una collana che si chiama “I Libri del mare” e ci sono firme di grandi navigatori solitari come la Autissier o Soldini o Stella ed è innegabile che Romeo, pur non essendo un navigatore di quella stazza, abbia comunque il pieno diritto di aggiungere la sua firma all’elenco. Perché pur sempre di un libro di mare si tratta. Ma il libro, a mio avviso, potrebbe degnamente trovar posto in una collana di pura e semplice letteratura senza paletti specificatori e restrittivi. E’ un libro raro nel panorama della nostra letteratura perché Romeo appartiene a quella ristrettissima categoria di autori nostrani che dello scrivere non hanno un concetto sacrale, che non temono di far opera blasfema muovendo al riso il lettore, che adoperano sapientemente l’arma dell’ironia per alleggerire, distanziare certe situazioni e, soprattutto, per difendersi da se stessi. Andatevi a leggere, a riprova, le pagine su Ulisse e cosa ha significato per lui e per noi il non avere la patente nautica, o l’intero capitolo che s’intitola “Altre patologie gravi”. Insomma, questo libro di mare, essendo stato scritto da un raffinato, autentico scrittore che però non vuole dare a vedere d’esserlo, può essere letto, credo con sommo profitto, anche da un alpino.



Last modified Wednesday, July, 13, 2011