Capitan Caci apparse a Vigàta un sabato dopopranzo del settembre
1935. I vigatesi, che avevano appena principiato le regolamentari tre orate
di passeggio, si fecero di subito persuasi che il forasteri era un autentico
lupo di mare. Cinquantino, faccia cotta dal sole e dal sale, barbetta alla
Cavour, pantaloni scampanati, camminata a rollio e beccheggio: tutto di
lui diceva, anzi gridava, lunga consuetudine con gli oceani. A togliere
di mezzo ogni residuo dubbio, una pipetta alla Braccio di Ferro eternamente
in bocca e un'ancora vistosamente tatuata sull'avambraccio mancino.
La sera stessa si seppe che avrebbe pigliato alloggio nella pensione
della vedova Pusateri e questo fu, come dire, il carrico di undici perché
la signora Erminia Pusateri, vedovo di un nostromo, affittava esclusivamente
a marinai previo esame nautico da lei severamente condotto.
La vedova niscì da casa, come faceva ogni sabato, accompagnata
dalla nipote Agata, alle otto spaccate per unirsi ai passeggianti. Di solito
riservata e compunta come si addice a una vedova sissantina sì,
ma ancora piacente, la signora Erminia quella sera contò all'urbi
e all'orbi come e qualmente il nuovo pigionante avesse brillantemente superato
l'esame, sfoderando una tale competenza che la signora non esitò
a definire "digna di Cristofiro Columbo". Fornì macari altre notizie:
che il Capitano non aveva più pirsone di famiglia e che voleva stabilirsi
a Vigàta accantandosi un pezzetto di terra indove ci potesse costruire
una casuzza. Aggiunse la signora che il Capitano aveva dichiarato che la
casuzza se la sarebbe costruita con le sue mani dopo averne presentato
il progetto, datosi che era macari giometra con tanto di diploma.
Ma si è mai visto un Capitano di lungo corso che è macari
capomastro e geometra? Più di un vigatese andò a corcarsi
ponendosi la domanda. Il giorno appresso Capitan Caci fece il suo ingresso
al Caffè Castiglione e venne assugliato di domande alle quali non
si sottrasse, sempre parlando in un suo personalissimo "taliano". Era nato
– comunicò – da genitori che "benestavasi" a Delia…
"Ma che mi viene a contare? A Delia non c'è il mare, paese agricolo
è" – l'interruppe uno dei presenti.
"Questo non fa significanza nisciuna – fece sdignoso e superiore il
Capitano -. "Di che è fatto il mare? D'acqua e sale. E di perciò
indovi che c'è acqua e che c'è sale viene a dire che c'è
macari mare".
Ammutolirono, ammirati per quella ferrea logica e lo lasciarono continuare.
Aveva studiato e si era diplomato geometra a Caltanissetta. Poi, per la
prima volta, a Gela, aveva visto il mare. "Mi accredano, signori: cadetti
a picorone come il pòstolo Paolo sulla strata di Tamasco e mi venne
la comprenzione che io, da quell'intifico momento, avrei navicato".
Aveva studiato all'istituto "natico" di Palermo, aveva pigliato il brevetto,
si era imbarcato.
"Ha fatto la Grande Guerra, Capitano?".
"Manco a dimandarlo. Volontario fui. M'imbarcai con l'ammiraglio che
di nome faceva Pizzo".
"Pizzo? Mai sentito?" – s'azzardò a interrompere un altro. "Io
mi ricordo dell'ammiraglio Rizzo, quello che…".
Il Capitano non si scompose.
"La stessa intifica pirsona era. Gli strànei lo chiamavano Rizzo,
noi, il suo quipaggio, invece lo chiamavamo Pizzo in quanto che era omo
pizzuto assai. Fu seco di lui che calumammo a fondo il papòre tidesco
chiamato Piribus Nitis"…
"Un momento" – fece quello che aveva parlato prima -. "Quello che lei
chiama papòre o vapore era la corazzata tedesca Viribus Unitis"…
"In primìsi, egregio, corazzata torpetidiniera o incrocciatore,
sempre di papòre si tratta. Sempri a galla stanno per via di vapore.
Il sommergibile invece è mezzo papòre e mezzo no, datosi
che spisso sta assotto d'acqua. In secundisi, se sbagliai il nome del papòre,
mi faccia pirdonanza. Io non parlo il tidesco".
Ci mise picca e nenti il Capitano a diventare di casa al Caffè
Castiglione, tempo una simanata aveva conquistato il diritto a un tavolo
personale con relative seggie. Era sempre pronto, a gentile richiesta,
a contare le sue strabilianti avventure di navicatore che attiravano l'attenzione
perfino degli accaniti giocatori di bigliardo della càmmara allato.
"Capitano, le è mai capitato di doppiare Capo Horn?".
"Doppiato? Triblicato, egregio, quatrupplicato! Fu a Capo Horn che mi
capitò la passata col negro Baobab".
Gli offrirono prontamente un bicchiere di Marsala e lui attaccò.
"Il fatto mi capitò il 12 novèmbiro del milli e novicento
e vinti e uno. Io ero secondo su un papòre sguìzzero che
trasportava un carico di lignami e di ralogi sguìzzeri. Proprio
a curto di quel mallitto Capo ci pigliò uno spavintoso sfortunale…Manoprammo
alla dispirata e stavamo per scappottarcela, quanno il timone si bloccò
per via dei morti".
"Quali morti, Capitano?".
"Ma che dimanna incenua! Quelli dei naufragi. Da quelle parti il mare
è più morti che acqua. E quanno che qualichiduno d'essiloro
morti s'impiduglia col timone, sei perso, non ti puoi cataminare. Inzomma,
a farla brevi, il papòre andò a spaccarsi le corna sulla
scoglieratura e tutto il quipaggio si trovò in acqua. Mare forza
dieci-dodici. Come fu e come non fu, mi venni a trovare indisopra a una
zattera con un negro nudo, un gigante, un colossale che si chiamava Baobab.
Io non l'avevo mai viduto".
"Non faceva parte dell'equipaggio?".
"No, lui era il relitto di un naufragio precedente. Nella zattera il
negro era arrinisciuto a approcurarsi viveri e acqua bastevoli per una
decina di jurnate. Dopo una cinquina di jurnate, il negro mi fece accapire
che i viveri stavano per finendo e che di perciò uno di noi si doveva
gettare in mare, almeno c'era più spiranzia che l'altro si salvava
incontrando un qualche papòre. Ma come stabilire chi di noi due
si doveva assacrificare? Datosi che mi trovavo casualimente in sacchetta
un mazzo di carte napolitane, ci approposi una partita a tressette e briscola.
Una sola. Accettò, giocammo, perdette, m'abbracciò, si gettò
in mare. Negro, sì, ma omo di parola!".
La commozione degli astanti venne disturbata dalla sgradevole voce,
tutta di testa, del ragioniere Filippazzo.
"Capitano, me la spiega una cosa?".
"All'ordinanza".
"Com'è che quella volta, a Capo Horn, lei vinse a tressette e
briscola mentre qua, da un mese che gioca contro di me, non arrinesce a
vincermi una partita che sia una partita?".
Alla domanda chiaramente provocatoria si fece un silenzio da tagliare
col coltello. Tutti taliarono il Capitano: e questi si susì dalla
seggia lento, sulenne.
"Ragioniere Filippazzo, che mi giocai col negro Baobab?".
"La vita" – rispose il ragioniere.
"E che cosa mi gioco qua con lei?".
"Un bicchiere di Marsala".
"Vuole fare paragoni? Provi ora stisso a farsi una partita con me. Ci
giochiamo la vita. E vediamo chi vince".
Scoppiò, irrefrenabile, un applauso. E nessuno osò mai
più mettere in dubbio i suoi racconti, manco quella volta che contò
i folli amori con una sirena di nome Giovanna in un'isola deserta dei mari
del Sud.
Intanto, accattatosi il terreno per la casuzza in un posto detto lo
"sdirrupo degli ziti" in quanto pare che in anni remoti una coppia d'innamorati,
ostacolati dalle rispettive famiglie, da lì si fossero catafottuti
a mare tenendosi per mano, il Capitano aveva principiato il basamento.
"Bih!" – aveva esclamato uno di passaggio taliandone le proporzioni
-. "E chi vi volete costruire, una torre di difesa?".
"Io flabbico case solite, solitissime, a prova di terremoto".
Quando cominciò a tirare su i muri, il capomastro Lauricella
che era andato per curiosità a dare un'occhiata gli fece una domanda
avendo visto che in quella costruzione c'era qualcosa che non quatrava.
"Capitano, ma lei lo sa come si adopera il filo a piombo?".
"Io non ce ne ho di bisogno. Io flabbico a occhio. E poi la cosa non
tiene importanza: un centilimetro più, un centilimetro meno, nella
flabbica non porta piniòne".
A costruzione ultimata, la casa pendeva a mancina. Una torre di Pisa
in miniatura. Ma era solida e proporzionata. Ed effettivamente non portò
piniòne, tanto che Capitan Caci, da lì a una mesata, si vide
commissionare un'altra casuzza da tale Cusumano, guardia in pensione. La
flabbicò, come diceva lui: stavolta pendeva a mano dritta. Nel giro
di una cinquina d'anni, dato che praticava prezzi bassissimi ("navicare
e flabbicare sono i piaceri della mia esistenzia"), costruì un intero
quartiere. Chi arrivava a Vigàta dalla parte di mare e taliava le
case di Capitan Caci, veniva pigliato da un leggero giramento di testa
che addebitava all'appena terminata navigazione: mai e poi mai avrebbe
potuto credere che case accussì storte potessero reggersi in piedi.
Poi capitò la disgraziata facenna che ebbe inizio quando Fofò
Camastra domandò al Capitano di flabbicare al camposanto una tomba
di famiglia. Parse una cosa fatta apposta: il giorno appresso che il Capitano
aveva finito la costruzione, il patre di Fofò Camastra, doppo una
lunga malattia, si astutò. Dopo il funerale con banda (Fofò
era pirsona di rispetto, omo di mezza parola), il fresco morto venne infilato
nel loculo. Passò una simanata e una sera, al Caffè Castiglione,
trasì Fofò Camastra alquanto nirbùso e si diresse
al tavolino di Capitan Caci.
"Vengo a significarle, egregio Capitano, che è la terza volta
che la bonarma di mio padre mi spunta in sogno".
"Viene a dire che ci è affezionato".
"Nossignore, non si tratta d'affezione. E' la terza volta che viene
a dirmi che non può pigliare sonno. Dice che nel loculo c'è
troppa pindenza, ci sta scommodo, non può arriposare".
"Domani a matino ci metto mano, signor Camastra".
"Lei non mette mano a niente. Farebbe di peggio. Lei mi restituisce
i soldi che le ho dato per la tomba e io do l'incarrico a un altro. Perché,
vede, lei non solo il mare l'ha visto in cartolina"…
Il Capitano si susì, giarno in faccia come un muorto.
"Ah, sì? Suo patre non arriposerebbe manco se la tomba gliela
flabbicasse Michelangelo in pirsona! E lo sa pirchì suo patre non
può pigliare sonno? Per il carrico che ha sulla coscienza di gente
fatta ammazzare, di gente fatta sparire""...
"Basta così" – fece Fofò Camastra arretrando di un passo
e tirando fora dalla sacchetta il revorbaro. Capitan Caci però fu
più lesto di lui. Scocciato un liccasapuni, gli spaccò il
cuore con una coltellata netta.
"Questo colpo me l'ha insegnato un cinese che di nome faceva Cin-Cin-Là"
– spiegò, fresco come un quarto di pollo, agli atterriti presenti.
I quali presenti testimoniarono tutti a suo favore: legittima difesa.
Ma qualche annuzzo di càrzaro se lo dovette fare lo stesso. Una
volta rimesso in libertà, tornò a Vigàta, vendette
la casa e scomparse com'era arrivato.
(Post scriptum. Non esiste più il quartiere flabbicato da Capitan
Caci. Trent'anni fa un'alluvione portò via mezza Vigàta,
le casuzze del Capitano rimasero addritta. Ma i tecnici venuti da Palermo,
a vederle tanto sbilenche, pensarono a uno smottamento sotterraneo e le
fecero abbattere).
Andrea Camilleri
La Stampa, 3 settembre 2000
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