Andrea Camilleri legge per la prima volta alcuni tra i racconti più emozionanti, più divertenti,
più belli del commissario Montalbano. Infatti, il cofanetto contiene due CD audio con la lettura
di sette racconti, sette avventure di un eroe, sette casi di un commissario, sette sinfonie di
una terra. Il libro (dal titolo Montalbano a viva voce) oltre ai testi contiene uno
scritto inedito in cui Andrea Camilleri si interroga sul carattere, le passioni, i tormenti e
il futuro del commissario più famoso d'Italia.
Il libro e i due CD audio contengono i seguenti racconti:
La sigla
L'uomo che andava appresso ai funerali
La prova generale
Gli arancini di Montalbano
Il compagno di viaggio
Guardie e ladri
Being here...
Alcune cose che so di Montalbano
Ho già raccontato più volte di come Manuel Vázquez Montalbán abbia a che fare con Montalbano
soltanto in maniera indiretta.
[...]
Un'altra cosa che ho sempre detto è come l'idea di scrivere un romanzo giallo sia nata in me
dalla nota affermazione di Sciascia secondo cui la «gabbia» del giallo è un esercizio salutare
e utilissimo per lo scrittore, perché lo «obbliga», lo costringe a giocare col lettore ad armi
pari. C'è infine un aspetto che riguarda soprattutto il mio modo di lavorare. Quando scrivo un
romanzo che non sia un giallo, l'inizio per me non coincide mai con il capitolo primo. Ciò che
scrivo per primo può diventare, in corso d'opera, il capitolo settimo o l'ottavo. Siccome si
tratta di romanzi storici, la cosa che comincio a scrivere per prima è la frase, l'aneddoto,
il nucleo del fatto che più mi ha colpito.
[...]
Nel giallo non è mai così, in tutti i gialli il capitolo primo è il capitolo primo e
l'ultimo è l'ultimo.
Allora, mi dissi quando cominciai, vediamo se sono capace. Mi sono dato
un compito. Il primo Montalbano, La forma dell'acqua, è nato così, è partito come
un'esercitazione, come una forma di autodisciplina di scrittura.
Ecco che cosa pensai: se
mi devo mettere dei paletti, dei paletti facili da spostare, eliminare, oltrepassare con un
salto, tanto vale che essi formino una gabbia. E quindi sono d'accordo con Sciascia, la
gabbia è la forma più onesta, quella nella quale non puoi barare con il lettore, quella
nella quale il lettore viene a conoscenza degli stessi dati che possiede l'investigatore.
La gabbia deve essere tale sotto l'aspetto logico e temporale, tutti i fatti devono risultare
connessi, non ci devono essere anelli mancanti. Ci deve essere trasparenza e onestà. Il giallo
è l'onestà. Al punto che, quando scrivo un Montalbano, io controllo anche il linguaggio, non
lo estremizzo mai, mi astengo dalle sperimentazioni linguistiche alle quali indulgo volentieri
nei romanzi storici; e questo lo faccio per non sovraccaricare il lettore di altre difficoltà
oltre quelle della trama.
Quando ho cominciato a scrivere il giallo è chiaro che non ero uno
sprovveduto. Cioè a dire, gialli prima di allora non ne avevo scritti, però come lettore avevo
un lungo elenco di benemerenze che risaliva alla mia infanzia. E avevo gusti molto precisi.
Per esempio, tra Wallace e Van Dine preferivo Van Dine. Per esempio, Sherlock Holmes non mi
piaceva, perché non mi piaceva il metodo scientifico, non mi piaceva quel giochetto, quel
meccanismo privo di vere motivazioni, senza una vera società attorno.
È noto, perché anche
questa è una dichiarazione che ho fatto in tutte le salse, che le mie preferenze andavano a
Simenon, non solo il Simenon di Maigret, perché anche quando vai a leggere altri romanzi
come Le signorine di Concarneau, 45 gradi all'ombra e Il testamento Donadieu
o piccoli
capolavori di centoventi pagine come I Pitard, l'indagine e l'atmosfera, insieme, le trovi
sempre. Ciò che mi affascina in Simenon è la tranquillità borghese, la calma dell'eroe borghese.
[...]
Spesso però penso che la mia personale visione del giallo e della sua scrittura sia
debitrice soprattutto della tecnica teatrale. La scrittura della drammaturgia mi ha aiutato
molto anche nei romanzi storici, ma per il lavoro sul giallo è stata determinante.
Prendiamo
un classico, prendiamo Filottete, e cerchiamo di rappresentarlo, cerchiamo di ambientarlo come
facevano i greci. Dunque: entrano due signori vestiti da guerrieri, uno vecchio e uno
giovanissimo. Tu spettatore non sai nulla, non chi sono, non dove si trovano, niente di niente.
Ma il più vecchio comincia a parlare e dice «questa è la terra di Lemno, un'isola deserta,
lontana dalle rotte delle navi, dove io, Ulisse, o giovane figlio di Achille, tanti anni fa
abbandonai, per ordine dei miei capi, Filottete...».
A questo punto tu spettatore sei stato
martellato da una quantità enorme di informazioni: che quella è la terra di Lemno, che è
un'isola, che è deserta, che è lontanissima dalle rotte delle navi, che il personaggio che
parla si chiama Ulisse - e si sta rivolgendo a Neottolemo, il figlio di Achille -, che ci
sarà un altro personaggio, abbandonato tanti anni prima, e che questo personaggio si chiama
Filottete... La spinta dinamica è data da questa raffica di informazioni, però all'interno
di queste ce ne sono anche altre, nascoste: che significa «abbandonai»? Perché
quell'«abbandonai»?
Ti verrà detto dopo: «per ordine dei miei capi», e Ulisse dunque sarà
una specie di militare, un militare che esegue ordini...
Ma il gioco delle informazioni
scoperte, che vengono date al lettore, e quello delle informazioni sotterranee, implicite
dentro un'informazione apparentemente chiara, è già il gioco della scrittura gialla.
Il poliziotto capisce che sotto un'informazione ce n'è un'altra, e anche il lettore
comune può arrivarci, perché la prima informazione lui pure la possiede. Se ci arriva
buon per lui, se non ci arriva pazienza, avrà la sorpresa finale, ma questa struttura
aiuta moltissimo nella scrittura del giallo. E devo dire che un maestro nell'organizzare
i dati in questo modo è Conrad, un grande nello spargere qua e là segnali che poi precipitano
tutti in un unico contenitore.
[...]
Augusto De Angelis l'aveva già dimostrato, con il suo commissario De Vincenzi, che
l'ambientazione italiana poteva essere plausibilissima per un giallo. Non parliamo di
Scerbanenco, che è stato un grande anticipatore della realtà. Quando noi leggevamo romanzi
crudelissimi come I milanesi ammazzano al sabato, pensavamo «va be', ha una fantasia volta al
male, poveraccio». Invece non era così, lui sapeva come sarebbero andate a finire le cose.
Prevedeva. Quando lessi la Milano di Scerbanenco, così viva, così al di fuori di ogni tipo di
convenzione e di luogo comune, mi sentii autorizzato anch'io a dare nomi italiani,
ambientazioni italiane ai miei personaggi, alle mie storie.
Questo adesso può apparire
scontato, ma per gli scrittori della mia generazione non lo era.
In realtà, Duca Lamberti,
l'eroe di Scerbanenco, o il commissario De Vincenzi sono ancora per molti aspetti dei
personaggi non normali, eccezionali: Duca Lamberti è un medico radiato dall'ordine dei medici,
il commissario De Vincenzi ha le visioni...
Questi erano i soli aspetti che non mi
convincevano. A me è sempre piaciuto l'individuo normale, assolutamente privo di tratti di
eccezionalità, un individuo in grado di connettere i fatti tra loro e di ragionarci sopra.
Questo era il mio ideale. E quest'ideale aveva un nome: Simenon.
[...]
Andrea Camilleri
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