È un breviario laico. Un breviario che se
l'Italia non fosse quella che è, se il ministero dell'istruzione non fosse
nelle mani in cui è, se la lotta alla mafia fosse autenticamente valore
condiviso dall'intera classe politica, se gli ideali di onestà e integrità
morale fossero il sale della nostra democrazia, dovrebbe essere non solo diffuso
nelle scuole, ma recensito dai giornali e segnalato dalle televisioni.
[...]
Apre il breviario laico, una prefazione tutta giocata sul filo dei ricordi di
Andrea Camilleri, che con l'anziano magistrato si scrisse, parlò a telefono,
scambiò letture comuni, pur non avendo entrambi l'occasione di incontrarsi mai.
E fu un peccato. Scrive Camilleri: "Temevo di deluderlo. Quel poco che ho
scritto sulla mafia è una faccenda, in fondo, letteraria. Lui la mafia l'aveva
invece vissuta e combattuta sul campo di battaglia, attraverso le indagini, i
processi, le condanne. Le atroci perdite. Esponendosi e pagando di
persona..."
[...]
Saverio Lodato, l'Unità,
13.12.2003
Che la vita del giudice Caponnetto dovesse
intrecciarsi (appena in tempo) con quella del Mucchio Selvaggio, giornale rock,
è uno di quegli stravaganti, misteriosi prodigi che nessuno sceneggiatore
potrebbe mai inventarsi. Ma è successo, e l'ultima intervista del giudice,
rilasciata proprio al Mucchio il 23 dicembre 2001, un anno quasi esatto prima
della sua morte, è finita, sorta di testamento spirituale, nel libro
"Antonino Caponnetto, eroe contromano in difesa della legalità",
definizione che chi scrive aveva coniato per l'appello con cui veniva
sollecitata a Ciampi una firma una volta tanto sacrosanta: quella per fare di
Caponnetto un senatore a vita.
[...]
Gli obiettivi proposti da Caponnetto sono tremendi ma, proprio per questo,
inevitabili: la lotta a tutte le mafie (altro che conviverci, altro che
"fare le lotte dall'interno"), all'indifferenza che è il preludio del
sopruso, all'ingiustizia, agli squilibri del mondo. La profonda convinzione che
nessun sacrificio è inutile, se serve a gettare il seme di un esempio, ad
accendere una fiaccola da passare. E la cosa stupefacente è che i ragazzi
assorbivano, capivano. Io lo vidi il vecchio giudice una mattina del '96 entrare
in un teatro dove gli studenti neppure lo notavano intenti com'erano a menarsi,
insultarsi, ridere, tirarsi addosso cartacce, patatine, penne, parole. E il
vecchio giudice sereno, quasi serafico prendeva posto e attaccava a parlare e
arrivato in fondo aveva domato quel branco di bestiole, nel teatro non si
sentiva volare la classica mosca.
E' quello che succede anche col libro: puoi attaccarlo distratto, facendo altro,
con sotto la musica ma sta sicuro che alla fine il giudice ti avrà
inesorabilmente catturato, così come aveva catturato Andrea Camilleri: che
Caponnetto non l'aveva mai conosciuto di persona, senza che questo gli abbia
impedito di scrivere una emozionante presentazione.
[...]
Massimo Del Papa, Il Mucchio
Selvaggio, n° 566, 17-23.2.2004
Presentazione
di
Andrea Camilleri
Non
l'ho mai conosciuto di persona. Mi accorgo d'avere scritto una frase che non
corrisponde alla verità, sarebbe più giusto dire che non ci siamo incontrati.
Perché il Giudice Caponnetto posso dire d'averlo conosciuto attraverso quello
che andava facendo nell'Ufficio Istruzione di Palermo e che i giornali solo
parzialmente riferivano. Quando finalmente potei vedere in televisione com'era,
due cose mi colpirono molto: la sua apparente fragilità fisica alla quale
doveva corrispondere certamente una grandissima forza morale e il suo accento
fiorentino. Avevo sempre pensato, per via di quel cognome così meridionale, che
dovesse parlare tradendo una certa cadenza siciliana.
Mi restò l'impressione di un signore di altri tempi per i modi e le
espressioni, ma sapevo ch'era solo un'impressione perché invece Caponnetto era
attentissimo alla truce realtà dei nostri giorni. Voleva combatterla e sapeva
pure come. Ebbi anche la certezza - e non l'impressione - che fosse un uomo
giusto. Una specie in via d'estinzione che non solo non è protetta, ma di cui,
ai giorni nostri, la caccia è libera e sempre aperta. Poi ci furono le stragi
che levarono di mezzo Falcone e Borsellino e c'è un'immagine di lui che non
riesco più a togliermi dagli occhi, mentre sale in macchina e pronunzia qualche
stentata parola d'estremo sconforto. Il suo volto, le sue parole, in quel
momento mi fecero molta paura. Una paura quasi fisica che mi spinse
immediatamente a spegnere il televisore. Se uno come Caponnetto arrivava a
toccare quel fondo di scoramento assoluto, pensai, allora tutto era veramente
perduto. Ma già dalla celebrazione del funerale di Borsellino capii che quella
sua forza interiore si era non solo ricompattata, ma aveva preso un nuovo
slancio. E infatti continuò a combattere sino alla fine, non più nelle aule
giudiziarie, ma nelle aule scolastiche, o dovunque fosse possibile, per spiegare
cosa era la mafia, quale tremendo danno arrecava al tessuto vitale non solo
della Sicilia, ma dell'intero nostro Paese. Un giorno, tornando a casa, trovai
nella segreteria telefonica un messaggio che testualmente diceva:"Sono un
magistrato in pensione. Mi chiamo Caponnetto. Vorrei parlarle". Seguiva un
numero telefonico di Firenze. Quella sua inconfondibile voce! Confesso che non
lo richiamai subito. Il rispetto che provavo per quel "magistrato in
pensione" mi avrebbe fatto balbettare. Ero troppo emozionato, dovetti
calmarmi. Poi composi il numero. Desiderava che io partecipassi a un certo
incontro sul problema mafia. Accettai subito, grato. Mi disse in quell'occasione
che per disturbi alla vista, i miei libri era costretto a farseli leggere.
Ma, proprio quando stavo per partire per Firenze, un imprevisto mi costrinse a
Roma. A quel mancato incontro ci ho pensato a lungo, dopo. E sono arrivato alla
conclusione che forse quell'imprevisto, con un poco di buona volontà, si
sarebbe potuto superare. Ma questa buona volontà mi mancò. Come mai? Se avevo,
come avevo, tanto desiderio d'incontrarlo, perché mi ero arreso così
facilmente davanti a un ostacolo superabile? E proprio mentre mi ponevo la
domanda, ne ebbi la risposta: mi ritenevo assolutamente inadeguato. Temevo di
deluderlo. Quel poco che ho scritto sulla mafia è una faccenda, in fondo,
letteraria. Lui la mafia l'aveva invece vissuta e combattuta sul campo di
battaglia, attraverso le indagini, i processi, le condanne. Le atroci perdite.
Esponendosi e pagando di persona. Io invece me ne ero stato comodamente seduto
al mio scrittoio. No, la parola spettava a lui e ai suoi collaboratori. Appena
uscita la mia "Biografia del figlio cambiato", che tratta dei rapporti
di Luigi Pirandello col padre, gliela inviai. Mi arrivò, dopo qualche giorno,
una sua lettera. Diceva, tra l'altro, che il mio libro l'aveva collocato in uno
scaffale accanto a un libro di Pirandello, a lui molto caro perché gli era
stato regalato dai suoi genitori. "Domine, non sum dignus" riuscii a
dire ripiegando la lettera.
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