Colonne spezzate
Quando,
quella domenica sira d´aprile del 1960, la televisione comunicò le quote
spettanti ai tredici, Angelo seppe che aviva vinciuto al totocalcio dieci
milioni e settecentotrentuno mila lire. La cifra non avrebbe potuto cangiare
la vita di una pirsona, ma ad Angelo facivano comodo: con quei soldi adesso
era in condizione di fare la cosa che desiderava di più. Da due anni aviva
organizzato, come regista, una piccola compagnia teatrale con attori
professionisti che travagliavano prevalentemente al doppiaggio e alla radio e
perciò avivano tempo bastevole per provare e recitare in teatro. Un attore
non si sente compiutamente attore se non ha un pubblico davanti. Il vero
problema era rappresentato dai costi degli affitti dei teatri e in quel
periodo che le cantine romane erano di gran moda ogni serata li costava a
momenti quanto il Quirino o l´Eliseo.
Ad Angelo era vinuta l´idea di farsi un teatro proprio, bastava trovare un
locale abbastanza grande e attrezzarlo con un minimo di spesa. Qualche lira da
parte ce l´aviva: le seggie le avrebbe affittate, il palcoscenico sarebbe
stato fatto da tubi Innocenti col ligno di supra. E pacienza se avrebbe avuto
tanticchia di rimbombo. Proprio un misi avanti, passando nei paraggi di via
Giulia, aviva visto un gran portone aperto allato a una chiesa. E di subito si
era fermato a taliare. Dal portone si vidiva una sala molto lunga e
bastevolmente larga. Il soffitto era altissimo. Dientra c´erano due file di
box di ligno compensato; ogni box era, così calcolò ad occhio, due metri per
tre, era alto poco più di due e non aviva copertura superiore. Non c´erano
manco porte. A che potivano servire? Dato che a vista non c´era nessuno, si
decise a trasire spinto dalla curiosità. Dintra a ogni box c´era una
brandina di ferro, senza matarazzo né linzola. In fondo ora vide contro le
pareti i pali e i grandi fogli di compensato di alcuni box smontati. «Desidera?»
- disse una voce fimminina alle sue spalle. Si voltò. Davanti a lui c´era
una cinquantina con una specie di parannanza e guanti da cucina alle mani. «Mi
scusi se mi sono permesso... Ma passando ho visto qua dentro e m´è venuta
curiosità di capire»... «C´era un albergo di carità» - spiegò la
fimmina. Un albergo dei poveri, come quello di Gor´kij che lui aviva tante
volte sognato di mettere in scena! «E perché lo smantellano?». «La Banca
del commercio lo rivuole indietro». «Posso guardare in giro?». «Per me...».
Sulla parete sinistra, mezza coperta dai box, contò tre portoncini che davano
sulla strada. Avrebbero potuto essere utilizzate come uscite di sicurezza.
Sulla parete di fondo si aprivano due porte interne. La prima dava in un
locale piastrellato con quattro bagni singoli e otto lavabi. La seconda
immetteva in un ampio locale che doveva essere stato la direzione e l´ufficio
amministrativo. Ottimo per farci i camerini. Uscito dall´ex albergo dei
poveri si precipitò alla sede centrale della Banca del Commercio. Lo
mandarono da Ponzio a Pilato, non c´era un funzionario, un impiegato che
sapiva la facenna dell´albergo dei poveri. Finalmente approdò da un tale di
nome Antonucci. «Guardi, io so che la Banca sta riavendo indietro quel
locale. Ma della pratica si occupa il dottor Mengaldo». «Posso parlargli?»
«Il dottore è in malattia. Dovrebbe rientrare tra una ventina di giorni»:
«Sa quant´era l´affitto mensile». «Lo so, ma non glielo dico. Era molto
basso. Lei capisce, lo scopo di chi l´aveva affittato era altamente
caritatevole. E noi ci siamo adeguati». E si vede che a un certo momento l´adeguamento
alla carità era stato ritenuto troppo in perdita. Una banca è una banca, non
un istituto d´opere di bene. Il lunedì a matino, dopo una nottata passata ad
arramazzarsi nel letto, Angelo si precipitò prima dal suo avvocato
consegnandogli la schedina per la pratica di riscossione e quindi alla Banca
del Commercio. Il dottor Mengaldo aviva ripigliato servizio. Dovitti aspittare
una mezzorata e finalmente arrinscì a essere ricevuto. Spiegò al dottor
Mengaldo chi era e cosa voliva fare dell´ex ospizio. «Un teatro?! Ma,
carissimo, guardi che quella è una sala, come dire, protetta dalla
Soprintendenza. Non potete né bucare il pavimento né le pareti». Angelo gli
illustrò il suo progetto che non prevedeva pirtusa di nessun genere. Mengaldo
parse convincersi. «L´affitto sarebbe centocinquantamila al mese». Ad
Angelo sembrò alto e glielo disse: «Tenga presente - fece Mengaldo - che
nell´affitto è compreso anche il locale sotterraneo. Vi si accede dal vicolo
del Mortaretto numero 1. C´è un negozio di un restauratore di mobili
antichi. Ci vada a mio nome». «Ma tra i due locali non c´è una
comunicazione diretta?». «C´era molti anni fa. Attraverso una scala che dal
sotterraneo sbucava in una specie di botola nel locale oggi adibito a
direzione. Poi, non so perché, hanno cementato la botola. Se vuole la chiave
per andarci a dare un´occhiata me l´hanno consegnata l´altro ieri».
La cercò in un cassetto, la porse ad Angelo. «Grazie. Gliela riporto domani.
Così riparliamo di tutto». Non ebbe manco gana di mangiare un panino, la
giornata era uno splendore, decise d´andare a piedi fino a via Giulia. Raprì
il portone, emozionato. Non ci fu bisogno d´addrumare la luce lettrica, da
quattro grandi e alte finestre lame di sole illuminavano l´ambiente ormai
completamente sgombro. Senza più i box, il salone gli parse grande il doppio
della prima volta, l´eco dei suoi passi stranamente faciva l´effetto d´ampliare
lo spazio. Nella cammara che una volta era stata la direzione e l´amministrazione
non c´erano rimasti mobili, ma il linoleum del pavimento, qua e là
sollevato, era cummigliato da pezzi di carta. Agguantò con le due mani un
angolo del linoleum staccato e lo tirò con forza. No, la botola di pietra non
era stata cementata, era ancora lì, visibilissima, solo che era impossibile
sollevarla senza uno strumento adatto. Tornò nel salone, s´assittò per
terra appoggiando le spalle al muro e principiò a fantasticare, immaginandosi
come sarebbe addivintata la sala una volta trasformata in teatro e tanto si
calò nell´immaginazione che perse il senso del tempo. A un certo momento
pensò che era venuto l´ora di visitare l´altro locale sotterraneo e taliò
l´orologio. Possibile? Era stato tre ore immerso nella sua fantasticheria! Si
susì, niscì fora, chiuse a chiave, girò a mano dritta su vicolo del
Mortaretto. Ai lati della porta mezzo scardinata del numero c´erano in bella
vista un étagere e un settimanile tirati a lucido. Trasì e un vecchio, che
stava a lucidare un tavolino, isò gli occhi e gli spiò cosa desiderava.
Angelo gli rispose che lo mandava Mengaldo della Banca del Commercio e che
voleva visitare il locale sotterraneo. Il vecchio si mise a murmuriare tra di
sé, poi disse ad Angelo d´aiutarlo. Da una delle pareti si partiva una scala
in muratura, quasi a strapiombo, in fondo alla quale c´era una porta
polverosa. La scala era completamente ostruita da sedie rotte, testiere di
letto, comodini. Dovette aiutare il vecchio ad aprire un varco, sporcandosi il
vestito buono indossato per fare colpo su Mengaldo. Il vecchio, alla fine, gli
consegnò una chiave arrugginita. «Ce l´ha la pila?» spiò. «No ma c´è
la luce elettrica?». «Sehhh!!» fece il vecchio. Si allontanò e tornò dopo
tanticchia con una torcia che diede a Angelo. Il quale, dopo averla addrumata
per provare se funzionava, dovette faticare per raprire la porta.
Finalmente
ci arrinscì. Lo scuro era tanto fitto che dovette mettere subito in funzione
la pila. La porta dava su una specie di pianerottolo dal quale principiava un´altra
scala in muratura di una ventina di gradini. Angelo li fece e si trovò all´interno
del sotterraneo. Ebbe l´impressione che fosse immenso. Sulla parete di fronte
a lui, a un quindici metri d´altezza, si scorgevano luminosità regolari che
si perdevano via via verso il fondo. Capì che si trattava di feritoie
orizzontali a livello strada. A occhio e croce calcolò che l´ambiente era
largo un otto metri. Ma quant´era lungo? Si mosse, tenendosi al centro del
sotterraneo, su una polvere certamente millenaria. Aveva fatto una decina di
passi quando la luce della torcia illuminò sulla sinistra i resti di una
colonna romana spezzata. A destra ne vide un´altra. Alzò il braccio per
aumentare la portata del fascio di luce: le colonne si susseguivano fino a
perdersi dove la luce non arrivava, spezzate ma perfettamente allineate. I
resti di quello che era stato un tempio romano. Continuò a camminare, tra
scantato e curioso. A un certo momento intravide una scala strettissima, come
sospesa in aria, sulla cui sommità c´era una specie di grosso manichino. Si
trattava certamente della scala che portava alla botola nella cammara dell´ex
direzione. Ma lui che ci faciva là dintra? - si spiò a un tratto. Per
rimettere a posto quel sotterraneo e farne un qualsiasi locale, un altro
teatro, un ristorante, a parte l´inevitabile guerra con la Sovrintendenza,
sarebbero stati necessari centinaia di milioni. E dove li trovava? Fu mentre
stava per tornare indietro che scorse in lontananza una piccola costruzione.
Non seppe resistere. Via via che procedeva, le colonne ai lati apparivano meno
danneggiate. Finalmente arrivò alla costruzione: era un tempietto ben
conservato, al centro del quale c´era una conghiglia gigante traboccante d´acqua
chiarissima. Una volta doveva essere stata una fontana, ora l´acqua sgorgava
goccia a goccia e dalla conchiglia si perdeva in qualche canale invisibile. A
un tratto qualcuno parlò, vicinissimo. Una voce d´uomo dolente: Quis nunc te
adibit? Arrispunnì una risata fimminina. Cui labella morbedis? - spiò la
voce sempre più disperata. La risata fimminina si fece tinta, maligna. La
torcia cadì dalla mano di Angelo, impietrito dallo scanto, e fortunatamente
non s´astutò. Da dove venivano quelle voci di amanti in lite? Da quale
abisso temporale risalivano fino a lì? Angelo aviva la cammisa impiccicata
alla pelle per la sudata improvvisa provocata dallo scanto, ma non poteva
cataminarsi, le gambe s´arrefutavano ai suoi ordini. Sapeva che quelle voci
non era state una allucinazione e che la magia del posto avrebbe potuto
evocare altre cose più terribili, gli... gli. .. Obscura reperta? - gli venne
spiato dallo scuro. Erano capaci macari di leggergli dentro! Si calò,
raccolse la torcia, principiò a rifare di corsa il percorso che l´aveva
portato fino alla soglia dell´insostenibile. Ma, all´altezza della scala che
portava alla botola, vide, con la cosa dell´occhio, che il manichino stava
facendo un movimento come per susirisi addritta. Allora urlando si ritrovò
nel negozio, gettò la torcia, scappò fuori. E seppe che non avrebbe mai
preso in affitto l´ex dormitorio manco se Mengaldo glielo dava gratis.
Andrea Camilleri
(da “La Repubblica”, ed. di Roma, 26 settembre
2004) |