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Con gli occhi degli altri

Arrivai a Roma dalla Sicilia nel 1949 perché avevo vinto il concorso per allievo-regista all´Accademia d´arte drammatica che allora aveva la sua sede in un villino di piazza della Croce Rossa, mentre il suo teatrino, quello dove ci si esercitava in palcoscenico, si trovava in via Vittoria. In qualità di futuro regista, ero l´unico allievo di maestri come Orazio Costa e Virgilio Marchi, ma dovevo studiare anche recitazione con i compagni attori e le maestre erano Wanda Capodaglio e Jone Morino, cognata di Alberto Savinio del quale avevo letto e riletto tutto quello che aveva pubblicato fino ad allora. Savinio, assai spesso, veniva a prendere la signora Jone alla fine della lezione mattutina e io lo guardavo di nascosto mentre se ne stava seduto fuori dalla scalinata a leggere il giornale con in testa l´immancabile basco.
A farlo entrare dentro la villetta per agevolargli l´attesa, ci provarono in tanti, da Silvio d´Amico, il presidente, al vecchio usciere, ma egli, chissà perché, rifiutò sempre cortesemente. Un giorno la signora Jone mi disse di andare ad avvertire il cognato che avrebbe un po´ ritardato e io di colpo mi sentii diventare le gambe di ricotta al pensiero che avrei dovuto rivolgere la parola ad Alberto Savinio. Mi avvicinai a lui, che mi volgeva le spalle, cautamente e col cuore che mi batteva forte. Non leggeva, in quel momento, stava con la testa alzata e guardava intensamente il cielo. Anch´io lo guardai pensando di vedere un volo di rondini o a una nuvola dalla forma strana.
Invece non c´era niente, assolutamente niente. Il cielo era terso, brillava come appena tirato a lucido. Si presentò un problema: come rivolgermi a lui? Decisi di chiamarlo maestro. Scesi un gradino, gli fui allato, ma non distolse gli occhi dal cielo. M´immaginai che fosse profondamente assorto in un suo pensiero e che non m´avesse nemmeno sentito arrivare.
«Ma... ma... ma» - balbettai «Jone ritarda?» - mi domandò prima che io avessi avuto il tempo di finire la prima parola.
«Sì» - dissi e scappai via.
Dunque aveva notato la mia presenza, non era perso dietro a un suo pensiero, stava semplicemente guardando il cielo.
Ma che c´era in quel cielo che lui vedeva e io no? Prima di rientrare, alzai la testa. E mi accorsi con stupore che nel cielo c´era qualcosa di nuovo, per dirla con Pascoli. O meglio: di primo acchito, non c´era niente di sostanzialmente nuovo. Ma era come se al cielo avessero dato, in pochi secondi, una nuova mano di colore. L´azzurro era più intenso, a tratti virava al blu. Era questo mutamento che stava osservando Savinio? E dire che fino a quel momento il cielo di Roma m´era parso assai simile a quello della mia Sicilia. E invece no, non lo era, dalle mia parti quando il cielo piglia un colore così resta a lungo, non svaria più o meno percettibilmente in tempi rapidi. Gli occhi di Savinio m´avevano messo sull´avviso.
Poi ci fu un altro incontro.
Silvio d´Amico, fin dal 1936, data spero esatta della fondazione dell´Accademia, aveva voluto che gli allievi e le allieve indossassero una tuta appositamente disegnata da tenere addosso durante tutte le lezioni. La tuta si componeva di due pezzi, un giubbotto uguale per gli allievi e le allieve, un paio di pantaloni per i ragazzi e una gonna per le ragazze. Il colore era bisex: marrone scuro.
Sul taschino del giubbotto c´era ricamato il logo dell´Accademia formato dalle iniziali, A A D, intrecciate.
I miei compagni e le mie compagne detestavano quella tuta, andavano sì nei rispettivi spogliatoi ma non tutti ne uscivano con le tute. Le pativano come un´umiliazione, una perdita di personalità. Ma d´Amico era inflessibile, il suo grido: «Mettere le tute!» echeggiava a lungo nei corridoi prima che gli allievi entrassero in classe. A me, invece, quella tuta piaceva. Al punto tale che presi a indossarla anche fuori dall´Accademia. Dall´economato me n´ero fatta assegnare un´altra per fare il cambio e me ne andavo a spasso per le vie di Roma in tuta. A parte il fatto che, essendo comunista, mi pareva d´essere onorato di poter indossare una tuta come un operaio, c´era una ragione, come dire, più culturale a farmela portare. Mi ero appassionato al grande regista Meyerchol´d e alla sua biomeccanica: guardando le foto dei suoi attori mentre provavano si vedeva chiaramente che erano tutti in tuta. A quei tempi il luogo d´incontro dell´intellighenzia di sinistra era il bar Luxor (oggi Canova) in piazza del Popolo. Lì dormivano i vocioni del pittore Francesco ("Ciccio") Trombadori, che per venire al bar dal suo studio che si trovava a pochi passi prendeva sempre una carrozza, e di suo figlio Antonello. Ogni tanto ci passava Guttuso, Turcato ci stava in pianta stabile. Oltre ai pittori e ai critici d´arte, c´erano registi, sceneggiatori, poeti, narratori. Io allora, che avevo pubblicato racconti e poesie (alcune persino in un´antologia curata nientemeno che da Ungaretti e altre sulla rivista "Mercurio" che era diretta dalla De Cespedes), ritenevo di appartenere più a quel mondo che non a quello del teatro e perciò lo frequentavo. Ma ero troppo timido per farmi avanti e attaccare discorso con qualcuno. Una sera, mentre bevevo un cappuccino al bancone, un signore che vedevo sempre silenzioso, la guancia appoggiata alla mano, anche se sedeva a un tavolo con altre persone, si alzò e mi venne accanto. Non mi salutò, non si presentò, mi rivolse la parola con forte accento romanesco.
«Me spieghi che è ´sta tuta?» «E´ la tuta dell´Accademia».
«De quale Accademia?» «Quella d´arte drammatica».
«E che fate»?
«Studiamo teatro».
Mi guardò perplesso. Poi disse:
«Piglia er cappuccino e annamose a sede. Spiegame mejo».
Scelse un tavolo libero, ci sedemmo.
«Me chiamo Mafai» - disse.
Il cappuccino mi andò di traverso.
«Il pi... pi»... - cominciai a balbettare come avevo fatto con Savinio.
«Sì, so er pittore. Me conosci?» Altro che conoscerlo! Le sue «Demolizioni», a forza di guardarle in tutte le riproduzioni che mi capitavano sottomano le sapevo addirittura a memoria, particolare per particolare! Cominciò così una strana amicizia, essenzialmente seral- notturna. Di giorno, ci vedemmo in tutto non più di tre volte. Siccome il mio maestro di regia Orazio Costa aveva eletto il teatrino di via Vittoria a «Piccolo Teatro della Città di Roma» con una compagnia di ex allievi (tra i quali Rossella Falk, Tino Buazzelli, Nino Manfredi, Bice Valori, Antonio Crast, Elena Da Venezia, Paolo Panelli: vi sembra poco?) e mi aveva chiamato come secondo aiuto-regista, le mie visite al Luxor di necessità divennero notturne, alla fine delle prove. Una sera capitai, che era quasi l´ora di chiusura, nel bel mezzo di un alterco di natura artistica che opponeva un gruppo capeggiato da Trombadori a un altro che aveva come leader non ricordo più chi. Volavano parole grosse, insulti da coltello. A queste discussioni violente ci avevo ormai fatto l´abitudine, ma i primi tempi mi atterrivano, dalle mia parti sarebbe bastato assai meno per passare a vie di fatto invece a Roma finivano all´improvviso, così come erano cominciate e senza lasciare dietro di loro scie rancorose. A un certo punto, annoiatissimo, Mafai mi disse: «Se n´annamo?» Uscimmo. E quella fu la prima di una lunga serie di passeggiate notturne, senza una meta precisa. Potevano durare tre o quattro ore. Si andava a finire al Gianicolo o in certe viuzze di Trastevere illuminate appena dalla luna o dalla debole luce di un lampione. Imparai a guardare i colori della notte romana attraverso gli occhi di Mafai.
Invece, durante una passeggiata al tramonto, guardando una serie di tetti illuminati dalla luce radente del sole, mi fece una specie di regalo tecnico, mi disse che quella era una luce ingannevole e cangiante (non era cangiante anche il cielo di Savinio?) e che quindi se avessi usato un certo colore (che mi specificò e che purtroppo ho dimenticato) invece che un altro, non sarei mai riuscito a cavarne fuori i piedi. Consiglio a vuoto, perché per mia sfortuna, non ho mai saputo usare i pennelli.
Poi, forse perché il Luxor rimase a lungo chiuso per lavori, ci perdemmo di vista. Sapevo dove abitava, una volta mi ci aveva portato, ma non mi andava di andarlo a disturbare. Quando ci rivedemmo, dopo più di sei mesi dall´ultima volta, capimmo che l´incantesimo tra noi due si era rotto. Molti e molti anni dopo, che ormai ero diventato regista, mi trovai con una troupe cinematografica su una sponda del Tevere, dovevo riprendere la scena di un suicidio all´alba. Nel frattempo, avevo avuto modo di vedere decine e decine di film a colori ambientati a Roma e ogni volta ero rimasto deluso dalla technicolor rutilante, senza sfumature, trionfalistico e stentoreo. Mi riproposi dunque di approfittare dell´occasione e di mettermi alla prova. La scena sarebbe dovuta durare pochi secondi. Con molta generosità mi era stato concesso di girarla più volte. Ma al sesto ciack la troupe, dal direttore della fotografia all´ultima delle comparse, cominciò a inquietarsi, per loro era già stata «buona» la seconda. Poi mi fu impossibile continuare, la luce era così cangiata che non la si poteva più spacciare per un´alba. Insomma: non ce la feci per niente a restituire a me stesso quella luce di Roma che avevo guardato con gli occhi di Mafai. Ma quando potei finalmente vedere il materiale girato, ebbi una singolare sorpresa. Il terzo e il quinto ciack, Mafai o non Mafai, mi soddisfacevano appieno: certo, tra i due c´era una certa diversità di colore ma a me personalmente piacevano. Ebbi da superare solo l´imbarazzo della scelta.
Ma perché allora ero rimasto così insoddisfatto mentre giravo? La risposta me la diedi qualche tempo dopo.
Perché Roma, e questo cominciai a scoprirlo proprio in quell´occasione, non ha una tavolozza di colori uguale per tutti, ma ne ha tante per quanti sono gli abitanti di sempre e i turisti di un giorno. E non solo: questi colori svariano anche a seconda dell´umore di chi si trova a osservarli. Ognuno infatti riceve da Roma una sorta di regalo personale e solo in minima parte condivisibile, consistente appunto nei colori le cui sfumature egli solo può vedere e gustare. Per convincervene, provate a cavare fuori un comune denominatore sui colori di Roma dalle pagine, che so, di Stendhal o di Gogol e ben presto, se scartate le affermazioni generiche e andate nei dettagli, vi renderete conto che l´impresa è impossibile.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su La Repubblica, ed. di Roma, 30 dicembre 2007)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011