Con Sciascia
L’inizio del mio rapporto d’amicizia con Leonardo Sciascia si caratterizza per due occasioni mancate.
Ho usato la parola amicizia ed è bene che, prima di tutto, chiarisca di che grado lo fummo. Sciascia aveva una ristretta cerchia d’amici di vecchia data (alcuni racalmutesi e poi Guttuso, Consolo, il fotografo Scianna, Enzo ed Elvira Sellerio) che lo chiamavano Nanà, diminutivo di Leonardo; poi ne aveva una seconda, alquanto più larga, che lo chiamava Leonardo o Leonà, e con lui non aveva rapporti di vera confidenza anche se di solida amicizia. Io ho fatto parte di questa seconda cerchia.
Gli scrissi per la prima volta, non conoscendolo di persona, nel 1963, dopo che aveva dato alle stampe “Il giorno della civetta”. Ma avevo già letto avidamente “Le Parrocchie di Regalpetra” e “Gli Zii di Sicilia”. Allora, come funzionario Rai, lavoravo all’ufficio “Ricerche e sperimentazioni”, diretto da Angelo Guglielmi. In quei giorni un nostro programma sperimentale, Candid Camera, era stato accettato dalla direzione generale e quindi, con Guglielmi, forti del successo, decidemmo di tentare uno sceneggiato a puntate, genere che allora aveva molto successo, basato non su un romanzo celebre, come usava, ma su un soggetto originale che avesse a che fare con la nostra realtà. Un giorno parlai a Guglielmi del delitto Notarbartolo, che aveva avuto larghissima eco in tutta Italia nei primissimi anni del secolo scorso. Notarbartolo, presidente del Banco di Sicilia, era stato assassinato in treno a pugnalate da due mafiosi che pare avessero agito su mandato di un deputato nazionale, l’onorevole Palizzolo. Nello shaker italo-siciliano si cominciava dunque ad agitare quel micidiale cocktail di mafia-banche-affari-politica che continua ad essere agitato anche ai giorni presenti. Inutile perciò dirvi che l’onorevole venne assolto dall’accusa contro ogni ragionevole evidenza e portato letteralmente in trionfo al suo ritorno in Sicilia.
“Vedi se Sciascia è interessato” - mi disse Guglielmi.
E io quindi ebbi il primo contatto epistolare con lui su carta intestata Rai. Mi rispose, dopo una quindicina di giorni, dicendomi che la proposta l’affascinava, ma che, avendo consultato qualche scritto d’epoca, aveva capito che, per farne una cosa seria, occorreva impegnarsi a lungo, troppo a lungo. E che perciò non se la sentiva. Gli scrissi nuovamente,
proponendogli di assoldare una persona di sua fiducia per le ricerche
d’archivio e un’altra per aiutarlo nella stesura del soggetto, ma non riuscii a smuoverlo. Prima occasione mancata.
Nello stesso anno il direttore del Teatro Stabile di Catania mi domandò se volevo curare la regia del “Giorno della civetta”. Accettai con entusiamo, battendomi il petto e dicendo “Domine, non sum dignus”. Alla riduzione teatrale stava lavorando Giancarlo Sbragia, che non era solo un attore, ma anche uno sceneggiatore e un fine intenditore di letteratura.
Un giorno Sbragia m’invitò nella sua casa romana e qui incontrai, per la prima volta, Leonardo. Sbragia ci lesse quello che fino ad allora aveva
scritto e alla fine ci chiese il nostro parere. A me sembrò che avesse fatto un ottimo lavoro, ma la prima parola spettava all’autore. Il quale, impenetrabile come un Budda, per tutta la lettura non aveva fatto altro che fumare una sigaretta dopo l’altra. Sbragia e io ci voltammo verso di lui in attesa del responso e Sciascia, avvolto in una nuvola di fumo, mormorò qualcosa che non capimmo assolutamente. Allora Sciascia era solito spiccicare a stento qualche parola intramezzata da lunghe pause o da mugolii o da bofonchiamenti. In seguito, si sciolse abbastanza. Quando se ne andò, Sbragia mi chiese preoccupato:
“Ma gli è piaciuta o no?”
“Sì, me l’ha detto”.
“Ma se non si capiva niente!”
“Me l’ha detto con gli occhi”.
E quante volte in seguito con Leonardo ci siamo parlati con gli occhi!
Pochi mesi dopo andai a Palermo per mettere in scena “La favola del figlio cambiato” di Pirandello e almeno due volte alla settimana m’incontravo con lui in un albergo per parlare del copione che intanto Sbragia ci aveva consegnato. E, naturalmente, parlavamo anche di Pirandello e del lavoro che stavo dirigendo.
Appena andato in scena con “La Favola” io sarei dovuto correre a Catania per iniziare le prove della commedia di Sciascia-Sbragia. Senonchè un cumulo di circostanze avverse fece sì che io dovetti ritardare di una quindicina di giorni l'andata in scena a Palermo. Con mio autentico dolore, dovetti rassegnarmi alla proposta degli amici di Catania di affidare ad altri
la regia, il loro calendario non consentiva deroghe.
E questa fu la seconda occasione mancata. Occasione mancata anche per me, per la mia carriera di regista.
L’anno dopo, sempre allo Stabile di Catania, misi in scena “L’Uomo e la sua morte” di Giuseppe Berto, l’autore del “Male oscuro”, incentrata sull’ultima notte del bandito Giuliano. Alla prima m’informarono che in sala era presente Sciascia. Alla fine c’incontrammo quasi per caso all’uscita del teatro. Mi tirò in disparte:
“Bello spettacolo”.
“Grazie”.
“Ma vedo che hai preferito un autore continentale a me”.
E se ne andò. Se l’era legato al dito che io non avessi fatto la regia della sua commedia. L’accenno all’autore continentale si riferiva a un episodio accaduto nel corso di uno degli incontri palermitani.
Spesso venivano a trovarlo giovani autori siciliani che gli avevano portato a leggere le loro opere. Me li presentava e quindi, sia pure attraverso il suo avaro parlare, finiva sempre col trovare qualcosa di buono in ogni lavoro che, si vedeva, aveva letto scrupolosamente. Direi che a volte addirittura si sforzava di trovarvi qualcosa di buono. Non si sforzava per niente invece con gli autori nati al di là dello Stretto, con loro era anzi severissimo, li esaminava senza alcuna indulgenza. Un giorno glielo feci notare.
“Tu usi due pesi e due misure”.
“Sì” - ammise con un tono di sfida.
“E perché?”
“Perché davanti agli autori siciliani mi sento diventare mafioso. Di loro vorrei essere fratello, amico, complice e protettore. Come diciamo noi? Addifenniti ‘u tò a tortu o a ragiuni. E io questo faccio”.
Dunque, difendeva il suo. Considerava “suoi” gli scrittori della nostra terra. Una lezione che ho imparato. E me ne diede prova personale quando pubblicai “Un Filo di fumo”. Stavamo festeggiando l’uscita del romanzo con l’editore Garzanti e quattro, proprio quattro di numero, veri amici.
Eravamo nella camera d’albergo di Garzanti quando bussarono alla porta e apparve Leonardo.
“Non potevo mancare” - disse abbracciandomi.
A proposito di “Un Filo di fumo”. Mentre lo scrivevo, non riuscivo a trovare una qualsiasi documentazione sull’Isola Ferdinandea, l’isola affiorata al largo di Sciacca e risommersa dopo poco tempo. E’, tra parentesi, l’isola sulla quale Pirandello ambienta “La Nuova colonia”.
Chiesi soccorso a Leonardo che a Roma vedevo spesso. All’istante, non solo mi disse in quale libreria antiquaria andare, ma mi indicò dentro quale scaffale e su quale ripiano avrei trovato un esile libretto dovuto al primo geografo che visitò l’isola.
Sceneggiai per la televisione un suo racconto tratto da “Il mare colore del vino”, che s’intitolava “Western di cose nostre”. Era di tre pagine e mezza a stampa e io ne trassi tre puntate di un’ora ciascuna. Gli telefonavo spesso per chiarimenti e consigli. Mi rispondeva immancabilmente con una famosa frase verghiana, “quello che è scritto è scritto” e non aggiungeva altro. Vidi andare in onda le puntate con un vero e proprio batticuore. Mi
chiedevo cosa ne avrebbe detto Sciascia. Un giornale ci intervistò a tutti e due a distanza. Il giornalista mi domandò:
“Come ha fatto a ricavare tre ore di spettacolo da tre pagine?”
“Quelle tre pagine” - dissi - “sono come un dado Liebig che può fare un brodo per quattro persone”.
E Sciascia, di rimando:
“Sì, ma anche col dado Liebig ci vuole abilità a fare un buon brodo. E Camilleri ci è riuscito”.
Una settimana dopo m’invitò a pranzo a casa sua, a Palermo. Un pranzo siciliano naturalmente, assolutamente squisito. Mi complimentai con sua
moglie, la signora Maria. Ma appena Leonardo si alzò per andare a prendere qualcosa, la signora mi disse a bassa voce:
“Non sono stata io a cucinare, ma lui. S’è alzato alle sei di stamattina per preparare questo pranzo. Però non vuole che si sappia in giro che sa cucinare”.
Diressi anche quattro puntate di una trasmissione radiofonica destinata agli italiani all’estero e a lui dedicate. Si chiamava “Uno scrittore e la sua terra”. Due giornalisti, uno francese e uno inglese, gli rivolgevano domande in diretta su uno schema preparato da me e lui rispondeva. Chissà se esistono ancora queste registrazioni, sarebbe interessante
trascriverle.
Facevamo passeggiate per le strade di Roma, parlavamo di Pirandello, di Stendhal, di qualche comune lettura giovanile come “L’aquila e il serpente” di Guzman, dei nostri due paesi, del teatro di Racalmuto chiuso da anni dove aveva esordito da regista. Quel teatro, dopo quarant’anni, è stato riaperto ed io ne ho accettato la presidenza solo in ricordo dell’affetto col quale me ne parlava.
A proposito di Pirandello:
“Voi registi non fate altro che leggere e mettere in scena il suo teatro. E trascurate quella miniera che sono le novelle al cui confronto il teatro diventa una cosa che sa di artificiale”.
Ne tenni conto, in seguito, facendo uno spettacolo tratto da dodici novelle pirandelliane.
A proposito di Stendhal:
“Quanto gli sarebbe piaciuta quest’Italia dei giorni nostri così malata di
corruzione, di trame oscure, di delitti!”
E discutevamo, naturalmente, di politica. Erano i giorni della rottura avvenuta col fraterno amico Renato Guttuso e il suo anticomunismo aveva subito un’impennata tale che io ero costretto a reagire duramente a certe sue dichiarazioni almeno avventate.
“Tu difendi Renato perché appartieni alla stessa parrocchia!”
Per poco non passavamo alle male parole. Ma l’amicizia, qualunque cosa ci siamo detti nella foga dello scontro, non s’incrinò mai.
Un giorno un mio amico mi trovò i documenti, che da tempo cercavo, i quali comprovavano una strage avvenuta nel mio paese, Porto Empedocle, all’interno della Torre di Carlo V dai borboni trasformata in carcere. 114 carcerati fatti ammazzare in una sola notte dal comandante delle guardie di custodia che temeva un‘insurrezione dei reclusi. Invitai Sciascia a casa mia, gli narrai la vicenda, gli consegnai le carte nella speranza che volesse scriverci su qualcosa. Dopo una diecina di giorni mi telefonò autoinvitandosi per un caffè. Mi disse che la storia l’aveva molto interessato. E poi mi domandò:
“Scusa, ma perché vuoi che la scriva io invece di scriverla tu?”
“Perché io non saprei scriverla come potresti fare tu”.
“Ma perché vuoi scriverla come saprei fare io? Io ne farei un libello e tu no. Scrivila come sai fare tu”.
“E poi chi me la stampa una storia così?”
“Ci penso io con la Sellerio”.
La scrissi, la intitolai “La Strage dimenticata” e gliela diedi a leggere.
Inutile dirvi con quale batticuore aspettavo il suo parere. Poi arrivò la telefonata: “Vienimi a trovare”.
“Cammillè (mi chiamò sempre così, mettendo due emme nel cognome), quello che hai scritto m’è piaciuto, ma”…
“Ma?”
“Ma usi troppe parole siciliane”.
“Leonà, ce n’erano di più nel ‘Filo di fumo’”.
“Quello era un romanzo, e anche lì ce n’erano troppe. Ma questo è un saggio. E’ diverso. Tra parentesi, rischi di avere pochi lettori, se scrivi così”.
“Non so scrivere diversamente”.
“Non ci credo. A te piace scrivere così. Perché?”
“Leonà, a te piace affilare il tuo italiano per farne una specie di bisturi luccicante e taglientissimo, a me piace lasciare i nodi del legno dal quale proviene, come il bastone di un pecoraio. Che faccio? Vuoi che lo riscriva?”
“No, ti volevo solo avvertire”.
Portò il libretto a Elvira Sellerio e lo fece pubblicare. E intervenne magistralmente sulla bandella che altri aveva approntato, come ho potuto constatare leggendo il prezioso “Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri” di Salvatore Silvano Nigro.
Una volta mi telefonò chiedendomi se avevo un racconto da dargli per inserirlo nella seconda edizione dell’antologia “Scrittori di Sicilia” che aveva curato con Guglielmino. Allora ne avevo scritto solo tre, Montalbano sarebbe arrivato molto tempo dopo. Gli risposi che glieli avrei lasciati in albergo tutti e tre, scegliesse lui quale. Mi richiamò per dirmi che ne aveva scelto uno, “Capitan Caci” e mi raccomandò di non darlo ad altri. Dopo nemmeno una settimana mi capitò un fatto inverosimile.
Stavo leggendo “Storie del porto di Bahia” di Jorge Amado e provai una
sorpresa indescrivibile. Ben due avvenimenti capitati al protagonista di Amado io li avevo quasi esattamente descritti nel mio “Capitan Caci”. Com’era possibile? Se avessi fatto pubblicare il mio racconto, tutti mi avrebbero accusato di uno sfacciato plagio. Glielo dissi a Leonardo e lui convenne che non era il caso. Ma sembrò non meravigliarsi molto.
“Qualche volta capita”.
“Che significa che capita?”
“Capita, capita”.
Qualche anno dopo mi avvenne di leggere un articolo di Italo Calvino nel quale raccontava che gli era successo un caso analogo al mio e ne dava la spiegazione: le idee narrative si trovano tutte in una sorta di biblioteca archetipale e quindi può capitare che due autori consultino lo stesso libro. Mi confortò, quell’articolo.
Leonardo aveva scritto una delle famose interviste impossibili per la radio, ma si era rifiutato d’impersonare se stesso come il programma esigeva. L’intervista perciò rimase inedita. Tre o quattro anni fa, la radio decise di realizzarla e io venni chiamato a fare Sciascia. Essere la sua voce per me fu quasi traumatizzante.
Un’ultima cosa. Che ho spesso ripetuto. Come scrittore, sono stellarmente lontano da lui. Eppure quando sento di avere le batterie mentali scariche, ricorro all’elettrauto Sciascia. Mi basta leggere una sua pagina qualsiasi per tornare a sentirmi vivo.
Andrea Camilleri
(Discorso in occasione del seminario Leonardo Sciascia scrittore e editore,
Scuola Normale Superiore di Pisa, 15 dicembre 2006)
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