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Dieci nel Novecento

Il romanzo italiano di largo pubblico dal Liberty alla fine del secolo



Autore Bruno Pischedda
Prezzo € 24,00
Pagine 268
Data di pubblicazione 2019
Editore Carocci
Collana Lingue e Letterature Carocci


Guido Da Verona e Camilleri (La forma dell’acqua), Pitigrilli e Guareschi, Annie Vivanti, Liala, Brunella Gasperini, Giorgio Scerbanenco, Stefano Benni e Oriana Fallaci: il volume spazia nel Novecento italiano esaminando dieci romanzi molto letti. Come per i più grandi capolavori contemporanei, l’autore non tralascia nulla: mette sotto la lente i personaggi, le trame, lo stile, i dati di vendita, il contesto culturale in cui ciascuna opera apparve. Il contrasto dei pareri, e delle reazioni da parte dei tradizionali custodi del bello scrivere, è dato per assodato. Discutere nel merito è sempre meglio che riposare nel pregiudizio. Ne risulta una rassegna analitica e al tempo stesso avvincente, decisa a non fare sconti in termini di valore estetico, ma anche essenziale per chi voglia avere una più larga conoscenza delle nostre tradizioni narrative.


Il canone della leggibilità da Liala e Guareschi a Camilleri
Il proposito, riuscito, è quello di accostarsi alla letteratura di intrattenimento con gli stessi criteri con cui si affronta la letteratura tout court. E così Bruno Pischedda, che al rapporto tra letterati e società moderna ha sempre dedicato un’attenzione acuminata, ora si concentra su alcuni casi di best seller italiani del secolo scorso.
Lo fa, senza pregiudizi di sorta, in Dieci nel Novecento (Carocci), individuando un «canone della leggibilità» da Guido Da Verona (Colei che non si deve amare, 1910) ad Andrea Camilleri (La forma dell’acqua, 1994). Dal romanzo erotico-melodrammatico alla «fiaba nera» di Annie Vivanti, dal sentimentale di Liala alle seduzioni misogine di Pitigrilli, dal piccolo mondo di Guareschi al fantasy satirico di Benni, dal poliziesco di Scerbanenco alle peripezie eroiche di Oriana Fallaci eccetera, Pischedda fa insieme un’analisi testuale per evidenziare debiti, epigonismi, sciatterie e pregi delle trame e degli stili, ma anche storia della cultura: in qualche modo anche del rapporto (tanto discusso oggi) tra le élite critiche «custodi del bello scrivere» e l’ampia e variegata platea del lettore.
«Onestamente — precisa Pischedda — devo dire che alcuni romanzi erano da tempo nel mio carnet di lavoro: Naja Tripudians della Vivanti, Terra! di Benni. Altri si sono aggiunti strada facendo, come Un uomo della Fallaci o Venere privata di Scerbanenco. Il progetto era in ogni caso molto chiaro. Volevo un campione rappresentativo del nostro Novecento, e lo volevo sgranato lungo il secolo, in modo che ogni decennio o quasi prevedesse un esemplare».
Al di là delle costanti e delle uniformità tipiche dei generi, il libro dà l’impressione di un panorama molto variegato. Che elementi contiene questo «canone della leggibilità»?
«Il libertinismo trasgressivo di Da Verona o Pitigrilli non è lo stesso di Liala; lo stile parlato di Guareschi nulla ha da fare con il dialetto manieristico di Camilleri o con il “gridato” mazziniano-guareschiano della Fallaci. Ogni romanzo sta per sé, mentre l’insieme vorrebbe rendere una stratigrafia dei gusti prevalenti, dalla belle époque al fascismo, dagli anni del boom a un generico e accogliente postmoderno. Ma il canone della leggibilità è molto più ampio, potrebbe includere, che so, Ricordi di scuola di Giovanni Mosca, Disperatamente Giulia di Sveva Casati Modignani, Va’ dove ti porta il cuore della Tamaro. Tutti romanzi venduti a centinaia di migliaia di copie, a milioni di copie, e non sprovvisti di fascino».
L’idea che nella letteratura di genere l’alto tasso di prevedibilità annulli ogni slancio originale è un luogo comune?
«Premesso che anche la restante letteratura fa i conti con i tipi e gli schemi trasmessi, la narrativa di genere mi interessa nel suo interno dinamismo, nell’espandersi, nell’ibridare o nel tornare a sinusoide sulle basi di partenza».
Per esempio?
«Prendiamo il romanzo poliziesco, con la triade De Angelis, Scerbanenco, Camilleri. Il primo imbastisce la classica inchiesta nella “camera chiusa”; il secondo, sulla scia dell’hard boiled story, sfonda la parete del rischio metropolitano; il terzo riconduce l’enigma negli spazi fantasiosi ma circoscritti di un paesotto di provincia. C’è evoluzione e andirivieni. E con il romanzo rosa le cose sarebbero anche più complesse . Ma il discorso non si può certo esaurire con questo tipo di romanzi.
Infatti, non le pare che l’equivalenza quantità uguale qualità stia guadagnando troppo terreno? E che la letteratura di genere abbia stravinto su tutta la linea?
«Certo, non si può rilasciare un uguale certificato di circolazione a qualunque testo letterario, anche se incontra un significativo successo. Il sabato mattina ascoltando alla radio certe trasmissioni librarie inorridisco. Tuttavia non spengo l’apparecchio, non volto l’orecchio: anche qui sta un’idea di letteratura che attende di essere valutata. La Qualità può stare da sola, secondo un’ipotesi tutta da verificare; ma pure la Quantità è una sottocategoria della Qualità, se si considera il sistema letterario nella sua interezza. Nel mio libro cerco una strada stretta, che coniughi un argomento ad alto voltaggio, il bestseller, il romanzo di intrattenimento, con il rigore della critica disposta come sempre a distinguere. Una critica non supponente o schifiltosa, però agguerrita».
Un’opinione ingenua e abbastanza diffusa considera il libro di successo in modo spregiativo come «opera pensata a tavolino». Che ne dice?
«Il tavolino è il mobile dinnanzi al quale sono concepite tutte le opere di ingegno. Il punto, se mai, è stabilire il grado di originalità oppure di derivazione che l’opera testimonia (alla casualità non credo, mai; come non credo alla pianificazione aprioristica di un successo). E per dire il vero neppure l’originalità, l’originalità assoluta, esaurisce la questione. Con eccessi di originalità si finisce a parlare da soli per strada».
E con eccessi di appiattimento sul già detto si rischia la banalità di successo…
«È evidente che nei romanzi di cui stiamo ragionando l’accento batte più sul lato imitazione che sul lato divinazione o ispirazione singolare. Nondimeno sono romanzi unici e niente affatto sovrapponibili. Ogni autore di largo pubblico ha una sua, personalissima, maniera. Ricorre a modelli e soluzioni già date: le sue sono più spesso repliche che prototipi; lavora con serie e formule (Liala, Guareschi e Camilleri convergono, sotto questo profilo). Ma si tratta di “standardizzazioni individualizzate”, come spiegava Edgar Morin, uno dei più limpidi e precoci esploratori della cultura di massa. Sono testi, opere: dopo di che c’è campo libero per ogni disputa meritocratica».
L’editoria italiana è stata influenzata dalla schifiltosità della critica?
«No, direi di no. Non almeno negli ultimi trent’anni. Il critico supercilioso, convinto di dover preservare un patrimonio messo a rischio dalle moltitudini piccoloborghesi e plebee, incide poco nelle scelte del pubblico e ancor meno nelle strategie editoriali, che tentano legittimamente di intercettare quelle medesime moltitudini. Il critico schifiltoso si sforza di essere selettivo, autorevole, di chiudersi nelle riviste sovvenzionate e nelle università. Ma con il bel risultato di sguarnire una postazione decisiva, dove alloggiano i romanzi più letti».
Sulla base dei suoi esempi, si possono individuare delle vistose oscillazioni o variazioni del gusto popolare?
«Più che di gusto popolare, parlerei di gusto interclassista plebiscitario. Un gusto difficilissimo da ricomprendere in ogni sua manifestazione. Certo in periodo mussoliniano abbondava nel narrato la figura dell’eroe ardito e passionale, aristocratico, circonfuso di gesta e di blasone (penso agli aviatori di Liala); mentre nel dopoguerra dilaga l’eroe popolare, sulla falsariga di Peppone e don Camillo. Però poi si torna a salire, e il Panagulis della Fallaci reinterpreta nei modi l’eroe tragico, antiautoriario ma insieme ostile alla “piovra” democratica. C’è qui un nodo decisivo: bisogna percepirsi fuori dai flussi prevalenti, per costituire un vero e sia pure momentaneo mainstream».
Venendo al linguaggio. Come si sviluppa il rapporto con il parlato? La lingua, in una letteratura tradizionalmente iperletteraria come la nostra, che ruolo gioca?
«Esiste una linea di faglia, nel complesso dei best seller novecenteschi. C’è un prima e un dopo D’Annunzio. Prima, un’immagine magari molto addomesticata di sublime dominava la scena: vedi Da Verona e Liala. Poi, alla svolta degli anni Quaranta-Sessanta, subentra una prosa media e talora colloquiale: i giovanilismi rosacei della Gasperini consuonano in questo senso con la sbrigatività violenta e comunicativa di Scerbanenco. Camilleri, e magari Niffoi, Fois, fanno un’altra cosa ancora: prendono il dialetto-lingua, cioè il siciliano e il sardo, e se ne fanno un’arma contro l’involgarimento neostandard. Come dire, anche a proposito dello stile ci sono tappe e variabili infinite».
Non trova che, a partire più o meno dagli anni Novanta, la distinzione tra letteratura di consumo e letteratura diciamo «alta» sia diventata sempre meno netta?
«La sovversione o rimescolamento delle gerarchie è un fenomeno di lungo corso, risale quantomeno alle avanguardie storiche e alla susseguente civiltà di massa. Qualcosa di più preciso si può dire però riguardo al sistema letterario nel suo insieme, utilizzando le categorie messeci a disposizione magistralmente da Vittorio Spinazzola. Nelle ultime decadi, è caduta la fascia alta del sistema o letteratura sperimentale. Sul versante basso si mantiene una certa quota di letteratura marginale, dai romanzetti Harmony ai conati scritturali sul web».
E nelle fasce intermedie?
«È lì, tra letteratura istituzionale e letteratura di intrattenimento, che la riduzione delle distanze si è fatta più vistosa. In un tempo non lontano distinguere era facile, tutto sommato: Sciascia o la Morante rappresentavano il prestigio, Chiara o Bevilacqua lo svago disimpegnato. Oggi i due livelli si avvicinano, si compenetrano: accolgono a un medesimo titolo Michele Mari, Paolo Cognetti, Elena Ferrante, Roberto Saviano e Donato Carrisi. Distinguere, a queste condizioni, sembrerebbe un azzardo. Camilleri, per dirne soltanto uno: dove lo mettiamo, nella letteratura istituzionale o in quella di intrattenimento? Io con la serie dedicata a Montalbano l’ho messo nel romanzo di intrattenimento (e così ho fatto con la Fallaci). Non credo che siano tutti d’accordo».
(Intervista di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 25 febbraio 2019)



Last modified Thursday, March, 14, 2019