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Erroneo, 22 novembre 2002

Camilleri, Andreotti e la Mafia
di Giovanni Bianconi

Il commissario capo di pubblica sicurezza Salvo Montalbano — quarantottenne poliziotto di Vigàta, Sicilia occidentale, diventato famoso per i racconti ispirati alle sue avventure che in pochi mesi avevano sbancato tutte le classifiche di vendita dei libri — arrivò alla trattoria senza avere idea, per una volta, di quello che avrebbe voluto mangiare. Nella sua testa turbinava tutt'altro, un pensiero che non l'abbandonava da quando aveva visto al telegiornale le immagini del processo di Palermo.
"Con che faccia," si domandava Montalbano, "uno come l'ex presidente della Repubblica s'è potuto presentare in aula a difendere con tanta veemenza l'imputato?"
Quel giorno Francesco Cossiga, già ministro dell'Interno, poi presidente del Consiglio e finanche capo dello Stato, aveva deposto come teste nel processo a carico di Giulio Andreotti, anche lui tante volte ministro e tante volte capo del governo, frenato sul più bello della corsa al Quirinale proprio nella successione a Cossiga, accusato di partecipazione all'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra. E aveva detto, il testimone della difesa, che l'imputato era "un assatanato" delle leggi speciali contro la mafia, che non gli importava niente dello Stato di diritto pur di sbattere in galera i boss.
Su qualche giornale Montalbano aveva anche letto che sempre Cossiga — che lui ricordava scritto col K, Kossiga, sui muri delle città, quando era entrato da poco in polizia e si domandava al servizio di chi lavorasse — invocava a gran voce un'amnistia per farla finita con le inchieste su Tangentopoli. E dalla tribuna di un congresso che pullulava di ex democristiani riuniti in un nuovo partito, l'ennesimo, ancora l'ex presidente della Repubblica aveva tuonato: "Non ci faremo processare!".
Il commissario, che nel 1968 manifestava, occupava, si faceva gli spinelli e s'azzuffava coi poliziotti come gli altri studenti del "movimento", aveva abbandonato da tempo le illusioni di trent'anni prima, ma non per questo s'era completamente rimbambito, né gli si poteva propinare qualunque sciocchezza come niente fosse. Il brigadiere Fazio, uno dei suoi bracci destri, lo definiva "un comunista arraggiato", un po' rabbioso, avvelenato, ma Montalbano gli ribatteva che non capiva niente: "Per te chiunque s'arrabbi per un'ingiustizia è comunista; ma non ti preoccupare, sono in molti a pensarla come te. Sei un tipo alla moda".
Quando entrò nella trattoria vide che lo scrittore lo stava aspettando già seduto al tavolo, fumando. Era l'autore dei romanzi che parlavano di lui, un siciliano di 73 anni al quale l'improvviso e straordinario successo — dopo parecchi lustri passati alla macchina da scrivere nel quasi-anonimato — non aveva fatto cambiare abitudini e modi di pensare. Certo, che i suoi libri fossero divenuti best-seller e che finalmente guadagnasse un po' di soldi gli faceva piacere, ma era consapevole della casualità del fenomeno.
"Alla mia età," ripeteva ai giornalisti che lo cercavano ogni giorno, quasi una persecuzione alla quale non si sottraeva per gentilezza e riconoscenza, anche se aveva dovuto ricorrere alla segreteria telefonica per limitare l'assalto, "è già tanto che ogni mattina mi sveglio e posso alzarmi dal letto, quindi non è il caso di montarsi la testa. Avessi quarant'anni correrei il rischio di fare qualche sciocchezza, oggi per fortuna no."
Tra le abitudini dello scrittore c'era pure quella di incontrarsi, di tanto in tanto, col commissario Montalbano per parlare, commentare, farsi venire nuove idee. Di solito si vedevano alla trattoria "San Calogero" di Vigàta, ma stavolta avevano scelto un buco sulla strada tra Montelusa e Fiacca, per stare più tranquilli: ormai lo scrittore veniva riconosciuto ovunque, e anche al ristorante c'erano le signore in età che l'avvicinavano per farsi firmare i libri e dare suggerimenti, per esempio che il protagonista non si doveva assolutamente sposare con quell'antipatica di Livia, la fidanzata del nord.
All'esterno la trattoria era indicata solo da un cartello con una scritta a mano: "Da Filippo che si mancia bene". Dentro c'erano cinque tavoli e un padrone, Filippo appunto, che cucinava e serviva quando gli veniva comodo. Montalbano l'aveva apprezzato per i polipi alla napoletana preparati con le olive nere di Gaeta e i capperi di Pantelleria che gli propinò la prima volta che c'era capitato, e per questo ci tornava spesso.
Sedutosi davanti allo scrittore il commissario ordinò i soliti polipi, ma il suo commensale — il quale ormai lo conosceva bene — capì dalla faccia che qualche pensiero lo disturbava. Montalbano gli spiegò di Cossiga e della sua testimonianza al processo Andreotti, che pure lo scrittore aveva seguito. Lui comunista lo era stato davvero, iscritto al Pci fin dal primo dopoguerra, e il commissario lo sapeva. Perciò si stupì quando lo scrittore rispose: "Cossiga ha ragione".

"Come sarebbe a dire?"
"Sì," spiegò lo scrittore, "ha ragione dal suo punto di vista, perché in realtà chiede un'amnistia non per i processi di corruzione, ma per gli ultimi cinquant'anni di storia italiana. Lui fa il solito discorso, ‘chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato'."
"E ti pare bello?" chiese Montalbano.
"No, anche perché quello della collusione tra mafia e politica in Sicilia è un passato che non si può dimenticare tanto facilmente. Però Cossiga fa il suo mestiere."
Montalbano, che stava aspettando i polipi e dunque era ancora in animo di parlare a ruota libera, ribatté: "E noi facciamo il nostro. Sta a sentire quello che mi ha raccontato Nicolò Zito, il giornalista mio amico che lavora a Retelibera. C'è un personaggio politico di Girgenti, Mario La Loggia, che a oltre ottant'anni ha deciso di lasciarsi andare con Zito, e di svelargli un sacco di particolari. Questo La Loggia fu coinvolto anche nell'omicidio del commissario Cataldo Tandoj, ammazzato sotto casa sua nel 1960: era il segretario provinciale della Dc di Girgenti, e oggi ammette che i delitti Montaperto e Campo, due morti che turbarono la Sicilia negli anni Cinquanta, erano delitti della mafia democristiana. Lo dice papale papale, davanti alle telecamere. E dice anche, questo signore, che è ora di finirla con la storia che Andreotti non conosceva i cugini Salvo: quale esponente della Dc in Sicilia non li conosceva? Gli avevano fatto una legge per assegnare loro l'appalto delle esattorie, e i soldi entrati nelle casse del partito non si contavano più. Questo non lo sto inventando io, l'ha spiegato Mario La Loggia ad una televisione privata".
Filippo aveva portato i polipi, ma Montalbano non se ne curò e continuò: "Siamo di fronte ai responsabili in prima persona che parlano dei rapporti tra mafia e politica, che ci dicono esattamente la DATA in cui la mafia entrò a far parte della Dc. Il vecchio Giuseppe Alessi, altro esponente di primo piano del partito in Sicilia, dovette fare un intervento per dire ‘io questa gente non la voglio', quando dopo la strage di Portella della Ginestra, nel 1947, in Sicilia c'erano 150.000 voti vaganti degli ex separatisti. Tra quella gente la mafia agraria giocava un ruolo fondamentale, ed entrarono tutti nella Democrazia cristiana, inquadrati in fila per tre. Non lo dico io, ma i vecchi capi della Dc in Sicilia".
Lo scrittore ascoltava con attenzione, mangiando la pasta con le sarde ordinata prima che arrivasse Montalbano, e quando il commissario si fermò per aggredire i polipi domandò: "Va bene, ma che c'entra tutto questo col processo ad Andreotti? Secondo te è giusto inquadrare tutta questa storia in un procedimento penale?".
"È giusto se sono stati commessi dei reati, ma sarà molto difficile arrivare a delle prove certe."
Adesso toccava a Montalbano mangiare, e allo scrittore parlare. "Secondo me," sostenne, "il vero processo che si doveva fare era quello a Salvo Lima, ma non sono arrivati in tempo, i mafiosi l'hanno ammazzato prima. Quel delitto è servito ad evitare che si scoperchiassero parecchie pentole, è stato un omicidio preventivo. Io ho il sospetto, per quanto cinico possa sembrare, che chi ha ucciso Lima abbia fatto un favore ad Andreotti. Se i magistrati fossero arrivati a processare Salvo Lima, le responsabilità di Andreotti sarebbero apparse evidenti, invece adesso è tutto più difficile."
"Certo," convenne Montalbano, "perché più in alto si va e più difficile è trovare prove oggettive di certi rapporti."
"Ma quelli sostengono che ci furono addirittura degli incontri tra Andreotti e i mafiosi. Tu ci credi al bacio con Totò Riina raccontato da quel pentito, come si chiama, Di Maggio?"
Il commissario, che aveva finito di spolverare i polipi alla napoletana, rispose: "No, non ci credo".
"Nemmeno tu, un comunista arraggiato, come dice Fazio?"
"Che c'entra? Il mio giudizio politico su Andreotti lo conosci, non è cambiato e non cambierà mai. Però alla storia del bacio non ci credo. Credo invece ai patti siglati coi mafiosi dal suo luogotenente, da Salvo Lima, come dici tu. Senza l'appoggio della mafia non avrebbe avuto il successo politico che ha avuto."
Lo scrittore volle continuare a stuzzicare Montalbano, perché nella mente gli stava balenando qualche idea per un racconto: "Ma a te che sei un uomo di sinistra, che l'hai sempre visto come il simbolo negativo del potere, che impressione fa vedere Andreotti seduto sul banco degli imputati, con l'aria spaesata di chi sembra capitato lì per caso, che quando parlano i pentiti li ascolta come se fosse un studente a una lezione sulla mafia?".
"A te lo dico perché so che non mi fraintendi," rispose Montalbano, "ma io Andreotti in questa situazione lo ammiro. Ammiro la sua freddezza e la sua intelligenza, non è una figura da sottovalutare. Io al suo posto non sarei sopravvissuto, emotivamente e psicologicamente sono molto più debole. È una situazione dostoevskiana: Andreotti è troppo intelligente per non sapere di essere colpevole, ma non di quello di cui viene accusato. È colpevole dal punto di vista politico, di aver accettato i patti con la mafia stipulati da Salvo Lima."
"In effetti," riprese lo scrittore, "nei verbali d'interrogatorio di alcuni pentiti si racconta che i mafiosi davano disposizione di votare per la Dc, per i liberali o per altri. Solo per due partiti avevano ordinato di non votare, il partito comunista e i fascisti."
"Erano uomini da Grande Centro, come Cossiga," sorrise Montalbano.
Il trattore Filippo si avvicinò al tavolo per chiedere con che cosa volessero continuare. Il commissario, incurante che fossero un antipasto, ordinò dei gamberetti in salsetta di olio e limone; il suo commensale chiese una triglia fritta. La discussione riprese subito.
Il problema, come scrivevano alcuni giornali, era che nel processo contro l'uomo-simbolo del potere democristiano in Italia sembrava che i pubblici ministeri — soprattutto quello con la barba e i capelli arruffati, che pareva un comunista arraggiato come Montalbano — davvero volessero scrivere l'intera storia del paese.
"Invece è una tentazione dalla quale bisognerebbe rifuggire," disse lo scrittore.
"Sicuro, un po' di distacco farebbe bene a tutti," annuì il commissario. "Tu sai quanto poco mi fanno simpatia i magistrati e certi pubblici ministeri in particolare, però mi rendo conto che alcune volte non è nemmeno tutta colpa loro. Questi hanno sempre le telecamere puntate addosso, questa cazzo di televisione che registra ogni loro parola e li riprende in ogni momento, in ogni espressione. E' facile commettere degli errori, cedere a qualche tentazione."
"Mica solo a Palermo," si intromise lo scrittore. Si riferiva a Milano e al pool di Mani pulite di cui apprezzava, come Montalbano del resto, il lavoro e le inchieste. E però il commissario non capiva quelle interviste che di tanto in tanto provocavano un autentico putiferio: che bisogno c'era di farle?, si chiedeva lui che cercava di sfuggire anche la più misera conferenza stampa, lui che aveva sempre pensato che più si lavorava in silenzio meglio era, e che davanti a un microfono o a una telecamera diventava una specie di idiota, come avrebbe potuto raccontare il suo amico giornalista di "Retelibera".
"Per esempio," proseguì lo scrittore, "secondo me l'avviso di garanzia inviato a Berlusconi mentre si trovava a Napoli, con tutti quei capi di Stato e di governo stranieri, è stato un fatto gravissimo. Perché le possibilità sono soltanto due: o è stato un errore madornale, oppure quello, e sottolineo solo quello, è stato un atto politico da parte della magistratura. Solo quello, non il processo."
"Da noi in Sicilia," disse Montalbano, "una cosa del genere, fatta in quel momento e in quell'ora, avrebbe avuto un solo significato: uno sgarbo, una volontà di sputtanamento. Perché quello era il presidente del Consiglio, si sapeva che non sarebbe scappato, se l'avviso glielo mandavano due giorni dopo non succedeva niente. Questo protagonismo anche da parte dei migliori, un po' mi stupisce e un po' mi disgusta."
"E questa mania di rileggere tutta la storia d'Italia in chiave mafiosa, non ti sembra un po' eccessiva?"
"No," rispose deciso Montalbano, "fanno bene a peccare per eccesso. Per troppo tempo c'è stata gente che ha peccato per difetto e s'è visto con quali risultati. Continuare a minimizzare sarebbe un errore ancora più grave. Ti ricordi quel proverbio siciliano, paga ‘u giustu pi ‘u piccaturi, si avi a pagare? È terribile ma è così: se si deve pagare, certe volte è inevitabile che il giusto paghi anche per conto del peccatore. Leonardo Sciascia l'hai conosciuto, mica io; era lui a sostenere che l'unica libertà conosciuta dai siciliani durante il fascismo fu la libertà dalla mafia, grazie al prefetto Mori. Il quale usava metodi discutibilissimi, naturalmente, ma intanto la mafia dovette andare in sonno finché non arrivarono gli americani a darle un buffetto per risvegliarla, durante e dopo lo sbarco."
"La verità," lo provocò lo scrittore, "è che anche tu sei stato sedotto da quei sostituti procuratori seduti al banco dell'accusa contro Andreotti."
"Ma quando mai! A me quelli fanno anche un po' ridere, se proprio la vuoi sapere tutta. Solo che davanti ai pentiti che dicono certe cose mica possono buttare i verbali nel cestino e fare finta di niente. Il meccanismo dei pentiti, che può avere degli effetti perversi, non l'hanno inventato i magistrati, checché se ne dica."
Montalbano prese a mangiare i gamberetti. Lo scrittore, invece, attaccò la triglia facendo attenzione alle spine, e disse: "Tempo fa ho partecipato a un dibattito radiofonico insieme all'ex prefetto di Palermo diventato deputato di Forza Italia, quello che poi si è dimesso, e all'ex magistrato del pool antimafia che adesso è sottosegretario alla Giustizia, quello alto coi baffi. Si parlava della lotta alle cosche, e io posi questa questione: ormai siamo arrivati quasi a duemila pentiti. Supponiamo che la metà, un migliaio, siano degli autentici professionisti del loro mestiere".
"Potremmo considerarli dei mafiosi in cassa integrazione," lo interruppe Montalbano.
"Esattamente," proseguì lo scrittore. "Diciamo che l'azienda mafia ha cambiato indirizzo di sviluppo e di gestione, e che questi sono esuberi messi in cassa integrazione, come dici tu. Allora il problema è: di fronte a questi mille professionisti di mafia, ci sono mille pubblici ministeri altrettanto professionisti? Perché se non è cosi il mafioso in cassa integrazione rischia di portare chi gli sta di fronte dove vuole, facendogli prendere delle gigantesche toppate, come si dice ora. Il mio timore è che siano i pentiti a guidare i passi della magistratura. La mafia ha eliminato magistrati del valore di Falcone e Borsellino che era molto difficile prendere per il naso. Adesso c'è il buon Caselli, che io stimo e ammiro, al quale voglio bene proprio per il suo sforzo di capire una certa mentalità, ma anche lui non è immune da errori."
"Può sbagliare perché nessuno è infallibile, ma in tante cose però ci ha inzertato," chiosò il commissario, volendo dire che spesso il procuratore di Palermo aveva colpito nel segno.
A Filippo che s'era ripresentato al tavolo lo scrittore disse che per il momento si fermava lì, mentre Montalbano era indeciso fra la triglia e due spigole che aveva notato entrando. Optò per le spigole cotte all'acqua di mare, con due cucchiai di salmoriglio a completare il tutto.
"In ogni caso," riprese lo scrittore, "se vuoi sapere come la penso io, per me i pentiti dal punto di vista umano sono delle vere merde, nel senso proprio degli escrementi nei quali ci si può imbattere sul marciapiede. E mi fa schifo pure la parola pentito: il pentimento è un moto dell'anima che comporta dei turbamenti abissali, che alla maggior parte di questi non passano nemmeno per l'anticamera del cervello. Questi barattano e basta. Ormai ammazzano, li arrestano e subito dopo si pentono."
"Su questo sono d'accordo con te," disse il commissario. "A me non piace nemmeno la definizione di collaboratore di giustizia, perché allora come si dovrebbero chiamare i cancellieri, i periti, gli ufficiali giudiziari? Quelli sono collaboratori della giustizia. Anch'io disprezzo i pentiti sotto il profilo umano, per quello che erano prima e per quello che sono diventati dopo. Però sono di grandissima utilità, e vanno trattati usando tutti gli accorgimenti igienici."
"Del resto anche la merda è utile, come concime."
"Vuoi che ti faccia una confidenza?" chiese Montalbano abbassando il tono di voce.
"Dimmi."
"Uno dei motivi per cui ho chiesto più volte al questore di Montelusa di non occuparmi di mafia," confessò il poliziotto, "è proprio che non vorrei trovarmi, un giorno, a colloquio con uno di questi che hanno avuto il coraggio di strangolare un bambino di 12 anni con le loro mani e poi scioglierlo nell'acido. Parlare con una persona di questo genere è una cosa penosa per un investigatore, anche per uno che ne ha viste tante come me."
"Però anche a te è capitato di avere a che fare con la mafia," ricordò lo scrittore. Era vero. A Vigàta, per esempio, continuava la faida tra le famiglie rivali dei Cuffaro e dei Sinagra, e occupandosi di un altro delitto collegato a quello di due giovani amanti consumato cinquant'anni prima Montalbano s'era imbattuto nel boss Tano ‘u greco, un mafioso che s'era fatto arrestare proprio per non finire ammazzato da chi aveva preso il comando dentro Cosa Nostra.
"Quella però era mafia tradizionale, un'altra cosa rispetto a quella di oggi."
"Sì, ma c'è un filo che tiene legate tutte le cose," ribatté il commissario mentre aggrediva la prima spigola. "L'evoluzione me la raccontò proprio Tano ‘u greco che non era certo un pentito, ma solo uno che voleva farmi capire qualcosa. ‘Una volta', mi spiegò Tano, ‘camminavamo tutto col carretto, e le cose ce le aggiustavamo tra di noi, magari con qualche ammazzatina. Poi qualcuno si comprò la macchina, e anche se aveva la 500 andava più veloce di noi che avevamo il carretto, costringendoci a prendere la patente. Ma avevamo già una certa età, e ci accontentavamo di auto di seconda mano, un po' vecchiotte, mentre altri si fecero le Ferrari e le Bmw, e con quelle ci buttavano fuori strada. Noi siamo rimasti alle vecchie macchine, mentre quelli che correvano con le Ferrari sono andati avanti, e ormai non si conoscono quasi più. Per parlarsi neanche hanno bisogno di riunirsi in una stanza: comunicano via Internet, si scambiano soldi attraverso le banche, estero su estero. Ma questa sarà la nostra fine, e perciò mi consegno', concluse ‘u greco."
"Una vera storia della mafia in poche battute," commentò lo scrittore, che aveva preso degli appunti su un tovagliolo di carta pensando che quel racconto gli sarebbe tornato utile in qualche romanzo.
"Che ti fa capire come la mafia di oggi non sia un'altra cosa rispetto a quella di ieri, ma la sua evoluzione," aggiunse il commissario.
"In effetti," riprese lo scrittore mettendosi in tasca il tovagliolo con gli appunti, "mi stupisce molto il fatto che una volta beccare un mafioso era difficilissimo, e quando ci si arrivava ci scappava sempre il conflitto a fuoco. Oggi invece ne arrestano di continuo, e questi non sparano più. Semmai fanno come quel napoletano preso l'altro giorno, Sandokan, escono fuori dicendo di stare attenti alle bambine. Si preoccupano di avere garanzie per i propri familiari. Vanno in galera come se fossero consapevoli che è in atto un ricambio generazionale. La mafia è diventata un'azienda multinazionale che riesce ad essere sempre un passo avanti rispetto ai tempi, rinnovando uomini e mentalità. Per questo lo Stato uscirà sempre sconfitto, se non cambia metodo. Vuoi che ti confidi una mia idea?"
"Spara," disse Montalbano.
"Secondo me i nuovi capi della mafia faranno di tutto per non far arrestare Bernardo Provenzano. Lasciano in giro il vecchio boss perché si continui a dire che la mafia è quella, come fosse un fatto folkloristico, mentre invece è tutta un'altra cosa che prospera alle sue spalle."
"E tutti i miei colleghi che continuano a rompersi le corna per arrestare lui e gli altri mafiosi in circolazione, e che tanti ne hanno arrestati in questi ultimi anni, secondo te stanno perdendo tempo?" protestò il poliziotto.
"Non dico questo, perché comunque tolgono dalla strada soggetti pericolosissimi che hanno colpe gravissime da scontare. Dico che manca il laboratorio sperimentale."
"Sarebbe a dire?" chiese il commissario sollevando solo per un momento la faccia dal piatto.
"Sarebbe a dire che quando viene arrestato Totò Riina, le consegne per il futuro sono state già date, perché altrimenti, con la raffica di arresti che ci sono stati negli ultimi tempi, la mafia sarebbe finita. Invece così non è, e ha ragione Caselli a dire ‘attenzione, la mafia non è finita'. Questo significa che lo Stato arriva sempre dopo, non prima. Il processo penale è un consuntivo, non un preventivo di ciò che sarà. L'azienda mafia ha il suo laboratorio di ricerca per l'avanzamento delle proprie strategie, lo Stato no. L'antimafia indaga sul passato e sul presente, mentre dovrebbe indagare sul futuro, studiare quali possono essere gli sviluppi di Cosa Nostra e prevenirli. Altrimenti rimane sempre un passo indietro."

Nel piatto di Montalbano, delle spigole e del loro condimento era rimasto soltanto un vago odore, e il commissario, soddisfatto, era pronto a tirare la sintesi di quella discussione, come fosse la conclusione di una delle sue indagini e lui si trovasse a spiegare al suo vice Mimì Augello e al brigadiere Fazio in che modo era arrivato all'assassino: "In sostanza basta vedere la mutazione quasi genetica della mafia per capire quello che è successo. Si cominciò con la mafia agricola, poi l'agricoltura andò a farsi fottere e divenne la mafia dei giardini, con ulteriori possibilità; quando anche i giardini andarono a farsi fottere divenne mafia dei mercati, poi buonanotte ai mercati e divenne mafia degli appalti. Ora che anche il campo degli appalti è stato messo sotto controllo, che cosa diventerà questa salamandra che è la mafia? L'azienda non si può bloccare, e quindi quello che tu chiami il suo laboratorio sperimentale avrà già indicato le strade future da seguire, lungo le quali evidentemente potrà fare a meno degli arrestati. Prendere quella gente è stato un successo, ma non può significare una vera sconfitta della mafia. Quanto a Vigàta, resta la mentalità omertosa e quindi un po' mafiosa di cui è intrisa la gente, oltre ai Sinagra e ai Cuffaro. Ma quelli appartengono al folklore, e il mio sarà pure snobismo, ma sinceramente preferisco che di loro si occupi Mimì Augello."
Per concludere anche la cena, oltre al ragionamento, il commissario Montalbano chiese una cassata, mentre lo scrittore volle assaggiare le minne di Sant'Agata che Filippo aveva rimediato chissà come, pastarelle di marzapane tipiche di Catania. Nell'attesa, pose un'altra questione: "Mi sto convincendo di una cosa: coi miei romanzi storici sull'Ottocento, in realtà, mi occupo dell'oggi. L'ultimo, che parla di certi metodi non proprio ortodossi utilizzati dai carabinieri, è uscito nei giorni in cui hanno arrestato quel generale dell'Arma per certe complicazioni in un sequestro di persona, e nel pieno delle polemiche tra il gruppo speciale del Ros e la Procura di Palermo."
"L'ho pensato anch'io mentre lo leggevo," rispose Montalbano. "Di quel libro m'è piaciuta soprattutto una considerazione che viene fatta alla fine, non ricordo da chi, quando si dice che ‘i tre quarti dei siciliani stanno pigliati in mezzo tra lo Stato e la mafia'."
"Forse nasce pure da questa condizione la cultura del silenzio e del non detto che abbiamo noi siciliani, che chi viene da fuori fa fatica a capire. Quei sotto-discorsi in cui il non-detto è più importante di ciò che viene detto, o interi ragionamenti fatti solo attraverso gli occhi che certe volte, in determinate situazioni, diventano strumento di ricatto."
"Quelle sono forme di difesa elaborate da un popolo che ha avuto troppe dominazioni, allo stesso modo in cui certe specie di animali elaborano i propri sistemi di protezione," disse Montalbano. "E un non siciliano come il procuratore Caselli sta tentando disperatamente di superare questa difficoltà. Secondo me, oggi, lui è una delle persone che ha imparato più cose sui siciliani attraverso la letteratura, e il fatto che legga i romanzi, oltre che gli atti giudiziari, per capire il carattere delle persone è un segno di grandissima intelligenza."
Lo scrittore si dichiarò d'accordo prima ancora che il commissario finisse la frase: "Io lo sto ripetendo fino alla noia, in tutte le interviste che mi fanno: noi siciliani dobbiamo essergli grati, la sua presenza in Sicilia è una delle forme di risarcimento che il Nord sta concedendo alla nostra gente. Caselli è venuto in mezzo a noi, a farsi carico dei nostri problemi, quando poteva restarsene tranquillamente a casa sua, già coperto di gloria e di meriti per tutto quello che aveva fatto contro il terrorismo. E' venuto a mettersi in gioco, e io per questo non finirò mai di ringraziarlo".
Arrivarono le minne e la cassata, e i due commensali vi si dedicarono con entusiasmo. Ma Montalbano, facendo la parte di chi vivendo in una piccola provincia tenta di capire che cosa succede fuori dal suo mondo, domandò: "A proposito di Caselli, tu che ne pensi del calo di tensione nella lotta alla mafia che lui non perde mai occasione di denunciare? Ha ragione oppure esagera, e tenta di tenere alta l'attenzione sul suo ufficio per altri motivi?".
"Secondo me ha perfettamente ragione," rispose lo scrittore. E siccome sapeva che Montalbano capiva benissimo ciò che accadeva al di là di Vigàta, rilanciò: "Tu che ne pensi?".
"Lo credo anch'io. Perché nonostante quello che i tuoi lettori possono pensare da come tu mi descrivi, io ho una mia moralità. A me fa paura l'indifferenza della gente, e penso che Caselli abbia lo stesso timore. Lui non chiede più mezzi o più soldi nella lotta alla mafia; lui si riferisce a quella che Enrico Berlinguer chiamava la questione morale. Io credo che Caselli denunci un calo di tensione morale, e non si può dargli torto visto che dopo le stragi del '92, fino a un certo punto i siciliani hanno reagito, con l'albero di Falcone e tutto il resto; oggi invece la mafia acceca un bambino e i siciliani non si muovono."
"Del '92 noi non abbiamo mai parlato a fondo", disse lo scrittore, "ancora non ci conoscevamo. Come vivesti le stragi di Capaci e via D'Amelio?"

"Fu un momento tremendo," rispose Montalbano, che poi si fermò, rifletté in silenzio qualche secondo e riprese: "Cerca di capirmi: io credo che con Falcone e Borsellino abbiamo perso due persone di grandissimo valore. E basta. Non ho mai pensato che fosse finito tutto, come altri. Dopo la morte di Borsellino ci fu quell'anziano e valoroso giudice, Antonino Caponnetto, che quasi piangendo disse in tv che era tutto finito. Io cercai di incontrarlo, in quei giorni, per scuoterlo: ‘Dottore, capisco il suo smarrimento che è quello di tutti noi, ma per favore non dica minchiate'. Non ci riuscii, ma per fortuna lui stesso si rimangiò subito quella frase, chiedendo scusa ai siciliani".
"In effetti poi s'è visto che non era finito tutto. Dopo Falcone e Borsellino altri magistrati hanno proseguito il loro lavoro."
"Sì," disse il commissario, "anche se la loro straordinaria capacità di intuire e capire è rara da trovare. La cosa più bella di quei due era la possibilità di capire il sistema di pensiero mafioso senza essere mafiosi; secondo me erano arrivati al punto di poter leggere nel pensiero dell'uomo d'onore che gli stava davanti. Per questo li temevano più di ogni cosa, per questi li hanno dovuti ammazzare: non potevano che toglierli di mezzo."
Lo scrittore annuì: "Quelli sanno riconoscere bene qual è il vero pericolo. Quando, da analfabeti che erano, cominciarono a leggere si resero conto dei pericolo rappresentato da certi giornalisti e fecero fuori Mario Francese, il primo ad aver scritto di Totò Riina con nome e cognome".
La cassata era finita, le minne pure. Filippo stava aspettando che quei due signori i quali avevano parlato fitto fitto per tutta la sera — evidentemente di cose molto serie, se il commissario Montalbano non aveva fatto commenti sui piatti che aveva preparato — se ne andassero. In ogni caso lo sbirro aveva mangiato tutto senza lamentarsi, e questo era un buon segno.
I due chiesero il conto, Filippo lo portò accompagnato da due bicchierini di passito. Lo scrittore bevve e disse: "Io domani torno a Roma. Tu non hai mai pensato di farti trasferire lì e venirci a lavorare? Livia sarebbe contenta, ti avvicineresti a casa sua".
"Per carità, io sto bene a Vigàta. Ogni tanto il questore tenta di propormi per una promozione e un trasferimento, ma finora sono sempre riuscito a dissuaderlo. Io qui ormai conosco la gente, capisco i loro codici di comportamento. Altrove chissà."
"Veramente dalla conversazione di stasera mi pare che tu abbia le idee abbastanza chiare sull'Italia intera."
Il commissario sorrise: "Basta poco. L'altra sera ho pensato proprio alla situazione di questo strano paese guardando in tv un vecchio film dei tempi del fascismo, Scipione l'africano. Si vedeva di tutto: gli antichi romani e i pali della luce e del telegrafo, il centurione con l'orologio al polso, ci mancava solo l'ombrello che mi ero perso il giorno prima. Stava tutto dentro quel film, e l'Italia se ci rifletti bene, è la stessa cosa: un grande calderone dove dentro bolle di tutto, e ogni tanto esce fuori qualcosa. Adesso si parla dei contatti e della collusione tra mafia e potere ma guardami bene in faccia: io e te, che sei pure più vecchio di me, l'abbiamo sempre saputo, ci abbiamo sempre creduto. Dov'è la novità?".
Lo scrittore non disse nulla, tra siciliani certe volte funziona così. Si alzò, infilò la giacca e uscì. Montalbano lo seguì in silenzio, facendo solo un cenno di saluto a Filippo. Fuori l'aria era fresca, e si sentiva l'odore del mare.
"Ciao, e grazie," salutò lo scrittore.
"Alla prossima," rispose Montalbano
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Last modified Friday, February, 14, 2014