Fenomenologia minima del vigatese
Autore | Luigi Matt |
Data di pubblicazione | 18 giugno 2025 |
Testata | Treccani.it |
L’enorme successo delle opere di Andrea Camilleri costituisce un fenomeno atipico nel panorama editoriale degli ultimi decenni, in cui la maggior fortuna arride di norma a libri scritti in una lingua molto semplice, l’italiano corrente eventualmente screziato di elementi antiquati, che richiamano la tradizione letteraria. Viceversa, Camilleri nella maggior parte dei suoi romanzi (compresi quelli più venduti, i gialli che hanno come protagonista il commissario Montalbano) ha sperimentato una scrittura molto lontana dalla medietà, riuscendo in un’operazione che a priori poteva sembrare destinata al fallimento: rendere leggibile e godibile per una platea molto ampia di lettori un idioma peculiare, che nel tempo ha preso una tale consistenza da poter dare la sensazione di essere una lingua realmente esistente: il vigatese. Il termine vigatese è ormai entrato stabilmente in uso negli studi sulla narrativa di Camilleri, dopo aver soppiantato il sinonimo camillerese, che ha avuto corso per un certo periodo (mentre non ha mai davvero attecchito montalbanese, che ha il difetto di restringere il campo a una sola parte ‒ anche se la più famosa al grande pubblico ‒ della sterminata produzione dell’autore). Si tratta in effetti di un’etichetta particolarmente efficace. La Vigàta in cui sono ambientati di norma sia i gialli sia i romanzi storici di Camilleri è, come noto, una sorta di doppio letterario del paese natale dello scrittore, Porto Empedocle (così come la vicina città di Montelusa è un travestimento di Agrigento). Per molti lettori si tratta di un luogo indiscutibilmente reale; lo stesso si può dire per la lingua parlata dai suoi abitanti. Quest’ultima risuona non solo nei dialoghi, ma anche nella voce narrante, la quale va idealmente attribuita a una persona del posto, che con i personaggi condivide non solo il modo di esprimersi ma anche, ben spesso, la mentalità.Una lingua reale e inventata Si può cercare di offrire una descrizione sintetica del vigatese, operazione peraltro non facile, data la sua indubbia complessità. La caratteristica prevalente è notoriamente l’ampio impiego di elementi del siciliano. A tutti i lettori del resto d’Italia può sembrare di essere di fronte a un dialetto omogeneo. In realtà, i serbatoi fonomorfologici e lessicali da cui attingere sono diversificati da molti punti di vista, come Camilleri stesso d’altronde non ha mancato di esplicitare: È vero, il mio è un paradialetto che non solo non esita a mischiare la specifica “parlata” contadina con la particolare “parlata” della piccola borghesia, che non solo mette in bocca a un vigatese espressioni proprie di altre province siciliane (“un siciliano ecumenico”, lo definì Ruggero Jacobbi), che non solo è un dialetto che non vuole avere niente di letterario, che fa rivivere parole ormai desuete, scomparse dall’uso comune, ma che addirittura azzarda parole completamente inventate. Insomma, a Vigàta si parla una particolare forma di dialetto che si potrebbe chiamare, con buona pace di tutti, il vigatese! (Camilleri, Rosso 2012, p. 31).) Va tenuto conto del fatto che il siciliano è estremamente diversificato al suo interno. Per citare un caso estremo, nelle opere di Camilleri è frequente l’avverbio masannò o vasannò ‘altrimenti’. Oltre a queste due forme, il vocabolario di A. Varvaro (2014) ne registra diciotto (masinnò, messa a lemma, e poi asannò, asinnò, maignò, mainnò, mannò, mansinnò, manzinnò, masanò, masennò, masinò, masonnà, massinnò, massinò, mennò, minnò, misanò, vasinnò). L’autore sceglie di volta in volta le varianti da usare muovendosi con libertà dal punto di vista diatopico (le varietà dell’Agrigentino sono predominanti, ma non esclusive), diacronico (vengono recuperati elementi desueti da varie fonti, tra cui un posto di primo piano hanno le poesie di G. Meli, attivo a cavaliere tra Sette e Ottocento) e diastratico (convivono parole proprie di viddrani e borghesi). Si tratta di un linguaggio doppiamente ibrido: infatti la componente dialettale, oltre a essere frutto di contaminazioni, viene poi liberamente mescolata all’italiano, secondo modalità di cui è spesso difficile rintracciare una motivazione precisa. Certamente sono in gioco (come d’altronde in più occasioni affermato dall’autore) esigenze diverse da quelle di una resa sociolinguisticamente verosimile; in particolare appare centrale la ricerca di una musicalità della prosa: la scrittura camilleriana risponde spesso all’intento dichiarato di «seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole» (Camilleri, De Mauro 2013, p. 77). Va poi detto che è molto approssimativo parlare del vigatese in generale: esso cambia molto, infatti, di libro in libro. Il percorso narrativo di Camilleri è caratterizzato da una chiara tendenza al progressivo incremento della componente dialettale; un punto di svolta è senza dubbio individuabile nel romanzo più impegnativo, Il re di Girgenti (2001), che si può considerare la prima opera in cui prende corpo compiutamente il vigatese: se precedentemente la lingua adoperata era l’italiano contaminato con dosi (generose) di siciliano, da questo momento in poi si deve parlare di un vero e proprio ibrido siculo-italiano.Com’è possibile che libri scritti in questo modo siano apprezzati da lettori di tutta Italia? È evidente sin dalle prime opere che Camilleri adotta alcune strategie per assicurare la leggibilità a chi non ha dimestichezza col siciliano. In effetti, anche quando le forme dialettali pervadono le pagine, esse sono usate in modo da non pregiudicare la comprensione. Si legga ad esempio l’incipit della Rivoluzione della luna: La siduta del Sacro Regio Consiglio che il Viciré don Angel de Guzmán, marchisi di Castel de Roderigo, tiniva a Palazzo ogni matina di mircoldì alle deci spaccate, macari quel jorno, che era il tri di settembriro del milli e seicento e sittantasetti, accomenzò come a ‘u solito, seguenno ‘na procidura rigidamenti stabilita. La sensazione provata dalla maggior parte dei lettori sarà quella di trovarsi di fronte a un testo scritto in siciliano, ma allo stesso tempo perfettamente decifrabile. Infatti, se è vero che in poche righe si trovano molte forme integralmente o parzialmente dialettali, va anche detto che quasi tutte rispetto alle corrispondenti italiane si differenziano solo per minimi elementi fonetici o morfologici, e quindi sono molto facilmente ritraducibili. Per il solo sicilianismo lessicale, macari ‘anche’, il contesto è più che sufficiente a far interpretare correttamente il significato; inoltre i cultori dei libri di Camilleri hanno incontrato centinaia di volte questa forma. L’autore sembra affidarsi al solido principio del repetita iuvant: molte parole dialettali grazie alla loro alta ricorsività nei suoi romanzi sono divenute familiari ai lettori.Il lessico del vigatese Il repertorio lessicale del vigatese è ampio e diversificato al suo interno quanto a frequenza d’uso. Si può individuare quello che sembra lecito chiamare lessico di base del vigatese: un buon numero di termini la cui presenza sembra irrinunciabile, e che spesso ritornano frequentemente nello stesso testo. Se ne fornisce di seguito una minima esemplificazione.Sostantivi: ammazzatina ‘omicidio’, cabasisi ‘testicoli’, camurria ‘grande seccatura’, caruso ‘ragazzino’, minna ‘mammella’, picciotto ‘ragazzo’, tabbuto ‘bara’, zito/-a ‘fidanzato/-a’. Aggettivi: cognito ‘noto, risaputo’ (soprattutto nella locuzione cosa c.), fituso ‘disgustoso, spregevole’, mutanghero ‘taciturno’, nico ‘piccolo’, vastaso ‘malvagio, maleducato, osceno’ (anche nelle locuzioni cose v., parole v. ‘porcherie’). Verbi (li riporto con le desinenze italiane): acchianare ‘salire’: ammucciare ‘nascondere’, astutare ‘spegnere’, babbiare ‘scherzare’, cataminarsi ‘muoversi’, cummigliare ‘coprire, nascondere’, inzertare ‘indovinare’ (soprattutto con il clitico ci: per es. c’inzertò), scantarsi ‘spaventarsi’, susirsi ‘alzarsi’, taliare ‘guardare’. Avverbi: arrè (o darrè, narrè) ‘indietro’, chiossà ‘più’, nonsi ‘no’, picca ‘poco’, sissi ‘sì’, tanticchia ‘un poco’. Piuttosto frequenti sono i sicilianismi semantici, vale a dire parole che hanno un corrispettivo in italiano, ma con significato diverso: ficcare ‘avere un rapporto sessuale’, ngiuria ‘soprannome’, spiare ‘chiedere’, tinto ‘malvagio’ o ‘brutto’, travaglio ‘lavoro’, vacante ‘vuoto’ (anche nella locuzione a v. ‘inutilmente’). Non vanno dimenticate infine le locuzioni: alla sanfasò ‘a caso’, alle sett’arbe ‘alle prime luci dell’alba’, a tinchitè ‘in grande quantità’, contari la mezza messa ‘nascondere parte della verità’, in un vidiri e svidiri ‘in un attimo’, la qualunque ‘qualsiasi cosa’, non è cosa ‘non è opportuno’, per il sì o per il no ‘nel dubbio’, sentirsi (o anche essere, venire) pigliato dai turchi ‘rimanere di stucco’. Per quanto riguarda le parole inventate (che come s’è visto sono indicate dallo stesso Camilleri come una componente del vigatese), si tratta spesso di derivati o composti che partono da sicilianismi realmente esistenti. Si può citare come esempio santìo ‘bestemmia’, un termine presente in Maruzza Musumeci: «si murmuriava e santiava, pirchì don Filippo era facile al santìo» (p. 66). Si può parlare di uno pseudosicilianismo (in dialetto esistono altre voci, derivate come santìo dal verbo santiari, che indicano la bestemmia: santiuni, santiata). È interessante notare che nel passo citato santìo sembra avere un valore diverso, indicando non una concreta bestemmia ma più astrattamente l’atto di bestemmiare: è forse questo il motivo per cui Camilleri non ha qui usato santiuni, molto frequente nelle sue opere. Voci di questo genere si acclimano perfettamente nel vigatese: nessun lettore non siciliano potrebbe individuarle come frutto di una coniazione d’autore. Si tratta quindi di un fenomeno molto diverso dalla creazione lessicale intensamente praticata da molti degli scrittori antichi e moderni classificabili come espressivisti (si pensi a C.E. Gadda, per fare il nome più ovvio): questi ultimi tendono di solito a far risaltare le neoformazioni, mentre Camilleri le mimetizza. Una «scrittura parlata» È stato opportunamente notato che «Quella di Camilleri è una scrittura parlata. I suoi racconti sono appunto scritti per essere ascoltati. […] Durante la lettura il lettore si trasforma in ascoltatore» (Lo Piparo 2015, p. 39). L’autore si è in più occasioni definito un contastorie, e ha dichiarato il suo amore per la lingua inventiva dei pupari, che mescolando italiano e dialetto sono capaci di incantare gli spettatori. In effetti, è evidente come la prosa dei romanzi camilleriani sia concepita per dare al lettore la sensazione di ascoltare un racconto fatto a voce. Per ottenere questo effetto, vengono attuati in modo ricorrente alcuni procedimenti sintattici tipici del parlato (che si possono trovare tanto nelle battute dei personaggi quanto nel narrato), di cui si può dare conto sommariamente attingendo gli esempi dall’ultimo romanzo di Montalbano, Il cuoco dell’Alcyon (rimando per un’esemplificazione più ampia a Matt 2020, pp. 54-56). In qualche caso, si tratta di fenomeni non solo diffusi in Sicilia, ma comuni a livello popolare in tutta Italia: per esempio l’imperfetto indicativo in luogo del congiuntivo («pariva che volava»); l’uso di ci come pronome personale indiretto di terza persona («Quello che ci dissi»); il tipo a me mi: («A mia mi piacino le fimmine vere»). Più spesso sono in gioco tratti sintattici tipici della Sicilia, o comunque del Meridione: per esempio la sostituzione di esserci con starci («non ci stava anima criata»); la posposizione del verbo («Tutto c’è»); l’aggiunta di che ad altre congiunzioni («vanno indove che gli pare»); il cosiddetto “accusativo preposizionale” (cioè la costruzione del complemento oggetto, quando riferito a persona, con la preposizione a): («aspittava a qualichiduno»); la reduplicazione di nomi per esprimere la continuità spaziale («la solita passiata molo molo» ‘lungo il molo’). Un linguaggio contagioso Alcune delle parole più caratteristiche del vigatese hanno varcato i confini delle pagine camilleriane (soprattutto grazie al successo delle rese televisive dei romanzi di Montalbano), entrando a far parte del lessico di molti italiani. Il fenomeno è stato notato già molto tempo fa: una sorta di consacrazione del lessico vigatese si è avuta nella versione uscita nel 2007 del Grande dizionario italiano dell’uso diretto da T. De Mauro ‒ estimatore e amico di Camilleri ‒ in cui sono state accolte alcune voci, soprattutto dal romanzo La stagione della caccia (per es., sciauro ‘profumo’, timbulata ‘schiaffo’, tumazzo ‘tipo di formaggio’). Ad aver successo sono soprattutto, com’è naturale, le parole che possono facilmente essere usate in contesti scherzosi, come camurria ‘grande seccatura’. Si può ricordare anche la locuzione di pirsona pirsonalmente usata dell’appuntato Catarella, quando avverte Montalbano che qualcuno lo ha cercato (una delle «espressioni-bandiera» del personaggio, come le ha etichettate D. de Fazio in La lingua ‘pirsonale’). Ma l’effetto più importante della fortuna dei romanzi camilleriani si riscontra nella tendenza all’accoglimento dei dialettismi nella narrativa contemporanea. Da più di trent’anni il dialetto ha ritrovato spazio nella prosa letteraria, dopo un periodo in cui era pressoché scomparso. Si può spiegare in parte tale fenomeno interno al campo letterario come riflesso di ciò che parallelamente è avvenuto nella società: la morte dei dialetti, prevista negli anni Sessanta del Novecento da alcuni linguisti, non si è verificata, e anzi le parlate locali hanno perso in buona parte quello stigma di minorità da cui erano gravate in precedenza. Ma senza alcun dubbio è stato fondamentale l’esempio di Camilleri, che ha contribuito in modo decisivo a rendere accettabili e anzi graditi al grande pubblico gli impieghi dei dialetti nella narrativa.
Bibliografia Camilleri, A., Maruzza Musumeci, Palermo, Sellerio, 2007. Camilleri, A., La rivoluzione della luna, Palermo, Sellerio, 2013. Camilleri, A., Il cuoco dell’Alcyon, Palermo, Sellerio, 2019. Camilleri, A., De Mauro, T., La lingua batte dove il dente duole, Bari-Roma, Laterza, 2013. Camilleri, A., Rosso L., Una birra al caffè Vigàta, Reggio Emilia, Imprimatur, 2012. De Fazio, D., La lingua ‘pirsonale’ di Agatino Catarella, Lingua italiana, Treccani.it Lo Piparo, F., La lunga durata della lingua di Camilleri, in Nigro, S.S. (ed.), Gran teatro Camilleri, Palermo, Sellerio, 2015, pp. 32-41. Matt, L., Lingua e stile della narrativa camilleriana, in Caocci, D., Marci, G., Ruggerini, M.E. (ed.), Quaderni camilleriani 12. Parole, musica (e immagini), Cagliari, Grafiche Ghiani, 2020, pp. 39-93. Varvaro, A., Vocabolario storico-etimologico del siciliano, 2 voll., Palermo-Strasbourg, Centro di studi filologici e linguistici siciliani-Éditions de linguistique et de philologie, 2014.
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Wednesday, June, 18, 2025
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