Ogni tanto, sulla stampa italiana, salta fuori una polemica che riguarda i film giudicati meritevoli di una sovvenzione o di una qualche agevolazione da parte dello Stato per il loro particolare contenuto artistico e culturale a carattere nazionale. Concretamente, il rimprovero mosso a questi film consiste nel dislivello tra gli incassi nelle sale (vale a dire il gradimento del pubblico pagante) e le somme elargite dallo Stato per la loro realizzazione, sicché viene ad innescarsi una sorta di circolo vizioso per cui i distributori, visti semi (o del tutto) vuoti i loro locali, si trovano costretti a togliere il film dalla circolazione in tempi assai più rapidi del dovuto, impedendone l'eventuale crescita. Mi auguro sinceramente di no, ma credo che un film come Il manoscritto del Principe, diretto da Roberto Andò e prodotto con agevolazione statale, dalla «Sciarlò» di Tornatore, sia destinato a rinfocolare la polemica. Il film è incentrato essenzialmente sul problematico rapporto tra il figlio adottivo dell'autore del Gattopardo e l'allievo più fedele di Tomasi di Lampedusa: facilissimo dare i veri nomi ai personaggi, ai luoghi, certificare la verità di alcune situazioni. Quello che però conta è l'eleganza, la discrezione, il pudore coi quali il difficile rapporto viene narrato in una sorta di meditato rifiuto di ogni concessione spettacolare, che è una scelta severa e, dati i tempi che corrono, molto coraggiosa. Tra l'altro il film è assai ben fotografato e si avvale di una recitazione ottima, sia da parte degli attori più giovani sia da parte dei mostri sacri quali Michel Bouquet e Jeanne Moreau (e come dimenticare la breve apparizione di Leopoldo Trieste nei panni del poeta Lucio Piccolo?).
Andrea Camilleri (Pubblicato su La Stampa, 30 marzo 2000) |
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