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La carta dei giochi

L'Atlante Linguistico della Sicilia e la tradizione ludica infantile



Due giornate di studio Palermo, 18-19 dicembre 1997

a cura di Giovanni Ruffino

CENTRO DI STUDI FILOLOGICI E LINGUISTICI SICILIANI

DIPARTIMENTO DI SCIENZE FILOLOGICHE E LINGUISTICHE

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

PALERMO 1999

Per Bonaviri, Camilleri e De Vita
La carta dei giuochi e delle scritture

Natale Tedesco

Per più ragioni si è sostituito un mio possibile intervento sul punto di vista letterario del tema proposto, La carta dei giuochi, con la presentazione di tre scrittori che partecipano al convegno e la lettura di testi di essi che, con la memoria autobiografica di giuochi infantili, forse ci danno il senso riposto, anche la direzione di una parte della loro ricerca inventiva della loro avventura scrittoria.

Non sono qui per presentare analiticamente la loro produzione; peraltro, sebbene in modo diverso, per numero e qualità delle opere, Giuseppe Bonaviri, Andrea Camilleri e Nino De Vita sono ormai personalità definite della nostra letteratura. Mi riferirò, dunque, e in breve, ai possibili significati complessivi della loro opera, o meglio al senso generale della loro presenza nel dibattito attuale.

[...]

Andrea Camilleri deve essere intanto ringraziato per la buona dose di carnevalesco, nell'accezione bachtiniana, che immette nel corpo della nostra letteratura quasi sempre penitenziale, spesso da quaresima di sinistra, dove la trasgressione è interdetta da una opaca nube ideologica, e il piacere della lettura non può esprimersi "bassamente" anche a partire da una franca risata. E non è che non esista un orizzonte ideale alto in Camilleri, se è vero che anche di recente ha saputo giostrare con ironia, ma con pieno impegno etico-civile, tra filosofia e mafia, o meglio tra un così proclamatosi filosofo e un'idea 'pazzagliesca' della mafia, ad onta della presunzione astrale.

La radicale adesione al mondo siciliano, dove si invera ancora una volta la massima di Tolstoj, "descrivi il tuo villaggio e sarai universale", si palesa peraltro ben avvertita del nuovo conformarsi del villaggio globale: i suoi riti (il cibo), i gusti letterari (il giallo); ma alimentare da un'ottica isolana i segni del diverso, sottolineare le differenze, è un modo ineludibile d'intendere ciò che di oppositivo e di vitale batte nel greve, anche grande, corpo dell'omologazione. Una prova del battito diverso dei tuttavia persistenti, molteplici cuori del mondo sono appunto i dialetti, il cui nuovo uso contrastativo accompagna i mutamenti sociolinguistici nel segno del globalismo.

In Camilleri la pratica di innesti (innesti e non inserti) dialettali è la manifestazione prima di tutto di una omofonia interiore, che provoca lo scartoscatto dello stile. Contro la convenzionalità della maggior parte della narrativa odierna, Camilleri, come il cavallo del giovane Sklovskij, procede obliquamente. Mi auguro che pure la sua memoria dei giuochi infantili ci doni la "stranezza" fruttuosa di questo procedere.

[...]


In attesa d'a musca

Andrea Camilleri

Al Kunsthistorisches Museum di Vienna, di fronte al grande dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, intitolato "Giochi di Fanciulli", non c'è visitatore che non ricerchi, tra gli 84 raffigurati in una sorta di strepitosa e magica antologia visiva, i giochi della propria infanzia. Perché i giochi che vi sono rappresentati non hanno tempo, continuano ad esistere come giochi elementari e primari, da praticare come rito ludico basico, magari se poi, con gli anni, si passerà a giochi assai più complessi e supportati da oggetti prima meccanici e, adesso, elettronici. Gli oggetti di quei giochi erano (e fortunatamente continuano ad essere) rigorosamente poveri: un pezzo di stoffa, una pietra, un bastoncino. Ma ogni gioco finiva quasi sempre col costituirsi come sfida, come gara. Erano esercizi d'abilità pura, quasi mai l'astuzia vi trovava posto.

Un mio collega regista, Giorgio Pressburger, nel 1970 tentò un audace esperimento: quello di trasferire in parole e suoni 26 tra i giochi raffigurati da Bruegel. Pressburger, solidamente preparatosi con studi antropologici ed etnografici, registrò i giochi alla scuola elementare di Beinasco, piccolo comune vicino a Torino: la scuola era frequentata in prevalenza da figli di operai provenienti dall'Italia meridionale. Noti i giochi scelti, ma, scrisse il regista, le versioni che i bambini ne fornivano erano diverse, sorprendentemente più espressive di quelle raccolte dagli etnografi. Molti bambini - assicura Pressburger - si rifiutarono di dire a viva voce le formule segrete di certi giochi di carattere magico, preferendo scriverle perché se dette a voce ad un estraneo avrebbero perduto il loro potere.

Questo per dire che se la struttura dei gioco elementare rimane immutabile, in realtà all'interno di quella struttura molte sono le varianti innovative, dovute evidentemente al continuo evolvere della società.

In questo senso, la mia è una testimonianza datata, risale agli anni '27-'35.

Comincerò coll'elencare alcuni giochi praticati ai tempi dell'asilo e che non hanno alcun carattere di originalità. Li metto in ordine alfabetico.

Cavaseddru. - Ci si disponeva, in quattro o cinque, lungo una riga tracciata per terra col gesso. Ognuno di noi aveva un compagno sulle spalle, il quale aveva il compito di trattarci come cavalli, spronandoci ai fianchi con i talloni o dandoci zottate, frustate, sul sedere. Al "via" si partiva di corsa, verso una linea di traguardo che ad ogni passo appariva sempre più incredibilmente e crudelmente lontana. Vinceva naturalmente chi arrivava per primo al traguardo, ma molti cadevano a metà percorso, appunto come cavalli azzoppati. Finito il gioco, si ricominciava: la linea del traguardo diventava quella di partenza e i portatori stavolta, promossi fantini, si pigliavano le loro vendette da ex cavalli.

Cippu. - Due bastoncini, uno più corto dell'altro, ricavati da rametti non flessibili. S'iniziava colpendo a mezz'aria il bastoncino più corto con quello più lungo, tentando di mandare il primo il più lontano possibile. L'avversario faceva lo stesso. Lo scopo era quello di raggiungere, per primo, la "meta". Ma attenzione: nei colpi successivi al primo, il bastoncino più corto doveva essere sollevato da terra con la punta del bastoncino più lungo e quindi sempre colpito a volo.

Cumerdiuni. - Ossia aquilone. Nel costruirlo, con fogli di carta velina colorata, colla di farina e sottilissime stecche di canna, era rigorosamente vietato l'aiuto dei padri, zii e fratelli maggiori. La forma del comerdiuni era quella classica, non si pensava a variarla come in seguito è accaduto, dando libero sfogo alla fantasia. Più che i colori della carta velina contavano la leggerezza e la manovrabilità, oltre alla lunghezza della coda formata da anelli di carta. Quando il cumerdiuni era in volo, si lanciava a posta, un anello di carta attorno al filo che saliva fino al punto dove il cumerdiuni era tenuto dal filo stesso. Ch'io ricordi, non era in uso ingaggiare battaglie aeree. Vinceva chi era capace di manovrare fino a portare il cumerdiuni più in alto di tutti, di governarlo quando per correnti avverse principiava a capozziare, vale a dire ad andar giù di punta, e di tenerlo alto nel cielo più a lungo di tutti. Il cumerdiuni (il più piccolo di tutti veniva chiamato cumèrdia) si poteva lanciare o di rincorsa o da fermo. Somma abilità era l'individuazione di una corrente ascensionale ottimale, cioè intermedia tra punti estremi di velocità e di forza.

Giammarita. - Non la trovo registrata nel Mortillaro; nel Traina invece si rimanda a ciamarita, canali (tegola) e maruni. Senonché il rimando non è rispettato, la voce ciamarita manca, di canali si dà la definizione di tegola o alveo per lo scorrimento delle acque, mentre maruni rimanda a sua volta a maduni, cioè mattone. Procedo senza soccorso, tento una definizione. La giammarita, dalle mie parti, era (non so se ancora è) ciottolo levigato dal mare o dal fiume, di forma circolare, schiacciata. Impugnata tra pollice e indice ricurvi, veniva scagliata con forza sul mare quand'esso era di calma piatta, in modo che la giammarita più volte rimbalzasse sulla superficie senza sprofondare in acqua. Vinceva chi riusciva a far fare più balzi alla propria giammarita. Ogni giocatore ne doveva aver buona riserva, perché naturalmente ogni lancio costava la perdita della giammarita. adoperata.

Manulesta. - Gioco che certamente avrà centinaia di nomi e modi diversi di chiamarlo. Ci si metteva accosciati, in circolo, e ognuno di noi partecipanti aveva davanti a sé un mucchietto di pietruzze. Si lanciava una pietruzza in aria e, nel tempo della sua ricaduta, velocemente la stessa mano che aveva lanciato la pietruzza altre ne raccoglieva in pugno dal mucchietto e apriva il palmo per ricevervi anche la pietruzza precedentemente lanciata in aria. Quindi si lanciavano tutte le pietruzze contenute nel pugno e altre se ne pescavano dal mucchietto. Vinceva chi, avendo esaurito il mucchietto, si ritrovava in mano il maggior numero di pietruzze.

Tòrtula. - Già ai miei tempi c'erano le trottole metalliche, quelle azionate a mano da una specie di asta caricatrice elicoidale. Dei fori praticati lateralmente le facevano emettere una sorta di lamento melodico nel suo girare. La vera tòrtula però restava di legno, piuttosto pesante, che ruotava sulla punta di un chiodo, e veniva azionata dallo strappo di un lazzo attorno ad essa arrotolato. I giocatori più che abili riuscivano a prendere sul palmo della mano la tòrtula continuando a farla firriàre. Lo sputo a tradimento sulla tòrtula era consueto e colpiva naturalmente a caso, non di rado lo stesso sputatore.

Passo ora a illustrare due giochi che non ho visto praticare altrove.

Aggibbari. - Nel Mortillaro, la definizione della voce è la seguente: "Soggiacere, Sottogiacere in senso proprio e figurato. 2) Aggibbari e fari l'arti vale 'non poter farne a meno'". Nel Traina la definizione è più complessa: "v. intr. Sottoporsi: soggiacere, rinchinarsi, curvarsi per peso o per acciacchi, sì nel propr. che nel fig. || AGGIBBARI E FARI L'ARTI, non poterne far a meno: esserne distretto. P. pass. AGGIBBATU: soggaciuto, rinchinato (Sp. gibar: opprimere sotto il peso)".

La definizione che più s'attaglia al gioco che vorrei descrivere la si trova però in U Baccagghiu, piccolo dizionario del gergo della mala curato da Giuseppe Mannino.

"Aggibbari. - vrb - Starci, stare al gioco. Traslato dal significato dialettale che indica "l'innestarsi a perfezione" e dicesi della chiave duplicata falsa che entra bene nella serratura. Forse dall'arabo "ghebel", monte, curva. Quindi: incurvarsi, adattarsi".

Per poter giocare a gibbari era indispensabile munirsi prima di un certo numero di bottoni che si razziavano in casa. Molto ricercati i bottoni per vestiti femminili e per questo un mio amico andava a trovare una sua zia, nubile e sarta, che ogni volta si commuoveva fino alle lacrime alle visite dell'affettuoso nipote, ignorando che il giovane mascalzone era lì solo per fare segreta incetta di bottoni pregiati. Il gioco del gibbari non aveva luoghi né tempi stabiliti, era fulmineo e quindi lo si praticava, a sorpresa, in qualsiasi occasione. Lo sfidante, tirato fora dalla sacchetta un bottone, lo teneva tra il pollice e l'indice curvato in modo da nascondere alla vista il numero dei buchi che c'erano nel bottone e domandava:

Ci aggibbi ccà?

Come dire: ci stai al gioco? Lo sfidato, era un rituale, doveva rispondere:

Ci aggibbo.

Quanti purtusa?- domandava lo sfidante.

La risposta non era facile: spesso bottoni enormi avevano solo due fori, bottoni minuscoli ne ho visti con sei.

Se la risposta era sbagliata, il perdente dava uno dei suoi bottoni al vincente; in caso contrario lo sfidante dava il bottone che era servito al gioco allo sfidato vittorioso.

Aggibbari aveva questo di buono, che poteva essere giocato senza parole. Lo sfidante mostrava il bottone, lo sfidato chinava la testa in segno d'assenso, lo sfidante con la mano chiusa a cacòcciola mimava la domanda sul numero dei fori, lo sfidato dava la risposta con le dita di una mano. Due miei compagni di classe usavano giocare quando uno dei due si trovava impegnato alla lavagna. Il gioco, in questo caso, era seguito da tutti con gran divertimento. Solo il maestro non s'accorgeva di niente.

Cuncirtinu. - U cuncirtinu poteva avere maggiore o minore riuscita a seconda del numero dei partecipanti (più si era meglio era) e delle capacità musicali dell'improvvisato maestro, nostro coetaneo, che fungeva da concertatore e da direttore. Il concerto ideale prevedeva il seguente organico: una o più voci soliste, coro, strumenti a fiato, strumenti a percussione. Cominciamo da questi ultimi.

1) Due pietre firrigne, lisce, dure, piatte, fatte battere violentemente l'una contro l'altra.

2) I ferli. Due rami di fèrula usate allo stesso modo delle pietre firrigne. Una variazione di suono era data dal sostituire uno dei rami di fèrula con un ramo d'olivo, assai più duro, come legno, del mandorlo.

3) U cocò. Un recipiente di creta per contenere l'acqua dalla larga imboccatura. Questa imboccatura veniva coperta da un pezzo di pelle, molto tesa, legata con lo spago torno torno. Si suonava battendovi sopra le dita. E' uno strumento tra l'altro ancora in uso, con qualche modifica, soprattutto nella musica afro-americana.

Gli strumenti a fiato erano in genere i seguenti.

1) A pàmpina. I più abili tra di noi riuscivano a trarre un curioso suono da certe foglie, ora tenendole aperte di taglio e appoggiandole alle labbra socchiuse, ora arrotolandole in un certo modo e soffiandoci dentro.

2) U frischettu. Il fischietto veniva ricavato dall'osso di albicocca. Tenendolo tra due dita, lo si strofinava a lungo su una superficie scabrosa sino a produrvi un minuscolo buco. L'operazione veniva quindi ripetuta dall'altro lato. A questo punto, con uno spillo, si estraeva il seme dall'osso, lasciandovene dentro almeno un quarto. U frischettu si suonava appoggiandolo contro i denti di davanti e lì tenendolo incastrato tra labbra e gengiva, senza bisogno di usar le mani che intanto potevano adoperarsi su uno strumento a percussione. Lo strumento funzionava sia inspirando che espirando. Certe volte, nel raptus musicale, u frischettu veniva ingoiato dall'esecutore.

3) U friscalettu. Il primitivo zufolo dei pastori, ricavato da un pezzo di canna sul quale erano stati praticati dei fori ad arte. Pochi gli eletti che lo sapevano usare, perché era lo strumento che dava il "la" al cuncirtinu.

4) U bùmmulu. E' il recipiente di creta nel quale si mette l'acqua per mantenerla fresca. Soffiandovi con forza dentro si ottiene un suono cupo.

Naturalmente nessun pezzo eseguito nel corso del cuncirtinu era replicabile. Il miracolo accadde, a mia memoria, una sola volta con un pezzo che s'intitolava, manco a dirlo, a minchia.

Una curiosità. Quando decenni e decenni dopo misi in scena, al Teatro di Tindari, la versione siciliana fatta da Pirandello del "Ciclope" di Euripide, volli che i Satiri suonassero gli strumenti del cuncirtinu della mia infanzia. Stavolta, a orchestrare e a dirigere, c'era un vero musicista. Ne venne fuori un effetto singolare.

Concludo con un gioco inventato da alcuni ragazzi di Porto Empedocle, tra i quali io, che ebbe una certa diffusione entro le mura del nostro paese. Si chiamava u iocu d'a musca, il gioco della mosca, e qualcuno già lo conosce per averlo letto nell'omonimo libretto edito dalla Sellerio. Lo trascrivo.

U iocu d'a musca, il gioco della mosca. Lo si praticava da maggio a settembre, quando il sole asciugava la spiaggia inumidita dalle piogge d'autunno. Ci si distendeva, sei o dieci ragazzi, in cerchio a pancia sotto sulla spiaggia e ognuno metteva al centro, all'altezza della propria testa, una monetina da venti centesimi. Sulla propria monetina ogni giocatore abbondantemente sputava. Poi si restava immobili, magari per ore, in attesa che una mosca andasse a posarsi su un ventino. Il proprietario dei ventino prescelto dalla mosca vinceva i soldi puntati da tutti gli altri. Si dava il caso che, durante tutta la mattinata o un pomeriggio, nessuna mosca si facesse viva: in tale circostanza il gioco veniva ripetuto paro paro il giorno seguente. Era ammesso il condimento della saliva, prima dello sputo, con odori e sapori gradevoli alle mosche quali miele, succo d'uva, zucchero. Bertino Zappulla per qualche giorno ebbe fortuna strepitosa, poi scoprimmo che condiva lo sputo con la sua stessa merda. Venne squalificato. Severamente proibita durante il gioco, la lettura: il fruscio delle pagine voltate avrebbe potuto indurre la mosca alla fuga o a un cambiamento di rotta. Parimenti proibito parlare. Sono fermamente persuaso che nel corso di questo gioco, durato anni, si sono decisi i nostri destini individuali: troppo tempo impegnavamo nella pura meditazione su noi stessi e il mondo. E così qualcuno divenne gangster, un altro ammiraglio, un terzo uomo politico. Per parte mia, a forza di raccontarmi storie vere e inventate in attesa della mosca, diventai regista e scrittore.



Last modified Tuesday, May, 07, 2013