La giustizia e la mafia nelle opere e nei pensieri di Camilleri
Mappe del pianeta Camilleri, tra lingua, stile, arti, cultura e società
Autore | Martina Tarzia |
Data di pubblicazione | 7 ottobre 2024 |
Testata | Treccani.it |
L’interesse di Camilleri per la giustizia e la legalità così come la sua sete di “verità” (si legga, tra le tante, l’intervista rilasciata a Marco Travaglio il 14 agosto 2012 per «il Fatto Quotidiano» durante la quale l’autore insistette moltissimo su quanto tutti i cittadini meritino di conoscere cosa davvero sia accaduto con riguardo alla questione della trattativa Stato-mafia) sono note a tutti. Più volte l’autore ha manifestato, da una parte, incondizionato appoggio per i procuratori anti-mafia; dall’altra, severa perplessità nei confronti degli intellettuali italiani per l’assenza di un reale impegno civile di fronte a fatti gravi verificatisi nel nostro Paese (si veda l’intervista rilasciata al direttore di «Micromega» sul n. 6/2013). L’autore, invero, era ben conscio di quanta sfiducia nutrano i suoi conterranei (e non solo loro) nei confronti della giustizia; sfiducia dovuta a una serie di circostanze storiche che hanno, poi, consentito alla mafia di attecchire così bene da essere percepita come una sorta di potere alternativo a quello statale. A conferma di ciò, l’autore elencò, all’interno dell’opera Voi non sapete (p. 80), una serie di detti popolari sulla giustizia tra cui anche quello che costituisce il titolo del presente contributo. Analizzare l’intera sua produzione sarebbe un compito a dir poco arduo; pertanto, senza pretesa di esaustività, abbiamo deciso qui di illustrare alcune sue considerazioni inerenti alla tematica della giustizia prendendo spunto, in particolare, da tre delle sue opere: La setta degli angeli, La bolla di componenda, e Autodifesa di Caino.
La questione mafiosa in Camilleri. Una delle principali polemiche che ha suscitato la produzione letteraria di Camilleri (soprattutto i romanzi) concerneva la asserita assenza (o lo sminuimento) della tematica mafiosa la cui manifesta presenza, invece, ci si aspetta sempre nelle trame degli scrittori siciliani. Si è detto che nei romanzi di Camilleri non si parla mai di mafia o che se ne parla in termini meramente folkloristici e che Vigata sarebbe un posto da cartolina. A ben guardare, però, non solo i romanzi dell’autore sono permeati dalla mafia ma lo sono in un modo arguto in quanto la mafia rimane sullo sfondo di ogni romanzo senza mai assurgere al ruolo di protagonista. Si percepisce questa aura di mafiosità diffusa di cui ogni gesto della quotidianità dei singoli personaggi della storia è intriso. Ciò trova conferma nelle esplicite parole dell’autore il quale, in svariate interviste, sottolineò come – lungi dal voler ignorare il fenomeno mafioso o dal banalizzarlo – il suo scopo fosse quello di non contribuire a creare personaggi che, alla fine, in quanto protagonisti, sarebbero stati nobilitati dal lettore. L’autore voleva evitare di ingenerare una specie di sindrome di Stoccolma tra il lettore e il protagonista mafioso che, volenti o nolenti, rischia di essere mitizzato se gli si concede troppo risalto. Camilleri è intento a scandagliare l’animo umano dei personaggi che si muovono sulla scena pregna di mafiosità di cui il lettore non può non percepire il peso specifico. Il contesto descritto da Camilleri non è differente da quello descritto da Sciascia (i due autori erano amici oltre che conterranei) ed entrambi dovevano conoscere alla perfezione tutti i meccanismi con cui è solita operare la mafia per raccontarla così icasticamente. Emblematico il romanzo intitolato La setta degli angeli, tratto da un episodio realmente avvenuto agli inizi del 1900. Il protagonista è l’Avvocato Matteo Teresi, il quale, oltre ad essere anticlericale e notoriamente non asservito al potere mafioso (di cui è, invece, connivente la piccola nobiltà locale), è l’unico che si occupa di difendere le ragioni dei contadini e dei più poveri; l’unica sua velleità è quella di entrare a far parte del circolo del paese “Onore & Famiglia” che, ogni volta, invece, rifiuta la sua domanda di ammissione. Senza entrare nel dettaglio della trama, si scopre che in paese sono accaduti episodi di violenza sessuale ai danni di giovani donne compiuti da alcuni esponenti del clero. Ebbene, nonostante sia proprio Teresi, unitamente al Capitano dei Carabinieri piemontese, Eugenio Montagnet, a scoprire la fitta trama di corruzione spirituale e non, lo stesso continuerà a non essere ammesso al circolo del paese, gli sarà negato il titolo di Cavaliere e anche i contadini, minacciati dai mafiosi, lo scanseranno. Camilleri, dunque, contrariamente a ciò che molti pensano, nei suoi romanzi ha descritto con finezza i meccanismi mafiosi scegliendo di dare rilievo a chi mafioso non è e finendo sempre, purtroppo, per scontrarsi con l’amara realtà che non sia possibile ristabilire la giustizia e la legalità laddove si intende porre in discussione un ordine costituito che, alla fine, sta bene ai più. Non sarà certo un caso che il libro preferito di Teresi – che deciderà poi di abbandonare l’Italia – sia il capolavoro di Miguel de Cervantes Saavedra Don Chisciotte con i suoi mulini a vento.
La bolla di componenda: quando l’ingiustizia è favorita dalla Chiesa Nella Bolla di componenda, prendendo le mosse da un aneddoto personale, Camilleri rammenta gli esiti della Commissione di Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, istituita con Legge del 3 luglio 1875 (nota come “Inchiesta Bonfandini”), figlia della rinnovata fiducia positivista nella raccolta e analisi dei dati come strumento di verità che condusse, all’indomani dell’Unità d’Italia, all’avvio di tutta una serie di indagini conoscitive, inchieste scolastiche, igienico-sanitarie e censimenti della popolazione per conoscere le diverse realtà delle regioni italiane. In particolare, l’Autore ripercorre la deposizione del Tenente Generale Casanova e trascrive, in parte, la seconda delle quattordici lettere che il Prof. Giuseppe Stocchi fece pubblicare, nel 1874, sul giornale «La Gazzetta d’Italia». Il Tenente Generale Casanova, ascoltato dalla Commissione il 12 novembre 1875, nello spiegare il funzionamento della mafia come da lui percepito, si sofferma anche sulla bolla di componenda esprimendosi in questi termini: Cosa è la Bolla di Componenda? Sbaglierò, ma credo sinceramente, che ha avuto e che ha origine da certe frasi molto imperfette che dicono i preti […] Si chiama ora componenda. Ad ogni modo, la teoria della bolla attuale è questa: dice il Vangelo al capo tale versetto tale: “Quando uno avrà rubato una vacca dovrà restituirne sette”. [...] però, siccome può accadere che dunque il tale, che in coscienza vuol restituire, e non possa trovare, nonostante le più diligenti ricerche il danneggiato, allora eccoti ogni tanti scudi paga tanti tarì che, fatto il conto in lire, e centesimi, viene a fare il 3½ per % del danno arrecato, ed allora la benedizione potranno darvi, l’assoluzione sino a tale e tale concorrente. E questa è la regolarità: adesso mi permettano solo di citare tre articoli che ho a memoria, sono 17 o 19 gli articoli. Dice l’articolo 7: “Potrà comporre, potrà essere esonerato il patrocinante che abbia ricevuto danaro, regali, somme o valori, per far la parte dell’avversario del proprio cliente”; un altro articolo: “Per comprare il giudice che riceve danaro, regali, per dare una sentenza iniqua, per provare l’alibi della persona che ha commesso il delitto” […] Il milieau morale, l’atmosfera che si respira nella storia di Palermo, si trova in questa bolla di componenda (pagg. 61-62). Ancora più specifico è il Prof. Stocchi quando scrive: Questa bolla di componenda si vende da speciali incaricati, che ordinariamente sono i parrochi, al prezzo di lire una e tredici; […] Ma non è solamente per il furto che uno si può comporre. Lo può fare per altri diciannove titoli, che comprendono ogni specie reale e immaginabile di furfanterie. […] Tale è la morale a cui il clero cattolico educa il popolo e specialmente le plebi in Sicilia, e tale era l‘indirizzo favoreggiato e protetto e inculcato dai passati governi. […] Ora che cos’è il prezzo della bolla di componenda? Al tempo stesso che una tassa in favore del clero sul delitto, è una partecipazione al furto e un furto esso stesso. […] E quando il siciliano ignorante si è persuaso che una cosa non è peccato, di tutto il resto non teme o non si cura, soccorrendogli mille mezzi e infinite vie a non cadere o a sfuggire alle sanzioni della giustizia umana. Gli basta esser certo (stolta ma esiziale certezza) che non andrà all‘inferno; e da questa unica paura lo guarentisce l‘esempio e l‘assoluzione del prete (pagg. 85-87). Per ragioni di spazio non ci è consentito un approfondimento di più ampio respiro ma possiamo affermare che per Camilleri la bolla di componenda (che è solo in minima parte assimilabile alle ben più note e, comunque deprecabili, bolle di indulgenza; pagg. 91 e 97) sia un vero e proprio accordo criminoso che si caratterizza perché uno dei contraenti è l’autorità spirituale (volendo utilizzare un termine specifico di stampo penalistico, la bolla costituirebbe un classico esempio di reato-contratto come i reati associativi, la corruzione, l’usura, la cessione di stupefacenti). Dunque, anche la Chiesa, con certe sue pratiche, avrebbe favorito, nel tessuto siciliano, il diffondersi di una illegalità (terrena) dilagante, nelle cui maglie ben si sarebbe inserita la mafia. Lo stesso Autore osserva come, non casualmente, molti mafiosi siano tanto devoti e religiosi (sul punto si leggano la Lectio Doctoralis in occasione del conferimento della Laurea Specialistica Honoris Causa in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute, indirizzo Psicologia Applicata all’Analisi Criminale, L'Aquila, 3 maggio 2007 e Voi non sapete). Secondo Manichedda (2018, p. 28), le parole del Tenente Casanova erano solo apparentemente dirette contro la Chiesa e si riferivano, invece, alla magistratura siciliana notoriamente corrotta in quegli anni (tanto da essere in atto un forte scontro tra magistratura e prefettura). Ciò che è certo è che nella Relazione conclusiva dei lavori della Commissione si ritrovano molti dei suggerimenti del Tenente Casanova ma nemmeno un accenno alla bolla di componenda che, invece, avrebbe dovuto costituire uno degli allegati alla relazione avendo Casanova inviatane una copia alla Commissione il 25 novembre 1875 (pagg. 68-69). Leonardo Sciascia ebbe, dunque, ragione quando disse a Camilleri (pag. 108) che «Tu una carta così non la troverai mai». Eppure, verosimilmente qualcosa deve essere esistito perché il termine “componenda” – epurato del “sacro” riferimento alla “bolla” – tutt’oggi esiste e ne troviamo una definizione all’interno del Dizionario storico della mafia di Gino Pallotta come «Forma di compromesso, transazione, accordo fra amici. Veniva stipulata tra il capitano della polizia a cavallo e i malviventi o i loro complici in una data età storica della Sicilia […]».
L’importanza di saper scegliere. Autodifesa di Caino Autodifesa di Caino è un monologo che avrebbe dovuto essere messo in scena il 15 luglio 2019 alle Terme di Caracalla (al pari di Conversazione su Tiresia). L’Autore, purtroppo, morì due giorni dopo e il monologo è diventato, così, il primo libro di Camilleri pubblicato postumo da Sellerio. Il racconto si apre con la creazione di Adamo ed Eva e – ironizzando, anche irriverentemente, su un Dio che non è così perfetto come ci hanno insegnato («Sì, il lato borghese di Dio. Perché il Signore ci rispecchia in tutto. Rispecchia i nostri difetti, le nostre virtù, i nostri vizi, le nostre bontà»; pag. 17) –, l’Autore, analogamente al romanzo Caino di Saramago, ci narra una versione diversa della vicenda dell’Antico Testamento attraverso gli occhi di Caino. Quest’ultimo, definito il primo assassino della storia, stufo di essere costantemente biasimato da tutti, dichiara di voler esporre, per la prima volta, le proprie ragioni pronunciando, dunque, la sua autodifesa e immaginando che il pubblico sia la giuria di una Corte. In questa sua arringa autodifensiva – che si incentra, essenzialmente, sulla legittima difesa (Caino è, infatti, fermamente convinto che Abele volesse ucciderlo a sua volta) –, il protagonista sviluppa la sua narrazione con uno scopo ben più ampio e cioè quello di indurre nel pubblico una riflessione su cosa sia il male («Vedete, non è semplice come può apparire che io ero condannato al Male perché figlio di un diavolo e Abele destinato al bene perché figlio di un Arcangelo. No, il male è insito in noi nell’attimo stesso in cui veniamo al mondo»; pag. 41). Analoghe riflessioni si ritrovano anche nella poesia intitolata Caino di Ungaretti in cui il personaggio rappresenta l’emblema dell’aggressività dell’uomo, di tutti gli uomini, financo dello stesso poeta che, in conflitto tra l’istinto violento e il desiderio di innocenza, si rivolge, infine, alla propria anima chiedendole se sarà mai capace di calmarla, anelando, quindi, ad una pacificazione interiore, ad una composizione tra il “bene” e il “male”. Camilleri, tuttavia, si spinge ancora oltre perché non solo ci rappresenta come esseri duali, portatori tanto di luce quanto di ombra, ma ci mette nitidamente di fronte all’importanza di scegliere. Per l’Autore siamo dotati di libero arbitrio, dunque, bisogna saper scegliere il bene: Lui ha operato una scelta. Voleva ucciderti, poi ha scelto di lasciarti in vita. Avresti potuto fare lo stesso, ma tu hai fatto un’altra scelta. Questo finché vivrà il mondo sarà l’impegno dell’uomo: fare le giuste scelte. […] Sono quasi arrivato in fondo alla mia autodifesa. Come avrete notato, quello che in sostanza volevo dirvi è che non esiste la predestinazione e che Dio ha ragione, possiamo scegliere. […] Devo confessarvi che non sempre dal bene nasce altro bene e che non sempre il male genera altro male. […] senza il male il bene non esisterebbe, Dio l’aveva pensato prima di tutti noi, come era logico. […] Riflettete su quanto vi ho raccontato questa sera e poi decidete da voi. Secondo coscienza (pagg. 59, 77,78,79).
Conclusioni Il Tenente Casanova, pochi giorni dopo essere stato ascoltato dalla Commissione, scriveva una Relazione al Ministro degli Interni esprimendosi in questi termini: La maffia è troppo potente, la corruzione è troppo profonda, il disprezzo alle leggi e a tutto ciò che rappresenta l’ordine è troppo abituale perché si possa fare solo assegnamento sui mezzi attuali. Occorrono purtroppo misure molto più energiche e più adatte ad infrenare gli istinti e le passioni di queste popolazioni. Sulla stessa lunghezza d’onda si ponevano Sonnino e Franchetti nella loro Inchiesta privata del 1876 sottolineando come la questione sociale in Sicilia (e nelle aree meridionali in generale), per quanto non fosse l’unica, era certamente una delle principali cause della insicurezza pubblica e della corruzione civile. Ci si chiede, allora, volendo tirare le fila del discorso, fino a che punto possa dirsi “libero” l’arbitrio di chi nasce in determinati contesti socialmente disagiati. Lungi dal voler de-responsabilizzare gli individui relativamente alle condotte poste in essere dagli stessi con coscienza e volontà, si tratta di cercare un necessario collegamento tra il reato come concetto penalistico astratto («ente di ragione», avrebbe detto Francesco Carrara) e il reato come fenomeno concreto, affinché non si crei uno scollamento tra princìpi e realtà. Illustri autori (ad es. Vassalli 1959; Bettiol 1955), ormai dagli anni ‘50, insistono sulla necessaria interconnessione tra dogmatica penalistica e criminologia (cioè la disciplina che studia il delitto nella sua realtà oggettiva e nelle sue cause). Diversi antropologi e sociologi (Ianni 1974; De Masi 1976) concordano sul fatto che la mafia venne storicamente ad occupare uno spazio in cui le istituzioni furono (e sono) incapaci di difendere i cittadini e fu, così, in grado di assicurarsi il consenso di questi ultimi; secoli di dominazioni straniera e di ribellione contro di essa hanno ingenerato nella popolazione l’atteggiamento tipico dell’ambiente oppresso caratterizzato da chiusura, bisogno di protezione e auto-affermazione violenta. La famiglia, i cui valori sono strumentalizzati, diventa la cellula base dell’organizzazione criminale, così come analogamente la famiglia è il nucleo naturale di ogni società e dello Stato. L’affiliato si inserisce in una grande organizzazione che gli garantisce un ruolo, una posizione, una identità e che, magari, alle volte funziona da ascensore sociale in un contesto dove lo Stato è più latitante che altrove. Lo stesso magistrato Sebastiano Ardita, nel saggio Catania bene. Storia di un modello mafioso che è diventato dominante, evidenzia come uno Stato assente sia criminogeno in quanto porta le vittime del disagio sociale a divenire autori del reato. In conclusione, come fa Caino, si chiede di riflettere, secondo coscienza, se e quanto possa essere efficace la politica criminale moderna che, anziché portare lo Stato dove non c’è, si limita ad inasprire continuamente le pene in cerca di consensi.
L'introduzione dello Speciale Mappe del pianeta Camilleri, tra lingua, stile, arti, cultura e società
Bibliografia Ardita, S., Catania bene, Storia di un modello mafioso che è diventato dominante, Milano, Mondadori, 2015. Basile, F., Diritto penale e criminologia: prove di dialogo, archiviodpc.dirittopenaleuomo.org Bettiol, G., Colpa morale e personalità, in Scuola positiva, Milano, Vallardi, 1955, pp. 278 ss. Bonina, G., Il carico da undici. Le carte di Andrea Camilleri. Intervista, Siena, Barbera Ed., 2007. Camilleri, A., La bolla di componenda, Palermo, Sellerio, 1997. Camilleri, A., La setta degli angeli, Palermo, Sellerio, 2011. Camilleri, A., Autodifesa di Caino, Palermo, Sellerio, 2019. Camilleri, A., Alla ricerca dell’impegno perduto in «Micromega» n. 6/2013. Deambrogio, C., Famiglia di sangue e mafia: un’analisi socio-criminologica, in «Archivio penale» n. 3/2012, pp. 1-19. De Masi, D. (ed.), Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976. Ianni, F. A. J., Affari di famiglia: parentela e controllo sociale nel delitto organizzato, Milano, Garzanti, 1974. La Licata, F., La mafia – che non c’è – nei romanzi di Camilleri, in« Quaderni Camilleriani» n. 2, 2016, 13-20. Maninchedda, P., Una mafia per il Ministero e una per il Parlamento. La testimonianza del Generale Alessandro Avogadro di Casanova di fronte alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni della Sicilia (1875), in «Quaderni Camilleriani» n. 6, 2028, pp. 23-46. Mazzacappa, C. A., «Caino» o del sentimento Ungarettiano di noia e inquietudine, in «Italica» n. 47/2, 1970, pp. 183-201. Pallotta, G., Dizionario storico della mafia, Roma, Newton Compton, 1977. Vassalli G., Scritti giuridici, vol. IV, Milano, Giuffré, 1997, pp. 277 ss.
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Monday, October, 07, 2024
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