home page




Gli occhi di Rosa

Gino, che aveva ventidue anni, arrivò nell'ottobre del 1950 a Roma dalla natia Siracusa, dove aveva studiato al liceo artistico, perché aveva vinto il concorso d'allievo regista al Centro sperimentale di cinematografia. Andò ad abitare a Prati, in una di quelle che allora si chiamavano "stanze in famiglia", presso una zitella cinquantenne, una specie di corazziere, la quale ogni sera gli raccontava, arricchendola di sempre nuovi particolari, la sua giovanile storia d'amore con un geometra sparito alla vigilia delle nozze con tutti i suoi risparmi. Sedotta, abbandonata e derubata. Ce n'era di che fare un film lacrimoso con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, regia di Raffaello Matarazzo. Per raggiungere il Centro sperimentale, Gino ogni mattina doveva fare un vero e proprio viaggio, prendere un primo tram che lo portava nei paraggi della stazione e da lì andare a piedi al capolinea di un altro tram che l'avrebbe condotto, dopo non meno di tre quarti d'ora, a Cinecittà. Al Centro, c'era la mensa gratis, così gli allievi potevano riprendere a studiare, dopo una breve interruzione, fino alle cinque e mezza del pomeriggio. Quando tornò a Siracusa per le vacanze di Natale, e gli amici gli domandarono com'erano le ragazze romane, solo allora Gino si rese conto di non saper che dire. In realtà aveva condotto una vita assolutamente solitaria. La sera rientrava a casa non prima delle sette di sera, si ritirava nella sua stanza, si cambiava, leggeva qualcosa, cenava con la loquace ragioniera, usciva, andava a cinema. All'uscita, si abbandonava al suo piacere segreto. Che era quello di girare a piedi per le strade di Roma senza una meta precisa, scegliendo d'imboccare una strada solo perché attratto da una particolare sfumatura dell'illuminazione notturna o magari per vedere dove andavano a finire i passi furtivi di un gatto. Rincasava verso le due di notte nell'appartamento che vibrava tutto per il russare della ragioniera. Quella volta, alle domande degli amici, se l'era cavata rispondendo in modo generico: "Sapete, praticamente non ho tempo. Dal Centro, tra 'na cosa e l'altra, non niscemo prima delle sei di sira". "Ma non ci stanno le allieve attrici?". "Sì, però non sono romane". "Di dove sono?". "Milanesi, piemontesi, emiliane... c'è pure un'americana". "E le allieve attrici non sunno fimmine, scusa?". "Sì, ma studiano fino a tardo macari loro". Quando tornò a Roma, dopo la prima settimana di gennaio, aumentò la durata e l'estensione delle passeggiate notturne malgrado l'inusuale freddo intenso di quell'inverno perché si era fatto rivoltare, durante la vacanza, il vecchio cappotto di suo padre. Camminava a piedi per ore e a piedi rincasava. Solo se aveva fatto molto tardi o se si sentiva stanco pigliava un tram notturno per tornare nella sua stanza. Una notte gelida, arrivato in una grande piazza che si trovava ai piedi di Monte Mario, notò una strada, al cui inizio c'era una fornace in disuso, che s'inerpicava su per il monte. Per un attimo restò indeciso se avventurarvisi o no. Di Monte Mario gliene aveva parlato un suo compagno di corso, descrivendoglielo come il luogo ideale per le coppiette che avevano voglia di appartarsi, non c'erano infatti che poche villette, stazzi per capre, vasti spazii erbosi. E oltretutto, al contrario di Villa Borghese, non si rischiava di essere sorpresi dalla polizia a compiere "atti contrari alla morale e al buon costume", come veniva scritto allora sui verbali. Ma ormai era troppo tardi e Gino decise di rimandare l'esplorazione. Voltò le spalle per tornarsene a casa. A metà di via Doria c'erano due fermate del tram alla stessa altezza ma sui due marciapiedi opposti. Passando, Gino vide sul suo stesso marciapiede un signore che s'appoggiava con le spalle al palo che reggeva il cartello con l'indicazione della fermata. L'aveva appena sorpassato che quello lo chiamò. "Per favore". "Speriamo che non mi domandi l'elemosina ", pensò Gino. In tasca gli erano rimasti i pochi spiccioli che gli occorrevano per arrivare al Centro l'indomani mattina, che era il giorno di paga della borsa di studio. "Mi dica". L'uomo, un sessantenne minuto, senza cappotto ma con addosso abiti pesanti di buon taglio un po' troppo lisi, fece una certa fatica a rialzare la testa, si scostò dall'appoggio e sbandò pericolosamente. Allora Gino si rese conto che era così ubriaco da non reggersi in piedi. "Ma questo tram va a Monte Mario?", domandò l'uomo con la bocca impastata. "No, questo va in senso opposto". "E come faccio a pigliare quello che va a Monte Mario?". "Basta andare nell'altro marciapiede". "E chi ce la fa ad arrivarci?", fu la domanda desolata. "L'accompagno io". L'uomo gli s'aggrappò alle spalle e Gino lo traghettò. Ma quello, al termine del tragitto, non mollò la presa. "Hai fatto trenta, fai trentuno. Accompagnami fino a casa". "Ma è tardi e io non..." "Non ti preoccupare, ti pago io il biglietto di andata e ritorno. Se non mi aiuti tu, non ci arrivo". Si frugò nelle tasche, cavò fuori venti lire, gliele diede. A far cadere le ultime resistenze di Gino fu l'arrivo del tram. Era completamente vuoto, a parte il conducente e il bigliettaio. Si sedettero l'uno a fianco dell'altro. Ma appena il tram imboccò la salita per Monte Mario, l'uomo si appisolò. Gino se ne accorse dopo un po' e se ne preoccupò. Non poteva permettergli di dormire a lungo, non sapeva a quale fermata sarebbe dovuto scendere. Dopo cinque minuti, come se gli avesse letto nel pensiero, il bigliettaio dal fondo della vettura disse ad alta voce a Gino: "Sta attento che er signore scenne alla prossima. Fallo arzà". Dunque lo conoscevano. Questi ritorni problematici non dovevano essere inconsueti. Fare alzare l'uomo fu un'impresa. Cascava da tutte le parti. Finalmente riuscì a trascinarlo fino alla porta adibita alla discesa, tenendosi aggrappato al sostegno laterale. Il bigliettaio riparlò: "Appena che sei sceso, c'è 'na via subbito a mano manca. Pigliala e a 'na trentina de metri ce sta la villa. 'Na vorta m'è toccato puro a me d'accompagnallo". Quei pochi minuti di sonno in tram avevano peggiorato notevolmente la situazione. L'uomo non riusciva a tenersi dritto, le ginocchia gli si piegavano in continuazione. Gino, dopo un attimo d'esitazione, se lo caricò sulle spalle e s'incamminò sulla via indicatagli dal bigliettaio. Non passava nessuno, né a piedi né in auto. Più volte Gino rischiò di cadere inciampando tra i sassi di quello che era più un viottolo di campagna che una strada di città, oltretutto malamente illuminata. Finalmente arrivò davanti al cancello della villa che era aperto. Dava su un giardinetto che a Gino sembrò del tutto abbandonato. La facciata della villa, che doveva essere stata una bella costruzione dei primi dell'Ottocento, era in condizioni miserande, da una finestra del primo piano una persiana pendeva staccata in parte dai cardini. Dava l'idea di essere una villa abbandonata da anni, dalle finestre non trapelava un filo di luce. Temette di essersi sbagliato, poteva darsi che lo sconosciuto abitasse in qualche altra casa più avanti. Comunque, meglio tentare. Se lo fece scivolare dalle spalle, lo tenne in piedi appoggiandolo contro la porta chiusa. "Sveglia!", fece scuotendolo. L'uomo continuò a dormire. A Gino venne la tentazione di lasciarlo lì e andarsene. Ad uno scossone più forte degli altri, l'uomo aprì un occhio e, abbracciandosi a Gino, si scostò per guardare la porta. Dovette riconoscerla, perché s'infilò una mano in tasca, tirò fuori una chiave, tentò d'introdurla nella toppa. Non ci riuscì. Gino lo scostò, gli prese la chiave dalla mano e provò lui. Era chiusa a tre mandate, ma quando Gino spinse per entrare, la porta non si aprì. Evidentemente era stato messo il paletto interno. E ora? L'uomo intanto era scivolato lungo la parete e aveva ripreso a dormire, seduto per terra. Gino s'accorse di un campanello nel muro allato alla porta. Ma c'era la luce elettrica in quella casa? Gino ne dubitava, comunque provò a suonare. Dovette insistere una diecina di minuti prima che le persiane della finestra del primo piano, che era proprio a perpendicolo sopra la porta, si aprissero un tantino. Gino non riuscì a vedere chi si era affacciato. Dopo altri cinque minuti sentì che il paletto veniva tirato. Ma la porta non gli fu aperta, come sarebbe stato naturale. Allora la spinsè ed entrò. La luce debolissima della stanza nella quale si venne a trovare per un momento non gli permise di vedere niente. Poi gli occhi si abituarono. Era un grande salone d'entrata, sulla parete di fondo si partiva una larga scalinata, dai gradini sbrecciati, che portava ai piani superiori. Nessuna presenza umana, però. Dov'era andata la persona che gli aveva aperto? "C'è qualcuno?" - domandò a voce alta. Una figura femminile apparve in cima alla scalinata. Se gli fosse comparso davanti un angelo con le ali e la tunica candida, Gino probabilmente sarebbe stato meno sorpreso. La ragazza però non aveva niente di angelico. Era una ventenne bellissima, dalle forme perfette, che pareva essersi staccata da un quadro di uno di quei pittori romani che, tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, si facevano venire le modelle da Anticoli Corrado, un paese che produceva in serie splendide donne. Era bruna, i capelli raccolti in due lunghissime trecce le cadevano sulle spalle. Aveva addosso solo una camicia da notte. Gino pensò che probabilmente dormiva nuda e che era andata a indossarla quando aveva capito che qualcuno aveva accompagnato l'ubriaco. "Me lo porti dentro e me lo metti là?" - fece la ragazza indicando l'unico mobile del salone, un divano malandato. Gino uscì e rientrò quasi subito. "Da solo non ce la faccio. Mi sono stancato a trascinarlo fino a qui". Non era vero. Ma voleva sentire la ragazza vicino a lui. Sentirla respirare, sentirne l'odore. Lei scese la scalinata lentamente, guardandolo dritto negli occhi. Era come se avesse capito quello che stava passando per la testa di Gino. Quando gli fu vicino, Gino vide che dentro le pupille nere della ragazza brillavano tanti puntini d'argento, era come contemplare le stelle in una notte senza luna. Inoltre da lei emanava una sorta di leggerissima luminosità della quale Gino non seppe darsene spiegazione. Si riscosse a fatica, uscì. Lui prese l'uomo per le spalle, la ragazza per i piedi. Lo portarono dentro, lo deposero sopra il divano. "Grazie" - disse lei. "È tuo padre?". "Non lo so". Che risposta era? Gino, interdetto, sul momento non seppe che altro domandare. Restarono fermi per un po' a guardarsi. Poi lei chiese: "Come ti chiami?" "Gino. E tu?" "Rosa". Gino non riusciva a staccare gli occhi da lei. Si tratteneva a stento dall'abbracciarla. Mai si era sentito così attratto da una ragazza. In quel momento si rese conto che anche lei non faceva niente, nemmeno un gesto appena accennato, per mandarlo via. Stava davanti a lui immobile, le braccia lungo i fianchi, a piedi scalzi. Attendeva. "Non ho niente da offrirti" - disse a un tratto Rosa - "Solo un bicchiere d'acqua, se vuoi". "Sì, grazie". Avrebbe bevuto anche un bicchiere d'aceto pur di restare ancora un poco con lei. Rosa uscì da una porta laterale. Gino si guardò attorno. Le pareti del salone erano scrostate. Vicino al soffitto gli sembrò di scorgere addirittura delle ragnatele. Lei tornò con un bicchiere pieno d'acqua. L'ubriaco ora russava. "Ma tu che fai durante il giorno?" - le domandò Gino. "Sto qua". "Non esci mai?" "No". "Ma la spesa chi la fa?" "Lui" - rispose Rosa indicando l'uomo sul divano. "Vorrei... vorrei rivederti". Lei lo guardò come se l'osservasse da molto lontano. "Sarà difficile". Gli voltò le spalle, cominciò a salire i primi gradini della scalinata. "Beh... allora io vado" - disse Gino posando il bicchiere per terra. "Se vuoi" - fece lei fermandosi e voltandosi a guardarlo. Gino esitò, non aveva capito il significato di quello che aveva detto Rosa. Che intanto aveva ripreso a salire, lentissima, la scalinata. Gino allora, a forza, mosse verso la porta, uscì, se la chiuse alle spalle. Tornò a piedi a casa, arrivò che era l'alba, nemmeno si mise a letto. Per i due giorni successivi, al Centro, non gli fu possibile concentrarsi su nulla, l'immagine di Rosa gli stava costantemente davanti. La notte, se riusciva a chiudere occhio per qualche ora, se la sognava. Al terzo giorno non andò al Centro, la mattina verso le dieci prese il tram per Monte Mario, arrivò davanti alla villa. Alla luce del giorno appariva di uno squallore insopportabile. Suonò il campanello a lungo, nessuno venne ad aprirgli. Ma se Rosa gli aveva detto che non usciva mai di casa? Decise di restare dentro il giardinetto dove crescevano solo erbe selvatiche per attendere il ritorno dell'uomo che di certo era andato a fare la spesa. Verso le undici una macchina si fermò davanti al cancelletto. Ne scesero un quarantenne molto ben vestito e una trentenne elegantissima. "Desidera?" - gli domandò il signore. "Dovevo dire una cosa al proprietario della..." L'uomo sorrise. "Guardi che il nuovo proprietario sono io. In casa non c'è nessuno. Si sono trasferiti". "Sa dove?" "No, io li ho visti una sola volta in agenzia. Non so nulla di loro. E ora mi scusi". Uscendo dal cancello, Gino si voltò a guardare. L'uomo aveva aperto la porta e invitava la donna, con un mezzo inchino, a entrare in casa. Gino cominciò a camminare con un groppo in gola. Aveva conosciuto la Bellezza, quella vera, quella che a pochi è dato d'incontrare una volta nella vita, e non aveva saputo cogliere l'occasione. Perché la Bellezza è fatta così: ti si offre per un istante, ma se non sei lesto ad acchiapparla, non si fa vedere mai più.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su La Repubblica, ed. di Roma, 28 dicembre 2008)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011