Andrea Camilleri racconta il boss
Il grande scrittore siciliano spiega agli americani chi è Bernardo Provenzano
Dopo ben 43 anni di latitanza, Bernardo Provenzano, ritenuto essere il capo supremo della mafia, il boss dei boss, è stato finalmente catturato. Da anni si sapeva che era ammalato ed era bisognoso di cure. Tanto che il suo ex avvocato difensore dichiarò, meno di un mese fa, che Provenzano era morto e che i suoi "cacciatori" inseguivano un fantasma.
La notizia della sua cattura ha entusiasmato i siciliani onesti (che sono la stragrande maggioranza) e gli italiani tutti che hanno voluto dire il loro grazie ai magistrati, ai carabinieri, alla polizia per il successo ottenuto. Ma premesso questo, sono necessarie alcune considerazioni. Perché 43 anni di latitanza sono tanti, sono troppi per un paese civile. Pesano, e non si possono cancellare con la gioia per il suo arresto. Com' è stato possibile?
Provenzano, soprannominato 'u tratturi perché come un trattore dove arrivava non lasciava nemmeno un filo d'erba alle sue spalle, era un uomo furbo e prudente fino alla monomania, anche se non molto intelligente. Di Provenzano infatti un altro leggendario boss, Luciano Liggio, ebbe a dire che "sparava come un Dio, ma aveva il cervello di una gallina".
Come un povero
Quando l'hanno arrestato, stava nascosto in un disadorno casolare di campagna a due chilometri da Corleone, il paese dove abitano i suoi famigliari. E da sempre, questo lo si sapeva, aveva vissuto così, in stalle, in grotte, in casolari diroccati e solitari, dormendo su giacigli improvvisati.
Ricchissimo, viveva da povero. Potente, viveva come un barbone o quasi. Per lui, più di ogni altra cosa, contava il gusto e il piacere del potere, anche di vita o di morte. Comunicava i suoi ordini (a chi far vincere gli appalti pubblici, per chi votare alle elezioni amministrative e politiche, come comportarsi in certe occasioni) attraverso i "pizzini", foglietti di carta ripiegati più volte che i suoi privati e fidati postini (per lo più contadini incensurati) si passavano di mano in mano facendo loro compiere tortuosi e lunghi giri apparentemente inutili, ma necessari per ridurre al minimo il rischio delle intercettazioni.
Per esempio, un suo pizzino partito dal casolare dove si trovava per arrivare a Corleone, a due chilometri di distanza, impiegò più di 48 ore. Altri impiegarono settimane a raggiungere la loro vicina destinazione. Mai una telefonata. Sempre, in ogni pizzino, c'era un accenno a Dio, alla sua volontà, alla sua protezione.
Sesto senso
Nel suo casolare sono state ritrovate cinque Bibbie, un rosario, diverse immagini di santi, un crocefisso. Molti mafiosi si credono religiosi mentre sono solamente superstiziosi. Se era costretto ad andare a una riunione mafiosa, Provenzano si faceva precedere sempre da qualcun altro. E se un suo sesto senso gli suggeriva di non andare, non si presentava. Ma queste precauzioni possono spiegare 43 anni di latitanza? Sicuramente no.
Dicono che una volta è sfuggito alla cattura perché i contrasti e le rivalità tra le due forze dell'ordine impegnate nella ricerca hanno lasciato scoperti dei varchi. Se questo è vero, sarà accaduto quella sola volta e basta.
La verità è che questa lunghissima latitanza è stata resa possibile dalla vasta, intricata, resistente e invisibile rete di protezione che si era creata attorno a lui. Una rete certamente composta in buona parte da fiancheggiatori insospettabili, tra i quali uomini politici di primo piano, imprenditori di alto livello, professionisti affermati. E siccome nel corso di questi 43 anni molti di coloro che, all'inizio, aiutarono la latitanza di Provenzano devono essere morti di vecchiaia, ne consegue che la protezione del boss è stata lasciata in eredità a figli, nipoti, parenti, amici, soci.
Non sembri un paradosso o un'esagerazione, ma almeno due generazioni d'insospettabili sono stati complici diretti o indiretti di Provenzano. È questa la vastità di solo una parte del male. E non s'azzarda troppo nel ritenere che, oltre a essere insospettabili, alcuni di questi protettori erano (e sono) difficilmente "toccabili" per l'autorità raggiunta nei rispettivi campi. E fino a che questa gente non sarà individuata e arrestata, un altro Provenzano potrà servirsi di loro.
Perché l'arresto di Provenzano non significa la fine della mafia o la sua decapitazione. Da tempo la mafia non è solo (o forse non è più) Provenzano, antiquato custode di un redditizio orticello che i suoi ormai più potenti colleghi mafiosi gli hanno lasciato coltivare finché per l'età e per la malattia non è diventato un peso.
Papabili
C'è in Italia un modo di dire: "Morto un papa, se ne fa un altro". Nella mafia invece il nuovo papa lo si fa già (anche se non viene proclamato ufficialmente) appena il vecchio comincia ad ammalarsi. Corrono due nomi di papi possibili: il primo, quarantatreenne, trapanese, è latitante da 12 anni; il secondo, sessantatreenne, palermitano, da 13. Ci auguriamo di non dovere aspettare altri vent'anni prima che vengano catturati e consegnati alla giustizia.
Andrea Camilleri
Questo articolo è uscito sul New York Times il 21 aprile 2006. Titolo: “Quando un padrino diventa sacrificabile”
(Pubblicato
su Internazionale, 28 aprile 2006)
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