L'affondatore di gommoni
Autore | Francesco De Filippo |
Prezzo | 16,60 Euro |
Pagine | pp. |
Data di pubblicazione | 2003 |
Editore | Mondadori |
Collana |
Andrea Camilleri legge l'ultimo libro di Francesco De Filippo: il giovane Pjota alla conquista di una nuova vita
"L’Affondatore di gommoni", edito da Mondadori, è il secondo romanzo di
Francesco De Filippo, napoletano classe 1960, giornalista dell’Ansa. Il
primo, intitolato "Una storia anche d’amore", era stato pubblicato da
Rizzoli nel 2001: apriva la fortunata collana «Sintonie», dedicata a una
letteratura italiana certamente non usuale, anzi tendente
sostanzialmente alla «stralunatezza», vale a dire a una visione
stravolta della realtà. E il protagonista di quel primo romanzo, Teodoro
Faxa, e la città di fantasia (ma poi non tanta), Maciullina, dove la
vicenda si svolgeva, parvero essere stati confezionati su misura proprio
per gli intenti di quella collana, anche se ciò non era nelle intenzioni
dell’autore e dell’editore.
A prima vista, i due romanzi di De Filippo possono apparire diversissimi
tra di loro. Il primo è scritto tutto in terza persona, il secondo tutto
in prima. Il primo romanzo è ambientato in un luogo immaginario, però
non è difficile individuarvi Napoli (ma se l’autore preferisce darle un
nome diverso avrà le sue buone ragioni), nel secondo romanzo i luoghi si
chiamano col loro nome reale, Durazzo, Valona, Italia, Otranto, Napoli,
Milano. Poi ci sono delle differenze apparenti che a ben vedere però non
sono tali. Principale tra tutte, l’uso del tempo.
In "Una storia anche d’amore" il tempo, pur rigorosamente scandito
(«impiegò undici anni, quattro mesi e ventiquattro giorni per dirgli che
lo amava»), è così dilatato narrativamente da arrivare a una sorta di
a-temporalità; per contro, il giovane protagonista albanese di
"L’Affondatore di gommoni", Pjota Barnovic, è completamente privo del
senso del tempo. Dice di avere, all’inizio del romanzo, «sedici anni
quasi diciassette», forse perché i suoi genitori glielo hanno detto, ma
non sa distinguere se una cosa è accaduta l’anno avanti o trent’anni
prima. Ma questo, dicono i suoi compatrioti, è dovuto al fatto che Pjota
è un genio, sa tutto, ha letto tutto e quindi è naturale che alcune cose
rimangano fuori dalla sua testa, non ci trovano più posto. Infatti Pjota
ha letto fin da piccolo tutto quello che gli capitava tra le mani, anche
in lingue straniere che ha imparato da autodidatta, pure in latino, e
quando il padre ha scoperto questo suo «vizio» da perdigiorno i libri
glieli ha bruciati, ma è stato inutile perché Pjota li ha mandati tutti
a memoria. E ha continuato a raccogliere libri, a leggerli e a
nasconderli in una grotta segreta. Ma è un genio anche per altre cose.
«Conosco tutte le onde, i venti, la costa, le profondità, so navigare
con le stelle ma preferisco la strumentazione di bordo, bussola, sonar,
scandaglio, e so pilotare il gommone, il cabinato, il gozzo, il
peschereccio e barche più grandi, entrobordo e fuoribordo e poi conosco
i motori»... Così si autopresenta a un boss della malavita, Razy, che
prima di prenderlo nella sua banda lo fa sottoporre a un crudele rito
d’iniziazione, detto della «merda nera» (sono pagine atroci e
felicissime). In breve Pjota conquista la fiducia di Razy. Che talvolta
se lo porta a letto. Del resto, anche il padre e il fratello maggiore di
Pjota hanno abusato di lui. Mi accorgo di usare un verbo sbagliato,
abusare, perché Pjota non lo considera un abuso, ma un fatto naturale
che può capitare, una faccenda virile, tra uomini. Del resto, in tutto
il romanzo di De Filippo, non c’è mai una presa di posizione
moralistica, l’autore si limita a raccontare fatti, semmai spetta al
lettore trarre, se vuole, delle conclusioni. E non è merito da poco.
Solo Pjota conosce le coordinate di un luogo segreto del mare, molto al
largo, una secca sulla quale Razy gli farà affondare di volta in volta
dei gommoni nei quali sono nascosti sacchetti ben sigillati di droga. Un
enorme tesoro in fondo al mare. Sennonché, a ogni viaggio, Pjota riesce
a risparmiare il carburante che gli viene dato, e che è appena bastevole
per andare ad affondare il gommone e tornare: lo nasconde in tante
tanichette che cala sopra un’altra secca poco distante. Perché Pjota non
ha che un sogno: scappare in Italia. E in Italia infatti arriva, salvato
in mare dai militari italiani, mentre Razy lo insegue intuendone il
tradimento.
Qui finisce la prima parte del romanzo, il cosiddetto «diario di Pjota»:
certamente la più suggestiva perché De Filippo riesce a rappresentare,
con grande abilità narrativa, un mondo certo reale ma con tratti quasi
favolistici, ancora governato da regole primitive e tribali, violento e
spietato ma anche, a modo suo, generoso e aperto. Il rischio era che la
seconda parte, quella che racconta la vita in Italia di Pjota, dovendo
di necessità riferirsi a delle situazioni delle quali quotidianamente
giornali e televisioni ci parlano, scadesse nell’andamento
cronachistico. De Filippo evita brillantemente questo pericolo. Bastano
a dimostrarlo le splendide pagine dell’arrivo di Pjota a Napoli. Pur
nella narrazione di ogni possibile degrado sociale, prostituzione
femminile e maschile, spaccio e perfino omicidio, il fascino del
racconto consiste nel fatto che l’autore vede e ci fa vedere tutto
attraverso lo sguardo incantato e persino incredibilmente ancora candido
di Pjota. Nei cinque anni che resta in Italia da clandestino, il sogno
di Pjota di diventare italiano non si realizzerà. Ma egli raggiungerà
una sorta di paradossale maturazione quando compirà due gesti dei quali
forse non si riteneva capace. Il primo gesto: uccidere un uomo non per
denaro o per rivalità tra bande, ma per vendicare la morte di una
giovanissima prostituta, Blerina, della quale si era innamorato. Il
secondo: regalare, per pura generosità, una grossa somma e un biglietto
aereo per il Canada a una ragazza che non vuole prostituirsi. Quando
ritorna in Albania apprende di essere ricordato come una leggenda e in
quella leggenda egli finalmente si annulla in una sorta di deflagrazione
mentale, diventando quello che forse avrebbe dovuto e voluto essere: un
pastore semianalfabeta. Attenzione, però: "L’Affondatore di gommoni" non
è un romanzo sull’immigrazione o dell’immigrazione, semmai è un romanzo
nell’immigrazione. Voglio dire che l’immigrazione clandestina qui va
considerata per quello che è: il contesto eccezionale per un personaggio
d’eccezione. Perché in conclusione questo romanzo a me è parso una
bella, affascinante, crudelissima e terribile favola dei nostri tempi.
Come una favola era, più scopertamente, "Una storia anche d’amore".
Andrea Camilleri
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Last modified
Wednesday, July, 13, 2011
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