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Guardie e ladri

Dieci avventure del commissario Montalbano



Autore Andrea Camilleri
Curatori Giordano Meacci, Marta Vesco
Illustrazioni e copertina Luigi Ricca
Prezzo € 15,00
Pagine 296
Data di pubblicazione 8 aprile 2025
Editore Sellerio
Collana La memoria dei ragazzi, n.2
e-book € 10,99 (formato epub, protezione acs4)


Per lettori dai 9 anni in su

«Montalbano sono!». Ma chi è il commissario Montalbano? Dieci avventure, dieci racconti: storie curiose e bizzarre per scoprire il meraviglioso mondo di un detective che riesce, sempre, a essere bambino tra gli adulti e adulto tra i bambini.

Quali presenze si aggirano di notte per la villa della maestra Antonietta? E cosa nasconde la casetta in rovina del giornalista Nicolò Zito?
Dieci casi, dieci avventure del commissario Montalbano, curioso e capriccioso come il migliore dei detective. Dieci racconti dove gatti e cardellini partecipano alle indagini, tra banditi sbadati e poliziotti derubati, dove gentili signore dagli occhi fosforescenti vagano sotto le stelle e un ladro gentiluomo custodisce un mazzo di chiavi che può aprire segreti universali…
Dieci avventure dove i piani tortuosi dei criminali si scontrano con l’intelligenza e l’istinto del commissario Montalbano, mentre le guardie e i ladri si fronteggiano, si inseguono, si scontrano: ma qualche volta si scambiano i ruoli e, guardandosi allo specchio, si riconoscono per la prima volta.

Guardie e ladri
Gli arancini di Montalbano
Il patto
Miracoli di Trieste
Pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili
Cinquanta paia di scarpe chiodate
Il gatto e il cardellino
Un cappello pieno di pioggia
L'odore del diavolo
Il ladro onesto
 

Ma cosa c’è di più bello, per un bambino, che giocare a «guardie e ladri» con un adulto che fa veramente il poliziotto? Il commissario Montalbano Qui, seguendo il suo destino, si trova a giocare anche quando fa il suo dovere. E viceversa.

Taninè, la mogliere del giornalista televisivo Nicolò Zito, uno dei pochi amici del commissario Montalbano, era una fìmmina che cucinava a vento, vale a dire che i piatti che approntava davanti ai fornelli non obbedivano a precise regole di cucina, ma erano il risultato più improvvisato del suo mutevole carattere.

«Oggi t’avrei volentieri invitato a casa a mangiare da noi» aveva qualche volta detto Nicolò a Montalbano «ma purtroppo mi pare che non è cosa». Stava a significare che un filo di paglia era andato di traverso a Taninè, per cui pasta scotta (o cruda), carne dissapita (o salata sino all’amaro), sugo al quale erano preferibili tre anni di cui uno in isolamento. Ma invece quando le spirciàva, quando tutto era andato per il suo verso, che lume di paradiso!

Era una bella fìmmina trentina, di carni sode e piene che ispiravano agli òmini pensieri volgarmente terrestri: ebbene, un giorno che Taninè l’aveva invitato a tenerle compagnia in cucina, dove mai ammetteva strànei, Montalbano aveva visto, strammato, la donna che preparava il condimento per la pasta ’ncasciata perdere peso, cangiarsi in una specie di ballerina che assorta si librava con gesti aerei da un fornello all’altro. Per la prima e ultima volta, taliàndola, aveva pinsato agli angeli. «Speriamo che Taninè non mi guasti questa giornata» si augurò il commissario mentre guidava verso Cannatello. Perché in quanto a salti d’umore manco lui scherzava. La prima cosa che la matina faceva, appena susùto, era di andare alla finestra a taliàre il cielo e il mare che aveva a due passi da casa: se i colori erano vividi e chiari, tale e quale il suo comportamento di quel giorno; in caso contrario le cose si sarebbero messe male per lui e per tutti quelli che gli fossero venuti a tiro.

Ogni seconda domenica d’aprile Nicolò, Taninè e il loro figlio màscolo Francesco, che aveva sette anni, raprivano ufficialmente la casa di campagna a Cannatello ereditata dal patre di Nicolò. Ed era diventata tradizione che il primo ospite fosse Salvo Montalbano.

Per andarci, il commissario affrontava trazzere, mulattiere, polverosi viottoli che gli imbiancavano la macchina invece di pigliare la comoda scorrimento veloce che l’avrebbe lasciato a due chilometri da Cannatello. Approfittava dell’occasione per ricrearsi una Sicilia sparita, dura e aspra, una riarsa distesa giallo paglia interrotta di tanto in tanto dai dadi bianchi delle casuzze dei contadini. Cannatello era terra mallìtta, qualsiasi cosa le si seminasse o le si piantasse non attecchiva, davano breve respiro di verde solo macchie di saggina, di cocomerelli servatici e di capperi. Era terreno di caccia, questo sì, e ogni tanto da darrè un cespuglio di saggina schizzava velocissima qualche lepre. Arrivò che era quasi l’ora di mangiare, il profumo dei dodici cannoli giganti che aveva accattato inondava l’abitacolo e gli faceva smorcare l’appetito.

Ad aspettarlo sulla porta erano al completo: Nicolò sorridente, Francesco impaziente e Taninè con gli occhi sparluccicanti di contentezza. Montalbano si rasserenò, forse la giornata sarebbe stata cosa degna d’essere vissuta, così come era principiata. Francesco manco gli diede tempo di scendere dalla macchina, gli si mise a saltellare torno torno: «Giochiamo a guardie e ladri?».
Suo patre lo rimproverò. «Non l’assillare! Giocherai doppo mangiato!». Quel giorno Taninè aveva deciso d’esibirsi in un piatto strepitoso che, chissà perché, si chiamava «malalìa d’amuri». Chissà perché: infatti non c’era possibilità che quella zuppa di maiale (polmone, fegato, milza e carne magra), da mangiarsi con fette di pan tostato, avesse attinenza col mal d’amore, semmai col mal di panza.

Se la scialarono in assoluto silenzio; persino Francesco, ch’era tanticchia squieto di natura, questa volta non si cataminò, perso nel paradiso dei sapori che sua matre aveva strumentiato.

«Giochiamo a guardie e ladri?». La domanda arrivò, inevitabile e pressante, appena che i tre grandi ebbero terminato di bere il caffè.

Montalbano taliò l’amico Nicolò e con gli occhi gli spiò soccorso, ora come ora non ce l’avrebbe fatta a mettersi a correre appresso al picciliddro.
«Zio Salvo va a farsi una dormitina. Doppo giocate».
«Guarda» fece Montalbano vedendo che il piccolo si era ammussato «facciamo così: tra un’ora precisa mi vieni a svegliare tu stesso e ci resta tutto il tempo per giocare».

Nicolò Zito ricevette una telefonata che lo costringeva a ritornare a Montelusa per un servizio televisivo urgente, Montalbano, prima di ritirarsi nella càmmara degli ospiti, assicurò all’amico che avrebbe riportato lui in paese Taninè e il figlio.

Fece appena in tempo a spogliarsi, gli occhi a pampineddra, e a distendersi che crollò in un sonno piombigno.

Gli parse che aveva allùra allùra chiuso gli occhi quando venne arrisbigliàto da Francesco che gli scuoteva un braccio dicendogli:
«Zio Salvo, un’ora precisa passò. Il cafè ti portai».
Nicolò era partito, Taninè aveva rimesso la casa in ordine e ora stava a leggere una rivista assittata su una seggia a dondolo. Francesco era sparito, corso già a nascondersi campagna campagna.

Montalbano raprì la macchina, pigliò un vecchio impermeabile che teneva per ogni evenienza nel vano posteriore, l’indossò, strinse la cintura, alzò il bavero nel tentativo d’assomigliare a un investigatore dei film americani, e si avviò alla ricerca del picciliddro. Francesco, abilissimo nel nascondersi, se la godeva a fingere d’essere un ladro ricercato da un «vero» commissario.

La casa di Nicolò sorgeva in mezzo a due ettari di terreno incolto che a Montalbano faceva malinconia anche perché, al limite della proprietà, c’era una casuzza sdirrupata, con mezzo tetto sfondato, che sottolineava lo stato d’abbandono della terra. Si vede che le lontane origini contadine del commissario si ribellavano a quella trascuratezza.

Montalbano cercò Francesco per mezz’ora, poi cominciò a sentirsi stanco, la zuppa di maiale e due cannoli giganti lasciavano ancora il segno, era sicuro che il piccolo stava disteso a pancia in giù darrè una troffa di saggina e lo spiava, emozionato e attento. La diabolica capacità di nascondersi del ragazzino gli avrebbe fatto fare notte.

Decise di dichiararsi vinto, gridandolo a voce alta. Francesco sarebbe sbucato da qualche parte e avrebbe preteso l’immediato pagamento del pegno, consistente nel racconto, debitamente infiocchettato, di una delle sue indagini. Il commissario aveva notato che quelle che s’inventava di sana pianta con morti,feriti e sparatorie erano quelle che più piacevano al picciliddro.

Mentre stava per dichiararsi sconfitto, gli venne un pinsèro improvviso: vuoi vedere che il piccolo era andato ad ammucciarsi dentro la casuzza sdirrupata malgrado i severissimi ordini che aveva avuto da Taninè e da Nicolò di non entrarci mai da solo?

Si mise a correre, arrivò col fiatone davanti alla casuzza, la porticina sgangherata era solo accostata. Il commissario la spalancò con un calcio, fece un balzo indietro e, infilata la mano destra in tasca con l’indice minacciosamente puntato, disse con voce bassa e rauca, terribilmente minacciosa (quella voce faceva nitrire di gioia Francesco):

«Il commissario Montalbano sono. Conto sino a tre. Se non vieni fuori, sparo. Uno...».

Un’ombra si mosse all’interno della casuzza e, sotto gli occhi sbarracati del commissario, spuntò un omo, le mani in alto.

«Non sparare, sbirro».

«Sei armato?» spiò Montalbano dominando la sorpresa.

«Sì» rispose l’omo e fece per abbassare una mano per pigliare l’arma che teneva nella sacchetta destra della giacca. Il commissario s’addunò ch’era pericolosamente sformata.

«Non ti muovere o ti brucio» intimò Montalbano tendendo minacciosamente l’indice.
L’omo rialzò il braccio.

Aveva occhi di cane arraggiato, un’ariata di disperazione pronta a tutto, la barba lunga, il vestito stazzonato e lordo. Un omo pericoloso, certo, ma chi cavolo era?

«Vai avanti, verso quella casa».

L’omo si mosse con Montalbano darrè. Arrivato allo spiazzo dove c’era posteggiata la sua macchina,il commissario vide sbucare da dietro l’auto Francesco che taliò la scena eccitatissimo.

«Mamà! Mamà!» si mise a chiamare.

Taninè, affacciatasi alla porta spaventata dalla voce stracangiata del figlio, con una sola taliàta s’intese col commissario. Rientrò e subito riapparve puntando un fucile da caccia sullo sconosciuto. Era una doppietta appartenuta al patre di Nicolò che il giornalista teneva appesa, scarica, vicino all’ingresso; mai Nicolò aveva coscientemente ammazzato un essere vivente, la mogliere diceva che non si curava l’influenza per non uccidere i bacilli.

Tutto sudato, il commissario raprì l’auto e dal cruscotto tirò fora pistola e manette. Respirò profondamente e taliò la scena. L’omo stava immobile sotto la ferma punterìa di Taninè che, bruna, bella, capelli al vento, pareva precisa precisa un’eroina da film western.

(testo pubblicato su la Lettura - Corriere della Sera, 27.3.2025)



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