Introduzione
Nella prefazione-dedica a Carlo V, Imperatore e Re di Spagna e Sicilia, della sua compendiosa e affascinante
“Storia della Sicilia”, l’autore Tommaso Fazello, “maestro in divinità dell’ordine dei predicatori”, scriveva che il suo
intento principale era stato quello di riportare alla luce della memoria “molte castella e città grandissime sepolte con
l’aratro sotto rovine e sotto il disfacimento delle fabbriche”. Città e castella scomparse non solo per l’inesorabile
trascorrere dei secoli, per i rivolgimenti tellurici, per i sostanziali mutamenti politici e socioeconomici, ma anche e
soprattutto, sottolineava Fazello (ed eravamo nella prima metà del cinquecento!) perché coperte dai “folti cespugli
che erano degli occhi e degli animi de’ nostri tempi”. E’ una gran bella metafora, questa dei cespugli mentali che non
permettono di guardare indietro, impedendo così la risalita lungo il percorso della Storia. E c’è semmai da aggiungere
che quelli che nel cinquecento erano solo cespugli, ai giorni nostri sono diventati addirittura una fitta foresta tropicale.
Ma perché l’autore, che orgogliosamente firma la sua opera in due deche, “Tommaso Fazello siciliano”, vuole riportare
alla memoria le città e le castella di un tempo?
Solo per un gusto, come dire, archeologico? Il vero scopo egli lo dichiara più o meno apertamente lungo tutta la
“Storia”, ed è quello di rappresentare come si possa esser siciliani, come l’appartenenza sia certo un preciso giro del
sangue, ma anche e soprattutto consista nel cercare e ritrovare una comune radice, come diremmo oggi. Ora mi pare
che questo libro di Fabio Granata, “L’identità ritrovata”, si muova con lo stesso nobile intento di Fazello, sia pure
limitandolo geograficamente a una sola parte della Sicilia, quella che egli chiama del SudEst, vale a dire i luoghi
conosciuti coi nomi di Caltagirone, Catania, Militello Val di Catania, Modica, Noto, Palazzolo Acreide, Ragusa,
Scicli, Siracusa e Pantalica. Questa selezione l’autore la fa a ragion veduta, perché muove dal riconoscimento da
parte del Comitato Scientifico Internazionale dell’Unesco che, nel giugno del 2002, inserì le “Città tardo barocche
della Val di Noto” nella World Heritage list, riconoscimento per il quale lo stesso Fabio Granata, all’epoca Assessore
regionale ai Beni culturali e ambientali, si era a lungo, e con successo, battuto.
Questo riconoscimento, scrive Granata, era di fondamentale importanza, perché “offriva ad un’area geografica
particolarmente significativa l’opportunità di ripensare il proprio futuro partendo dalla identità e dalla consapevolezza
culturale”. Questo riappropriarsi del proprio passato come elemento costitutivo indispensabile ai fini della definizione
di una identità è l’unico modo intelligente per costruire non solo una solida piattaforma dalla quale potersi proiettare
per organizzare uno sviluppo futuro, ma per stabilire anche e soprattutto quella comune matrice nella quale tutti possano
continuare a riconoscersi in un’unica, e nello stesso tempo molteplice, volontà di propositi e di intenti. “L’identità
ritrovata”, che giustamente spazia da Dioniso e la produzione del vino alle meraviglie del barocco, non è solo un libro
pervaso da una fervida passione politica e civile. E’ anche una sorta di prezioso manifesto culturale che non proclama
astratte aspirazioni, ma solidamente e concretamente si richiama, senza vane ostentazioni, ai principi che hanno ispirato
e guidato l’operato dell’autore in quanto Assessore regionale (e io personalmente, non finirò mai di ringraziarlo per
come si è prodigato per la riapertura del Teatro Regina Margherita di Racalmuto che fu tanto caro a Leonardo
Sciascia). Scrive Granata che, col sapiente utilizzo dei Fondi Comunitari, si è resa possibile “la più grande operazione
di recupero, valorizzazione e modernizzazione del settore dei beni culturali mai avvenuta in un’area territoriale
circoscritta”. Si tratta perciò di un grande esempio. Di come cioè un’amministrazione soprattutto onesta e intelligente,
guidata da illuminati intenti, sappia utilizzare la memoria storica come linfa vitale per il futuro. Quanti saranno a seguirlo?
Andrea Camilleri
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