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Il nome delle parole



Autore Guglielmo Petroni
Prezzo E 12,00
Pagine p. 176
Data di pubblicazione 3 novembre 2011
Editore Sellerio
Collana La memoria


A cura di Salvatore Silvano Nigro

Con un ricordo di Andrea Camilleri

Una autobiografia esemplare ed essenziale, un racconto che va dalla prima infanzia agli anni dell’affermazione e mette a nudo la parte segreta di uno scrittore di grande sensibilità; un’esperienza che conserva un pezzo significativo del Novecento italiano dal fascismo al dopoguerra.
Scrive Andrea Camilleri nella Nota a questo volume: «Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo era stato La condizione umana di Malraux, il secondo indubbiamente fu Il mondo è una prigione» di Guglielmo Petroni. Fu, dunque, Petroni uno dei protagonisti della cultura italiana del secondo Novecento, come poeta, come narratore e anche come organizzatore (essendo tra i creatori del terzo programma radiofonico). Il nome delle parole è il libro autobiografico dal quale traspare un desiderio di sintesi, di bilancio: quasi un giustificare la scelta di dedicarsi, lui di famiglia povera, bambino autodidatta, alla cultura; scelta sentita simile a una sorta di tradimento del destino di nascita suo e di quelli come lui di non potersi esprimere. Un racconto che va dalla «casa povera» alla «casa giusta», cioè dalla prima infanzia agli anni dell’affermazione. Scandito in tre tempi. Il tempo dell’infanzia, in cui un essere sensibile alla bellezza apre gli occhi dentro «una vita povera che non conosce il nome dei colori e nemmeno quello delle parole». Il tempo dell’adolescenza, in cui per caso Guglielmo s’incontra con l’arte e l’arte gli trasmette il bisogno imperioso «di impossessarsi delle parole necessarie per adeguarsi agli oscuri sovvertimenti che le nuove immagini avevano provocato nel mio povero spazio spirituale»: un bisogno di lettura di poesia e di scrittura. Il tempo infine della giovinezza e della maturità quando «scoprivo che gli idoli potevo sistemarli tranquillamente nel mio quotidiano»: e gli idoli sono le amicizie e gli scambi memorabili, ai tavoli del «Quarto Platano» a Forte dei Marmi, delle «Giubbe Rosse» a Firenze o del «Caffè Aragno» a Roma in un archivio di incontri alla pari con tutti, davvero tutti, i grandi della cultura italiana del dopoguerra. Il nome delle parole è un’autobiografia scritta sul finire della vita, e dell’autobiografia conserva il timbro di verità di un’esperienza che conserva un pezzo significativo del Novecento italiano dal fascismo al dopoguerra. Ma è anche il racconto di uno scrittore di grande sensibilità e capace di trasmettere immagini che si stampano nella mente. E la verità diventa opera d’arte, cioè il rispecchiarsi nella storia di un singolo dell’esperienza universale. Solo un bambino del Novecento poteva sentire così fortemente la miseria come essenzialmente privazione di parola, così come solo un adolescente di quel secolo appena scorso poteva vivere l’incontro con la cultura come sconvolgente, irripetibile, antiretorico, incontro con la libertà.

Guglielmo Petroni (1911-1993), poeta, saggista, scrittore di racconti e romanzi, vinse il Premio Strega nel 1964 e, con Il nome delle parole, Il Premio Selezione Campiello (1984), collaborò a riviste letterarie dagli anni Trenta. Imprigionato in via Tasso e condannato a morte, dopo la Liberazione lavorò come giornalista alla radio RAI.


Ritratto del poeta da eroe

Verso la metà del 1942 (posso sbagliarmi, ma di poco, sulle date), un mio parente che abitava a Roma, lavorava alla segreteria dell'Accademia d'Italia ed era un gerarca fascista, saputo che scrivevo poesie, m'invitò a inviargliele.
Mi mandò, poco dopo, una lettera per dirmi che le aveva molto apprezzate «anche se lontane dallo spirito eroico dei nostri tempi», e che le avrebbe fatte leggere a qualcuno che se ne intendeva. Pensai che si sarebbe rivolto a un critico o a un poeta vero, invece non fu così.
Passato un po' di tempo, ricevetti una lettera inaspettata. Era firmata nientemeno che da Fernando Mezzasoma, allora sottosegretario del Minculpop, e mi comunicava d'aver dato tre mie poesie alla rivista «La Ruota» che le avrebbe pubblicate al più presto. Seguivano i saluti fascisti e l'immancabile «Vincere!» impresso con un timbro a stampatello.
Devo dire che, per mia fortuna o sfortuna non so, la rivista da lì a qualche mese cessò le pubblicazioni senza avere stampato le mie poesie. Ma la vergogna di essere stato imposto d'autorità da un gerarca fascista come poeta durò a lungo dentro di me.
«La Ruota» la conoscevo bene, la leggevo sistematicamente, era forse la più vivace e polemica e meno ossequiente al regime tra le riviste letterarie d'allora. Guglielmo Petroni non ne era il direttore, ma risultava evidente dai suoi scritti e dalle note che ne era magna pars. Doveva essere una specie di redattore capo. Di certo le mie poesie erano passate dalle sue mani.
Poi, finita la guerra, Alba de Céspedes pubblicò nel 1945 su «Mercurio» una mia poesia. Gliel'avevo inviata senza nessuna speranza. Ne provai un'emozione piacevolissima, subito annullata dal fatto che nello stesso numero c'era uno scritto di Petroni.
«Speriamo non si ricordi di me» mi augurai.
La vergogna continuava a cuocermi dentro.
Mi dissi: «Si chiederà di certo da quale potente democristiano mi sono fatto imporre, stavolta».
Poi, in un numero di «Botteghe Oscure», diretta da Bassani, lessi Il mondo è una prigione.
Ne rimasi preso e addirittura sconvolto. Quel racconto lo rilessi più volte di seguito. La statura morale di Petroni giganteggiò.
Il suo eroismo, la parola è quella giusta ma lui non l'avrebbe mai pronunziata, che gli aveva dato la forza di resistere alle torture senza tradire i compagni di lotta si fondava soprattutto sul rispetto di sé, del suo essere uomo. Prima ancora che un libro sulla Resistenza, era un'altissima lezione di dignità. De dignitate hominis.
Nella mia vita ci sono stati due libri che mi hanno formato non come scrittore, ma come persona. Il primo, in ordine di tempo, era stato, ancora negli anni del fascismo, La condizione umana di Malraux; il secondo indubbiamente fu Il mondo è una prigione.
Una sera, da tempo ormai vivevo a Roma, mentre mi trovavo a casa di Nicolò Gallo, arrivò un signore al quale Nicolò mi presentò.
«Questo è il mio amico poeta Andrea Camilleri e questo è Guglielmo Petroni».
Avrei voluto morire sul colpo. Era un uomo dal sorriso dolcissimo e mite, lo sguardo sereno. Ma per un attimo, a me sembrò che avesse assunto le fattezze del Grande Inquisitore.
Petroni intanto mi guardava socchiudendo gli occhi, come frugando nella memoria. Tremai.
«Bella la tua poesia su "Mercurio"» disse infine.
E poi continuò, ricordandosi: «Ma ne avevo lette altre, tempo fa».
Fece una pausa, aggiunse: «Anche quelle mi erano piaciute».
Non disse dove e quando le aveva lette. Io gli avrei baciato le mani.
Ebbi modo così di conoscere anche la sua generosità.
Diventammo amici, divennero amiche anche le nostre mogli. Cominciammo a frequentarci. Credo provassimo una pudica simpatia reciproca. Un'estate andammo assieme in vacanza in alta montagna. Lì ero come un pesce fuor d'acqua e mi rifugiai nella sua frequentazione quotidiana.
Ebbi modo di stimarlo sempre di più, come scrittore e come uomo.
Non lo sentii mai vantarsi anche minimamente di qualcosa di meritevole che aveva fatto.
Io ero curioso di lui, mi chiedevo come fosse riuscito da povero semianalfabeta com'era stato, a diventare uno scrittore della sua grandezza. Ma ogni volta che toccavo questo argomento, ottenevo risposte vaghe. Non gli piaceva parlare di sé.
Una volta, nel corso di quella vacanza, mi disse di via Tasso. Raccontava con un tono di voce piatto, oggettivo, quasi che la vicenda riguardasse un'altra persona. E fu un'altra lezione di vita.
In una sola occasione si mostrò un po' risentito con me. Avevo scritto il mio primo romanzo e l'avevo dato a leggere a un'unica persona, a quel critico cortese ma ferreo che era Nicolò Gallo. Qualche tempo dopo, eravamo a cena insieme, Memo a un tratto mi guardò con durezza.
«Nicolò mi ha detto che hai scritto un buon romanzo. Perché non l'hai fatto leggere anche a me? Non siamo amici?». Non mi diede il tempo di trovare una risposta, parlò subito d'altro perché, nella sua grande gentilezza d'animo, aveva capito il mio estremo imbarazzo. Come avrei fatto a dirgli che mai avrei osato far leggere il mio primo, incerto, romanzo all'autore de Il mondo è una prigione? Sarebbe stato come scrivere a quindici anni la prima poesia d'amore e mandarla a Montale per un giudizio.
Poi, molti anni dopo, quando partecipai al Premio Strega, presi solo cinque voti. Ma uno, quello che per me contò quanto vincere il premio, era di Guglielmo Petroni.
Mi scuso se ho dovuto parlare di me. Ma l'amicizia nasce e vive tra due persone. Io ho raccontato quello che lui rappresentò per me. E di cui gli sarò sempre grato.

Andrea Camilleri

(Pubblicato sul Corriere della Sera del 29.10.2011)



Last modified Monday, October, 31, 2011