Caterino Zappalà ha una dote rarissima: possiede il palato assoluto. Di ogni alimento che mette in bocca
capisce pure da quanti giorni è stato preparato. Una rovina per i ristoranti, come anche una fortuna. Tutti lo
vogliono e tutti lo temono. Ma lui ha altri progetti. Un romanzo pieno di verve e di arguzia, in siciliano stretto.
Prefazione di Gianni Bonina
Con un'intervista ad Andrea Camilleri
In anteprima su Affaritaliani.it l'incipit del primo capitolo
La vita di uomo che pensa a tutti i costi come diventare comune mentre la sua dote naturale lo rende sempre più straordinario (il suo palato assoluto è un mezzo per fare soldi e per arricchire gli altri, mafia compresa). Caterino Zappalà vuole sposare Annarosa, diventare ingegnere, avere una vita ordinaria. Ma non può: il suo palato assoluto è un mezzo per fare soldi e per arricchire gli altri, mafia compresa. Siccome riesce a distinguire anche la data a cui risalgono gli ingredienti di ogni pasto, è un assaggiatore che può rovinare un ristorante come fare la sua fortuna. Dipende dal suo giudizio. Un responso naturale: perché se mangia qualcosa di guasto o non assolutamente genuino sta male. Come fa allora a dare un giudizio positivo a un menu da vomito? Prende una pillola che gli attenua le conseguenze e che può fare apparire buono ciò che è cattivo. Il business è pronto e diventa planetario. Ma Caterino fa soldi mentre pensa ad Annarosa che lo pianta perché vuole un uomo e non un mostro. Un racconto di un Camilleri in vena di ridere sopra i paradossi ma che schiude argomenti al tema perenne se valga di più essere o avere, se conta per un uomo ciò che è o ciò che vorrebbe essere...
Fino all’età di cinco anni, era nasciuto nel misi di marzo del 1937, Caterino Zappalà fu un picciliddro normali che aviva accomenzato a parlari al tempo giusto, che non faciva crapicci chiossà di quanto ne facivano l’altri picciliddri, che mangiava, dormiva, chiangiva e arridiva priciso ‘ntifico ai sò coetanei.
Sò matre, la signura Ernestina, che aviva sulo quel figlio, faciva miracoli per dargli da mangiari sempri robba bona e sana, dato che, essenno scoppiata la guerra nel 1940, i geniri limintari avivano accomenzato a scarsiare e spisso nei negozi vinnivano cose fituse come se erano ginuine.
Il patre di Caterino, il cavaleri Artidoro, era raggiuneri capo del municipio e se la passava bona. Oltretutto aviva ereditato ‘na casuzza ‘n campagna con tanticchia di terra torno torno e si era fatto un orto che a quei tempi era ‘na ricchizza. E oltre all’orto, tiniva macari gaddrine e conigli.
Quanno Caterino fici cinco anni, il cavaleri Artidoro d’accordo con la mogliere Ernestina, mannò il figlio alla primina, la scola priparatoria all’elementari che le tri sorelle Catapano, Ersilia, Giustina e Fernanda, tinivano nella loro casa.
Il primo jorno che Caterino arrivò con la merendina che gli aviva dato sò matre, la maestra Ersilia gli disse che nella loro scola era proibbito portarisi la merendina da casa e che avrebbiro dovuto mangiare quello che priparava sò soro, la maestra Giustina. E che sinni stassero tutti tranquilli, pirchì quello che avrebbiro mangiato, e naturalmenti pagato a parti, non era robba accattata nelle putìe, come per esempio la mortadella che non si sapiva se era fatta con carne di sorci, ma era tutta prodotta dagli armali di propietà di un loro cugino.
Quel primo jorno, alle unnici, la maestra Giustina portò ai picciliddri un panino e un ovo sodo a testa. Appena Caterino ebbi dato un muzzicone all’ovo, lo risputò.
“Che c’è?”
“Non mi piaci”.
“Pirchì?”
“Non è frisco”.
“Ma se l’hanno portati stamatina!”
“’St’ovo havi tri jorni”.
(Affaritaliani.it, 28.7.2010)
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