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I luoghi della memoria


Il giorno della festa di san Calò

Sono nato a Porto Empedocle settantasei anni fa.
Devo dire che prima di me i miei genitori avevano avuto due figli e tutti e due erano morti. La prima era una bambina e morì a due anni, 1'altro un maschietto che morì a sei mesi.
Allora la mortalità infantile era vastissima come fenomeno. E così mamma, quando restò incinta per la terza volta, promise che, se fosse nato un maschio (allora non si conosceva il sesso del nascituro, come oggi) lo avrebbe votato a san Calogero, la cui festa cade la prima domenica di settembre ed è una festa molto sentita dagli empedoclini e, in genere, nella zona meridionale della Sicilia, fino a Sciacca. Diciamo che ogni paese della costa o del suo entroterra ha un particolare san Calò, che è un santo nero.
Io sono nato con qualche anticipo sul tempo previ­sto, esattamente il 6 settembre del 1925, che era la prima domenica di settembre, giorno della festa del santo. Alle ore tredici esatte, nel preciso momento in cui il santo usciva dalla Chiesa, io venivo alla luce. Allora la levatrice mi ha esposto, così com'ero appe­na nato, al santo che passava di corsa, perché è un santo che corre. Diciamo che io ora, da sempre, dal­l'età della ragione, ho un paradiso deserto di santi, privo di tutto. C'è solo san Calogero al quale sono legatissimo, al quale ogni anno faccio la mia offerta. Se guardate bene, troverete immagini e statuine in questa mia casa, a cominciare da questo studio.
Credo che il mio legame con san Calogero, un santo che mi sta enormemente simpatico e del quale ho narrato la festa nel mio primo romanzo Il corso delle cose, rimarrà fino a quando camperò.


La pensione Eva

Non finirò di essere grato ai miei compagni delle scuole elementari perché mi hanno insegnato tante co­se. Sul sesso, per esempio. Mi spiegarono tutto per be­ne, anche se io rimasi molto confuso… Non capivo che cosa era questa faccenda... Mi spiegarono che c'era una casa che si chiamava "Pensione Eva" che, in real­tà, era una "casa chiusa". E mi affascinava perché era una casa pulitissima, a due piani, con le finestre verdi sempre chiuse...
In questa pensione di giorno non vedevo mai entra­re nessuno e si animava solo la sera. Un compagno mi diede qualche spiegazione ed io non ne capii una cosa sola. E un giorno passando con mio padre dinanzi alla pensione chiesi: "Papà, ma è vero che qui si affittano donne nude?". E mio padre rispose: si. Chiesi ancora: "e che se ne fanno?". E mio padre: "Se le guardano".
E questo lo capii benissimo perché era tanta la voglia di guardare sotto alle gonne delle cuginette e delle femminucce, e capivo che doveva esserci una casa dove si andava a guardare sotto alle gonne. Quel­lo della pensione Eva è un ricordo vivissimo che ho.


Il terrore del figlio scambiato

Insomma, andò a finire che al ginnasio diventai co­sì delinquente che i miei genitori iniziarono a farmi intendere, recitando, che in realtà ero un figlio cam­biato, figlio di carrettiere, di persona incivile, e che il loro figlio era stato scambiato. La cosa mi terrorizzò e credo che il mio romanzo Il figlio cambiato sia nato da questo mio lontano trauma.
Ad un certo punto, dovettero prendere un severo provvedimento e mi misero nel convitto vescovile di Agrigento, dove i pianti... madonna mia! Perché dalle finestre della camerata si vedevano le luci di Porto Empedocle, sul mare. E quando io capii che in realtà i preti mi stavano alterando il carattere, feci in modo di essere cacciato dal convitto. E così tirai un uovo da cuocere, che mia madre mi mandava, contro il croce­fisso. Venni assaltato prima ancora che dai preti, dai miei compagni per un atto di blasfemia che tuttora, pur dichiarandomi non credente, mi procura dei brivi­di notturni. Fu un gesto per il quale dovevo essere cacciato fuori, e così è stato. Credo che la cacciata dal convitto abbia impedito certe trasformazioni, in nega­tivo, del mio carattere.


Vigàta... una piazza popolata da ragazzi di paese

In genere, io facevo su e giù, da Porto Empedocle ad Agrigento con l'autobus. Altri, invece, viaggiava­no con la littorina... Sono maturato tra Porto Empe­docle e Agrigento. In realtà, negli anni del liceo abita­vo ad Agrigento. Porto Empedocle la bombardavano continuamente, mentre Agrigento rimaneva indenne e la mattina potevi andare a scuola.
Piazza san Francesco era una piazza dove si apri­vano le porte del ginnasio e del liceo. Cosa avveniva? Che lì ci incontravamo tutti i ragazzi: chi veniva da Naro, da Aragona... e ci raccontavamo i fatti del pae­se. Ecco cos'è Vigàta, è questa piccola piazza popo­lata da ragazzi che si raccontavano le storie dei loro paesi, da me vissute come se fossero accadute nel mio.
Ed è qui, fra questi ragazzi del liceo, che comincia­rono le prime grosse amicizie: con Gaspare Giudice, Dante Bernini, e con altri. Ricordo che c'era il rito della passeggiata pomeridiana al viale della Libertà, in fondo al quale c'era il manicomio provinciale, af­follato di gente che chiamiamo "spostati", molti dei quali sono entrati nei miei racconti. Ecco perché dico che Vigàta non è solamente Porto Empedocle.


Ricordo di un paese che non esiste più

Di Porto Empedocle ho un ricordo come di un pae­se che non esiste più. Un paese di pescatori, fatto di piccole case che si aggrappavano su questa collina bianca di marna e che vennero spazzate via da una furibonda alluvione che se le portò via tutte. E per un po' di tempo rimase il costone nudo di questa collinet­ta; poi hanno cominciato a costruire sul piano più alto chiamato Lanterna, dove sorgono dei finti grattacieli, ignobili, e il paese cambiò totalmente fisionomia.
Della prima Porto Empedocle, quella antecedente l'alluvione, ho una bellissima memoria; prima di tutto perché era un paese pulito ed ordinato.
Il mio paese è un paese di mare e questo è fonda­mentale. Lo scriveva pure Luigi Pirandello quando por­tava a paragone Girgenti e diceva: "Girgenti è la moren­te cittaduzza mentre a Porto Empedocle ferve la vita".
E per vita intendeva il commercio, le navi che at­traccavano, lo zolfo che partiva... I porti di mare, an­che se sono piccoli come Porto Empedocle, sono sem­pre dei luoghi più avanzati, un passo in avanti rispet­to ai paesi dell'entroterra.


L'odore del porto

Al tramonto, c'erano i pescherecci che ritornavano in porto. Si faceva il gioco d'indovinare il pescherec­cio che stava rientrando. Dovevamo riconoscerlo dal rumore del motore diesel, dal suo particolare rumore. In questo gioco, c'erano dei pescatori che ci batteva­no su tutta la linea...
Quel che mi è rimasto dentro sempre, ed è una cosa che mi manca, è l'odore particolare del porto.
Perché ogni porto ha un suo odore. Quello di Porto Empedocle è fatto di nafta, di corde marcite, di alghe imputridite, tutti questi odori messi insieme formava­no un meraviglioso buon odore.


La villeggiatura

Per noi, la stagione estiva iniziava a maggio e fini­va ai primi di ottobre. Si andava in quella che era la casa di campagna dove tutta la famiglia ogni estate si trasferiva. Distava un chilometro e mezzo, ma la par­tenza era come per andare da Porto Empedocle alle Dolomiti. Si caricavano le cose nel carretto, si prende­va la macchina d'affitto per trasportare la famiglia per quella brutta trazzera. Mio nonno arrivava esausto in campagna e diceva: "Dio che viaggio terribile che ab­biamo fatto". Un chilometro e mezzo!
Non c'era la luce elettrica, però c'era l'aria buona, vedevi il mare ed avevamo quindici ettari di terreno intorno, quindi, figurati...


Siciliano "di scoglio"

C'è stato un giornalista, Vittorio Nisticò, direttore del prestigioso giornale "L'Ora", che divideva i sici­liani in due tipi: siciliani "di scoglio" e siciliani "di mare aperto". Per lungo tempo, ho creduto di essere un siciliano "di mare aperto", capace di lunghe navi­gazioni lontano dalla Sicilia. Invecchiando, mi sono reso conto di essere stato un siciliano "di scoglio", cioè che ho dovuto tenere una sorta di cordone ombe­licale con la mia terra. Negli ultimi anni, soprattutto, quando sono libero da impegni di lavoro teatrale e, compatibilmente con l'età, quando posso, torno in Si­cilia. Perché, vivaddio, si può scrivere dovunque...
Ora la domanda è "perché ci si torna" e tornarci è sempre un po' doloroso ad una certa età, perché ti riduci a fare una sorta di conteggio dei superstiti. Ti chiedi quanti amici ti sono rimasti della frotta che a­vevi in gioventù: sono spariti, sono morti.


La Sicilia sta cambiando

La leggenda dell'immobilità della Sicilia perdura ancora. Però, è sbagliata. A me, osservatore che torna frequentemente, la distanza dà la possibilità di vedere con maggiore serenità. E mi accorgo che ci sono cam­biamenti sostanziali, non nei superstiti della mia ge­nerazione, ma in quelli assai più giovani di me. Tal­mente sostanziali che non si vedono.
Mi spiego meglio. Il siciliano è duro a cambiare, ma nel momento in cui cambia lo fa all'interno di se stesso, nel suo Dna. Molte cose sono cambiate e sono, si, una sorta di omologazione - come diceva Pasolini ­all'andazzo generale, ma ci sono anche delle conqui­ste specifiche fatte dai siciliani.

Andrea Camilleri

(Testo a cura di Agostino Spataro, tratto dal documentario di Diego Romeo Camilleri, il racconto del figlio cambiato, settembre 2002)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011