Da qualche giorno Camilleri mi scassa i cabasisi perché vuole
da me un “racconto d'oggi”. Siccome lo conosco bene, so che lui intende
dire che si aspetta una storia strettissimamente legata all'attualità,
alla realtà dei giorni nostri. E qui bisogna subiti fare a capirsi:
a quale realtà si riferisce Camilleri? A quella che a dosi massicce
e quotidianamente ci viene propinata dai grandi giornali italiani e dalle
sei reti televisive direttamente o indirettamente in mano al Cavaliere
– Presidente o a quella che risulta dai rapporti, dai mattinali che arrivano
ai commissariati e alle questure?
La prima di queste due realtà è rosea, assolutamente
in linea con le promesse elettorali del Cavaliere che assicuravano città
sicure senza scippi, furti, grassazioni, rapine: questi reati, grazie al
futuro governo, sarebbero precipitati in caduta libera, come spesso fa
la borsa. La seconda realtà invece è grigia, direi monotona,
nel suo inalterato elenco di scippi, furti, grassazioni, rapine che segnano
un grafico stabile se non in aumento.
Vigàta non è zona adatta agli sbarchi dei clandestini,
ma proprio l'altro giorno è venuto a trovarmi un amico e collega,
che del problema dell'immigrazione si occupa per dovere d'ufficio, il quale
mi ha detto, e non ho ragione di dubitarne, che il numero dei clandestini
negli ultimi mesi è triplicato.
Solo che la parola d'ordine dell'informazione governativa, filogovernativa,
paragovernativa e criptogovernativa, a questo proposito, è quella
di minimizzare, sorvolare, scolorire.
A meno che non capiti una qualche tragedia in mare che non può
essere taciuta: allora sì, vai con le immagini strappacuore e con
i titoli strappalacrime per rassicurare le nostre coscienze, per convincerci
ancora una volta che noi italiani siamo proprio brava gente. La foto di
un bambino ancora atterrito tra le braccia del suo salvatore ci concilia
sonni tranquilli.
Ma che vuole ancora da me Camilleri? Gli ho detto, sul finire dell'anno
passato che, per ragioni del tutto personali, avrei potuto contargli storie
brevi, bastevoli sì e no per un racconto macari lungo, ma non una
storia, diciamo così, da romanzo.
“Perché?”.
“Fatti miei”, gli ho risposto.
Ora, davanti alla mia resistenza a dargli questo spunto che mi ha domandato
più volte, si è risentito.
“Salvo, non sei omo di parola”.
“Spiegati meglio”.
“Tu mi hai detto che non eri in grado di fornirmi materia per un romanzo
e io, malgrado non ne capisca le ragioni, non ho insistito. Ma ora ti sto
domandando di farmi scrivere una storiellina di una decina di cartellette!
E tu sui racconti ti eri detto d'accordo!”.
“Sì, ma non su un racconto “ancorato alla realtà d'oggi”,
come dici tu”.
“Adesso sei tu che ti devi spiegare meglio”.
“Fare un racconto sulla realtà d'oggi non è possibile”.
“Vuoi babbiare?”.
“Non ho gana di babbiare”.
Camilleri, quando dice di non capire le ragioni che m'impediscono di
fornirgli i materiali per un romanzo, mi fa venire il nirbuso perché
gioca all'ipocrita. Lui, i motivi, li conosce benissimo. Cercherò
di spiegarmi meglio che posso, non ho l'abilità di chi scrive per
mestiere.
Ho appena finito di leggere un romanzo, Le memorie di Maigret,
nel quale il celebre commissario francese tenta di prendere le distanze
dal suo autore. Sinceramente, il libro mi ha deluso, il che non mi capita
frequentemente leggendo Simenon. In buona sostanza, Maigret si limita a
mettere i puntini sulle “i”, chiarisce che non è vero che ha sempre
portato la bombetta, che non è così massiccio e ruminante
come viene descritto, che la stufa del suo ufficio prima era collocata
in un'altra stanza... Dettagli superficiali che nulla aggiungono o tolgono
al personaggio.
C'è solo un passo che mi ha interessato veramente e che in qualche
modo apparenta la mia condizione a quella del collega francese ed è
quando egli accusa l'autore di avere la supponenza di saperlo rendere più
vero di quanto non sia e di avere la brutta abitudine di dare un po' troppe
“aggiustatine” alle storie. A quest'ultima accusa Simenon ribatte: “Provi
a raccontare a qualcuno una storia qualsiasi. Se non la ritocca un po',
apparirà inverosimile, inventata”.
E mi viene francamente di catafottermi dalle risate all'idea di quali
e di quante “aggiustatine” il povero Camilleri dovrà fare uso per
rendere “verosimili” storie dei giorni nostri, storie che una deriva dalle
leggi prossime venture trionfalmente avvia verso il mare aperto dell'inverosimiglianza
assoluta.
Ma torniamo al rapporto Maigret-Simenon e a quello mio con Camilleri.
Così spero possa risultare chiaro perché sostengo che il
mio autore fa l'ipocrita. Io non sto a polemizzare con lui sui dettagli,
perché ad esempio mi fa più licco cannaruto ossia goloso
di quanto io non sia oppure perché descrive sempre i miei rapporti
con Livia in equilibrio instabile tra l'amplesso appassionato e il farla
finire a schifio, no, questo sono case senza nessuna importanza e lui è
liberissimo di scrivere, da romanziere, tutto quello che vuole, basta che
non metta in discussione quelle tre o quattro cose nelle quali credo.
Tra queste cose, c'è la convinzione che una polizia democratica,
che può in ogni momento rispondere limpidamente delle sue azioni,
sia veramente al servizio di una banalità agghiacciante, ma in una
certa occasione, non so se lo ricordate, davanti al colonnello Lohengrin
Pera, nel corso di quella storia che Camilleri chiamò Il ladro
di merendine, fui veramente orgoglioso di poter affermare che io nella
Polizia e lui nei servizi segreti servivamo due Stati diversi anche se
in apparenza era lo stesso. Inoltre, e questo Camilleri lo sa benissimo,
a differenza di Jules Maigret sul quale la Storia scivola come acqua fresca,
sono assai sensibile e attento ai fatti del mio paese e vivo attivamente
il mio tempo.
Qualcuno dei miei, in commissariato, pensa che io sia un “comunista
arraggiato”. Non lo sono, e sfido chiunque a imputarmi un qualsiasi atteggiamento
di parte nel corso delle mie inchieste. Ma nessuno può impedirmi
di pensare che, davanti a qualcuno ingiustamente licenziato, il datore
di lavoro stia commettendo un sopruso inaccettabile; nessuno può
impedirmi di pensare che una legge, alla quale sto obbedendo e che sto
facendo rispettare dagli altri, sia totalmente, radicalmente sbagliata.
E di dirlo, quando capita l'occasione.
Allora, io mi domando e dico: con quale faccia Camilleri, che non era
manco passato un mese dai fatti del G8 di Genova, è venuto a domandarmi
materiali per un nuovo romanzo? Non potevo che rispondergli come gli ho
risposto e cioè che di romanzi manco a parlarne, me se voleva la
traccia di qualche racconto la cosa si poteva fare. E questo perché
dentro l'ampio respiro di un romanzo avrebbe dovuto trovare largo spazio
il drammatico disagio da me provato davanti alle immagini genovesi e ancor
più alle notizie sui fatti accaduti nella scuola Diaz e nella caserma
di Bolzaneto. E ho visto tra l'altro, come del resto tutti gli italiani,
un vicequestore che pigliava a pedate un manifestante caduto a terra, i
fumogeni su gente che dimostrava pacificamente, i pestaggio violenti. Seppi,
notizia che non venne mai smentita, che nella centrale operativa, nella
cabina di regia per intenderci, c'era qualche deputato di destra. Addirittura
lo stesso vicepresidente del Consiglio. Non il ministro dell'Interno, la
cui presenza in qualche modo sarebbe stata spiegabile. Cosa ci faceva il
vicepresidente del Consiglio? Minimo minimo quella presenza, a guardarla
solamente sotto il profilo dell'opportunità, avrebbe dato adito
ai più malopensanti di sospettare le peggio cose. Confesso che la
mia prima impressione fu d'incredulità, poi dovetti arrendermi all'evidenza
e dall'incredulità passai allo sdegno. Quella notte stessa scrissi
una lettera di dimissioni, ma non ce la feci a spedirla. In quei giorni,
in commissariato, c'era un 'aria piombigna. Il primo a pigliare di petto
con me la questione fu Mimì Augello.
“Tu non me la conti giusta, Che intenzioni hai?”.
Decisi che la meglio era dirgli tutto.
“Ho intenzione di andarmene. Mimì. Non mi si riconosco più
in questa polizia”.
“Quale polizia?”.
“Mimì, sei venuto a sconcicarmi? Di quale polizia vuoi che parli?
Di quella alla quale tu e io apparteniamo!”.
“Embè? Dove sta il problema?”.
“Ma come?! E quello che la polizia ha fatto a Genova ti pare una minchiata
da passarci sopra?”.
“Ma perché continui a dire la polizia?”.
“E come devo dire?”.
“Una piccolissima parte della polizia, una minoranza. Almeno una mela
marcia c'è sempre in ogni cesto di mele”.
Dio, com'era ovvio! Quanto gli piacevano, a Mimì, i luoghi comuni,
le frasi fatte! Eppure, quella volta, non lo pigliai a male parole. Mi
era venuto di ribattergli subito che non si trattava di una sola mela,
ma di decine e di decine di mele andate a male, un marciume, ma avevo preferito
non raprire bocca. Però, su quello che mi aveva detto, ci ragionai
a lungo, macari nei giorni appresso. La cosa, a taliarla da tutti i lati,
non mi quatrava. Tra l'altro mi dicevo, pigliando per buono l'esempio di
Mimì: ma perché il fruttarolo, il venditore di mele, non
si è addunato prima che nel cesto c'era qualche mela marcia? O addirittura
che tutto,il cesto era marcio? Non se ne è accorto o non se ne è
voluto accorgere? Forse quelle mele addirittura gli facevano comodo? In
una intervista al giornale l'Unità, nell'imminenza del G8,
Camilleri aveva dichiarato che tutto quello schieramento di forze a Genova
gli faceva paura, vedeva tutta la faccenda come la “prova generale” di
qualcosa.
“Prova generale di che?”, gli spiai nel corso di una telefonata che
a volte pigliò toni aspri.
“Guarda, Salvo, come minimo la prova per vedere se voi siete capaci
di cangiarvi in forze di repressione, come ai bei tempi di Scelba”.
Poi a Genova successe il vivirì, ma lui non tournèe sull'argomento,
non si fece più vivo se non verso metà novembre per domandarmi,
fresco come un quarto di pollo, se potevo contargli una storia per un romanzo.
Ma come?! Sai quello che sto passando e fai finta di niente? A farla breve,
lecca che ti rilecca, la ferita stava principiando a rimarginarsi quando
esplose il caso Napoli. Che, per usare le parole di Camilleri, sarebbe
stata una specie di “antiprova generale” perché i fatti sono capitati
prima del G8 e addirittura con un governo di centro-sinistra. In tutti
e due i casi era stato rispettato un copione a dir poco ignobile, quello
della vendetta poliziesca “alla scordatina”, vale a dire il fermo a scoppio
ritardato di persone a molte ore di distanza dalle manifestazioni per portarle
in caserma e sottoporle e maltrattamenti camuffati da interrogatori e perquisizioni.
Un gesto, comunque lo si guardi, aberrante, colpevole.
Mi hanno inoltre sorpreso e avvilito alcune cose: la telefonata del
solito vicepresidente del Consiglio (quello che era nella cabina di regia
a Genova) al procuratore capo di Napoli, la scomposta reazione dei poliziotti
autoammanettati davanti alla questura, la pronta invettiva contro la magistratura
prima ancora di conoscere le motivazioni, le accuse. A che titolo il vicepresidente
del Consiglio aveva telefonato? E il questore di Napoli non aveva l'autorità
di impedire che i suoi uomini si abbandonassero a una manifestazione di
aperto dissenso verso la magistratura?
Inoltre, nelle ore appresso, ho anche visto come buona parte dei miei
colleghi si lasciasse docilmente e in alcuni casi con aperto piacere strumentalizzare
per bassi giochi politici. Qualcuno dei poliziotti è arrivato a
dichiarare che la polizia è “al servizio del governo”. Frase terribile,
che ci arretra ai tempi del fascismo quando sì che la polizia era
asservita al governo. La polizia serve lo Stato, come da sempre fanno i
carabinieri. E ho visto anche uno dei principali responsabili dell'irruzione
alla Diaz, indagato pesantemente a Genova, applaudito a Napoli da alcuni
poliziotti come un divo in tournèe. Allora mi è nato un dubbio
terribile e cioè che le mele non marciscono nel cesto, ma siano
già andate a male all'atto della loro nascita, perché l'albero
di mele è malato, un qualche devastante parassita si è insediato
nelle sue radici. Se le cose stanno così, è necessaria, indispensabile
una disinfestazione implacabile e coraggiosa prima che il danno alla pianta
diventi irreversibile. Chi avrà il coraggio e macari l'interesse,
andando contro coloro, oggi purtroppo la maggioranza, ai quali sta bene
che il melo sia profondamente infetto? Sta bene perché se alcuni
poliziotti violenti vengono difesi a spada tratta dai partiti al governo
anche a costo di una spaccatura con l'invisa magistratura, se viene conclamata
la loro innocenza a priori, se vengono reintegrati mentre il procedimento
è in corso, questo suona come un aperto e pesante avvertimento verso
chi vorrebbe scendere in piazza per esprimere dissenso.
E qui cadono a taglio, come direbbe Leonardo Sciascia, due notiziole
che leggo, bellamente disposte una appresso all'altra, nelle pagine romane
del quotidiano La Stampa del 18 maggio 2002. Certamente La Stampa
non è un giornale di estrema sinistra, perché altrimenti
l'impaginazione potrebbe suonare come una provocazione. Dice il primo titolo:
“Violenza sessuale, nei guai due carabinieri” e racconta che due militari
dell'Arma sono stati accusati di violenza sessuale e concussione per aver
costretto una prostituta slava, sprovvista di permesso di soggiorno, ad
avere rapporti con loro, minacciandola di denuncia. Il secondo titolo,
immediatamente sotto, recita: “Morte di un drogato, alla sbarra due poliziotti”.
Qui è detto che due poliziotti, dopo aver fermato un drogato trentottenne
a bordo di un'auto rubata, fattolo scendere dalla macchina, l'avevano così
selvaggiamente picchiato, senza che quello fosse in grado di opporre resistenza,
fino a provocarne la morte, avvenuta 48 ore dopo a Regina Coeli. Per la
precisione, la cronaca romana del Corriere della Sera dello stesso
giorno specifica che il pestaggio degli agenti provocò alla vittima
“la frattura della ossa nasali e delle costole e la perforazione del polmone”.
Al fatto avevano assistito alcuni testimoni che hanno confermato al processo,
che è in corso, quelle che hanno visto.
Come mai in questa occasione (parlo solo della polizia, sia chiaro)
alcuni sindacati e certi uomini politici non sono scesi in campo a difenderli?
Perché i loro compagni hanno taciuto? E' chiaro l'uso di due pesi
e due misure: rubare un'auto non ha la stessa valenza di una manifestazione
di dissenso. Pertanto se un poliziotto eccede contro un ladro d'auto commette
un reato, mentre se fa le stesso cose contro un manifestante non commette
reato perché difende il governo voluto dalla maggioranza e quindi
non solo non va processato, ma anzi è da elogiare e promuovere.
Sono amareggiato, deluso, sdegnato e mi domando quanto potrò
ancora resistere al mio posto. Il fatto è che non mi piace andarmene
con l'amaro in bocca, sarei contento se potessi potarmi appresso. Di tutti
gli anni passati nella polizia, non certo una memoria totalmente felice,
ma almeno un bilancio consuntivo in pareggio.
Ma Camilleri insiste, vuole il raccontino imperniato sulla realtà
d'oggi. E io provo a mandargli qualche appunto. Solo che i fatti si svolgono
non ai giorni nostri, ma, come dire, domani. Facciamo che la storia è
ambientata nel febbraio 2003. Comincio.
Appena fatta la curva, si vitti perso. Davanti a lui c'era una fila
a perdita d'occhio di macchine, camion, camioncini, Tir, autobus. Non fece
a tempo a frenare che già appresso a lui si fermarono altre tre
auto e la corriera Vigàta- Montereale, che era proprio il paisi
indovi Montalbano doviva andare. Ora era imbottigliato e non poteva cataminarsi
né avanti né narrè. Scinnì dall'auto santiando
e non sapendo che fare. In quel momento, sparata in senso inverso, arrivò
una macchina della stradale. Il poliziotto al volante lo riconobbe, fece
una frenata da testa-coda, lo chiamò.
“Ma che succede'”, spiò Montalbano.
“Un Tir. Ha invaso non si capisce perché l'altra carreggiata
mentre arrivava la corriera da Trapani, Cinque morti”.
“L'autista del Tir come sta?”.
Il poliziotto lo taliò imparpagliato.
“E' sotto shock, ma non si è fatto niente”.
“Ah, meno male!”.
“Lo conosce?”.
“Io? No. Ma trattatelo bene, mi raccomando. Sapete come il ministro,
quello dei 150 all'ora, ci tenga agli autisti dei Tir. Gli ha macari fatto
lo sconto sulle multe”.
Aiutato dalla stradale, potè nesciri dalla fila, fare una
curva a “U” e tornare narrè per pigliare una strata alternativa
che era tanticchia più linga. Fu accussì che venne a trovarsi
a passare sutta alla collina c'era la grandissima villa di campagna di
don Balduccio Sinagra, dove era stato una volta, al tempo dell'indagine
su una coppia di vecchietti scomparsi nel corso di una gita a Tindari.
La grande famiglia mafiosa dei Sinagra si era disgregata, a quanto pareva
c'era un solo superstite, un nipote di don Balduccio, pino detto “l'accordatore”
per l'abilità diplomatica cha sapeva tirare fora nei momenti perigliosi,
il quale però da tempo si era stabilito in Canada o negli Stati
Tutti i beni erano stati sequestrati; l'avvocato della famiglia, Orazio
Guttadauro, ora felicemente eletto deputato nelle file della maggioranza,
era arrinisciuto però a salvare la villa di Ciuccafa.
Sul tetto della quale il commissario Montalbano, strammato, vitti
svettare una gigantesca antenna parabolica. Ma come? Se la villa era chiusa
da almeno tre anni! Chi era andato ad abitarci?
Quando nelle prime ore del dopopranzo poté rientrare in commissariato,
chiamò Fazio, gli disse la facenna dell'antenna parabolica, gli
spiò se sapeva chi era andato ad abitare nella villa. Fazio parse
pigliato dai turchi, per lui era ancora disabitata.
“Informati”.
“E' cosa importante?”.
Non seppe manco lui stisso pirchì arrispunnì che sì,
era importante.
Fazio s'arrampicò a sira tarda, quando già Montalbano
ci aveva perso le spiranze.
“Dottore, in paìsi nisciuno sapeva nenti di nenti. Allora
ho avuto un'alzata d'ingegno. Mi sono domandato: dove hanno accattato la
parabolica? Tra Vigàta e Montelusa ci sono una quinnicina e passa
di negozi che trattano l'articolo. Ho avuto fortuna. Al settimo negozio
mi hanno detto che la parabola l'avevano fornita e montata loro. Sono stati
molto gentili”.
“Embè?”.
“Mi hanno chiamato il tecnico. Ha visto, nella villa, solo un trentino
elegante che parlava siciliano con accento miricano. Siccome per telefono
avevano concordato il prezzo, il trentino ha dato al tecnico una busta
con dintra un assegno della Banca di Trinacria”.
“Di chi era la firma?”.
“E questo è il bello. La forma era Balduccio Sinagra”.
“Ma dai! Ma se Balduccio è morto da tre anni!”.
“Dottore, questo so e questo le dico”.
“Fazio, ne voglio sapere di più, assolutamente”.
“Dottore, però deve portare pacienza”.
“Che significa?”.
“Significa che se vossia vuole una cosa rapida, non ho che due strade.
O andare a parlare con qualichiduno dei carrabbinera, e la cosa non mi
pare cosa, dato e non concesso che loro ne sanno più di noi, o spiare
informazioni con qualichiduno della famiglia Cuffaro, quelli che ce l'hanno
a morte coi Sinagra. E manco questa mi pare cosa. Allora non mi resta che
firriare paisi paisi per trovare le pirsone giuste. Ma, in questo caso,
vossia deve portare pacienza”.
Montalbano fece sullenne promissa di pacienza giobbesca. Che venne
premiata due giorni appresso quando Fazio s'appresentò sorridente,
s'assittò, cvò fora dalla sacchetta un foglietto scritto
fitto. Alla scena era presente macari Mimì Augello, che il commissario
aveva messo al corrente della facenna di Balduccio Sinagra il quale da
morto continuava a firmare assegni.
“Nonsi, dottore, non si tratta di don Balduccio bonarma, ma di un
suo nipote che porta lo stesso nome”.
“E da dove spunta?”.
“Da Nuovaiorca, dottore. Vossia se l'arricorda il figlio più
nico di don Balduccio, 'Ngilino, che era intiso “l'arabo” perché
era nisciuto completamente pazzo e parlava una parlata che lui diceva araba?”.
“Non me lo ricordo perché all'epoca non ero manco nato, ma
ne ho inteso parlare. Vai avanti pigliando l'accurzu”.
All'invito ad essere più breve, con un sospiro rassegnato
Fazio rimise in sacchetta il foglio di carta.
“Come vuole vossia. 'Ngilino ebbe due figli, Pino intiso “l'accordatore”
che se ne partì presto per l'America e Caluzzo che stava a Bogotà.
Questo Balduccio è figlio di Pino ed è tutto quello che resta
della famiglia”.
“Che età ha?”
“Trentino è”.
“Sei riuscito a qualcuno che si fermerà a lungo”.
“Che ci ha in testa?”, spiò ad alta voce Augello.
“Mimì”, fece Montalbano, “hai mai visto in campagna che fanno
le mosche? Volano volano e appena vedono una nella cacata ci si posano
sopra. E da noi c'è tanta bella merda a disposizione”.
“Se le cose stanno come dici”, osservò pinsoso Mimì,
“viene a dire che presto tornerà la stascione dei kalashnikov, delle
ammazzatine. I Cuffaro, che fino a questo momento hanno potuto travagliare
in pace con la scomparsa dei Sinagra, faranno tutto il possibile per liquitare
il picciotteddro miricano”.
“Non credo”, concluse Montalbano. “I sistemi sono profondamente
cangiati, macari se lo scopo finale è sempre quello. Ora preferiscono
travagliare sott'acqua e con le amicizie giuste nei posti giusti. Ad ogni
modo di questo americano voglio sapere di tutto e di più, come dicono
alla televisione. Mettiti all'opira macari tu, Mimì”.
L'indomani a matina, che era giornata accupusa e fridda, tirava
un vento che tagliava la faccia, Montalbano dovette andare al settimanale
incontro col questore. Passando attraverso la piazza del municipio, vitti
una scena stramma. C'era un signore cinquantino, distinto, cappotto e cappello,
che teneva alto un cartello di compensato sul quale c'era scritto MAFIOSI
e CORNUTI. Davanti a lui un agente piuttosto agitato gli stava dicendo
qualichicosa. I rari passanti tiravano di longo, non avevano gana d'incuriosirsi,
faceva troppo friddo. Montalbano fermò, scinnì, s'avvicinò
ai due. Fu allora che il commissario riconobbe l'omo col cartello, era
il geometra Gaspare Farruggia che aveva una piccola impresa di costruzioni.
Una persona perbene.
“Si sciolga! Non glielo ripeto più! Si sciolga!”, stava intimando
l'agente al geometra.
“Perché?”.
“Perché trattasi di manifestazione non autorizzata! Si sciolga!”.
“Io non ce la faccio a sciogliermi da solo”, fece calmo il geometra.“Mi
faccia sciogliere nell'acido solforico da uno di questi cornuti che stanno
in municipio”.
L'agente s'imparpagliò, riconobbe Montalbano.
“Commissario, questo signore qua...”.
“Vai pure, vai pure, A lui ci penso io”.
“Buongiorno, dottor Montalbano”, fece educatamente il solitario
manifestante la cui faccia era rossoblù per il gelo.
Il commissario ci muse picca e nenti per convincerlo a lasciare
momentaneamente la protesta e a rifocillarsi in un cafè vicino.
S'assittarono a un tavolo. Mentre s'arricriava con un cappuccino bollente,
l'omo gli spiegò che alcuni imprenditori onesti avevano deciso di
far gruppo costituendo una piccola associazione antiracket. Una legge regionale
incoraggiava la formazione di queste associazioni con aiuti in denaro.
“Perché avete sentito il bisogno di mettervi assieme? Non
vi basta la vecchia certificazione antimafia?”.
“Dottore mio, con la nuova legge l'importo dei lavori per i quali
non c'è bisogno della certificazione è salito a 500 mila
euro. Basterà frazionare i subappalti, che sono stati innalzati
al cinquanta per cento dal trenta che erano, e addio certificazione. E
lo sa quanti miliardi dall'Europa e dal nostro governo stanno per arrivare
da noi? Volevamo mettere le mani avanti, far sapere che noi, certificazione
o no, siamo diversi da tutti quei mafiosi che daranno l'assalto alla casciaforte”.
“E che è successo?”.
“E' successo che siamo andati a Palermo. Nessuno sapeva dirci qual
era l'ufficio giusto. Una via crucis durò tre giorni, ci mandavano
da Ponzio a Pilato. Finalmente ci trovammo davanti a uno che ci disse che
bisognava iscriversi all'apposito albo in dotazione nei municipi dei capoluoghi
di provincia. Allora siamo rientrati e io, come presidente del gruppo e
con l'atto costitutivo dell'associazione fatto col notaro, sono andato
al comune. Macari qua nessuno sapeva niente. Poi trovai uno che mi spiegò
che l'albo non c'era in quanto da Palermo non erano arrivate le norme per
la sua costituzione. Sono passati due mesi e ancora non arrivano. Una sullenne
pigliata per il culo: mentre spuntano come fungi nuove società che
non trovano ostacoli burocratici, macari se tutti sanno che sono fatte
da prestanome”.
“Ad esempio?”.
“Non ha che l'imbarazzo della scelta. A Fiacca la famiglia Rosario
no ha costituite sette, a Fela la famiglia De Rosa cinque, a Vigàta
l'americano ce ne ha pure lui sette, a...”.
“Un attimo. Chi è l'americano?”.
“Non lo sa? Balduccio Sinagra junior. S'è precipitato dagli
stati apposta! Dottore mio, con queste nuove leggi qua è una pacchia!
Lo sa che al ministero ora si devono comunicare non più relazioni
dettagliate dei lavori, ma solo, cito testualmente, “note informative sintetiche
con cadenza annuale”? Lo sa che...”.
“Non voglio sapere altro”, fece abbottato Montalbano pagando e niscendo.
Durante la lunga parlata del questore la seggia gli bruciò
il culo, gli parse un'inutile perdita di tempo. Appena tornato in commissariato,
chiamò Fazio e Augello e gli contò dell'incontro col geometra
Farruggia e di quello che aveva saputo.
“Non mi è parso che Farruggia raprisse bocca solo per fare
vento. Sapeva quello che diceva. Voglio conoscere i nomi di queste società,
di chi ne fa parte, quando sono state costituite, dove hanno sede legale”.
“Perché?”, spiò Mimì Augello.
“Perché la cosa mi feti, mi puzza. Il nipote di un boss che
ha fatto fortuna con gli appalti truccati torna dall'America e forma sei
società pronte a concorrere a gare d'appalto in modo legale. Non
ti pare strammo?”.
“No. Può darsi che faccia le cose in modo legale. Noi possiamo
al massimo intervenire se sgarra”.
Se Fazio s'aspettava una reazione arraggiata da parte del suo superiore,
restò deluso.
“D'accordo. Ma siccome a noi non ci costa niente, io queste informazioni
le voglio lo stesso. Accussì, se un giorno o l'altro necessita il
nostro intervento, ci troviamo avvantaggiati”.
Doppo una mesata di travaglio, Montalbano ebbe un quadro chiaro
di quello che aveva fatto Balduccio Sinagra jr. in sei mesi di permanenza
in Sicilia, dei quali i primi cinque passati a Palermo. Il geometra Farruggia
aveva detto giusto. Balduccio aveva creato due nuove grosse imprese di
costruzione e ne aveva rilevata una terza. Altre quattro imprese, tutte
rilevate, erano di quelle tipiche da subappalto. In nessuno di esse, grande
o piccola che fosse, figurava il nome di Balduccio Sinagra jr. Ci era voluto
il fiuto di Fazio, e quello che Montalbano chiamava “il complesso dell'anagrafe”,
per scoprire che i nuovi capi delle imprese erano tutti parenti, larghi
e stritti, di Balduccio. E tutti incensurati. Montalbano s'arricordò,
amaramente, che una volta Leonardo Sciascia aveva scritto che era nato
una nuova categoria d'individui: i cretini intelligenti.
“Vuoi vedere”, si spiò, “che ora nasce la categoria dei disonesti
onesti?”.
A questo punto fece la bella pensata di telefonare a Burlando, il
suo vecchio questore ora in pensione, che aveva amicizie americane. Passati
una decina di giorni, Burlando lo richiamò: sì, Pino Sinagra
“l'accordatore” era un mafioso noto che negli Usa aveva avuto guai con
la giustizia, ma suo figlio Balduccio era tutt'altra cosa, un giovane serio
che si era laureato e lavorava con molta intelligenza in una grossa banca,
tanto da diventarne dirigente. Poi era capitato l'attacco terroristico
alle “Due torri”. Balduccio come tutte le mattine era lì, nella
direzione della banca. Si era miracolosamente salvato, ma coi nervi a pezzi,
Tanto da doversi dimettere.
A Montalbano venne da ridere. Uni coi nervi a pezzi, torna al suo
paese per ritrovare la serenità e si getta cavallo e carretto negli
affari appena arrivato? E gli tornò a mente un'ipotesi dello scrittore
Grisham e cioè che qualche bancario, nel corso della tragedia delle
“Due torri”, si fosse volatilizzato non per effetto del fuoco e del crollo,
ma semplicemente perché aveva arraffato una borsa piena di soldi
dei clienti. Particolare non trascurabile: tutte le società avevano
sede legale nello studio dell'avvocato Guttadauro.
Non restava che aspettare l'apertura della caccia, o meglio l'arrivo
delle grandi piogge di miliardi destinati a opere pubbliche, per vedere
come il picciotto americano si sarebbe comportato. Ma il commissario venne
preceduto. Un venerdì' mattina tutta Vigàta apparse cummigliata
da variopinti manifesti, ma con prevalenza d'azzurro, nei quali si annunziava
un grande comizio a Montelusa per il giorno appresso alle ore 18 in piazza
Municipio. L'Onorevole Avvocato Orazio Guttadauro, che era stato eletto
con una maggioranza bulgara, desiderava incontrare i suoi elettori per
rinnovare i patti fatti nel corso della campagna elettorale.
Nel primissimo doppopranzo di quello stesso venerdì il commissario,
nisciuto dalla trattoria San Calogero e visto che la giornata era bona,
decise di fare la solita passiata fino alla punta del molo, fino a sutta
il faro. Si era appena assittato sullo scoglio quando vitti un omo che
veniva verso di lui facendogli ampi gesti di saluto con le vrazza isate.
Di subito non l'arriconobbe, poi lo mise a foco: era proprio l'Onorevole
Avvocato Orazio Guttadauro. Quando con la mente tornò a quell'incontro,
si vrigognò di riconoscere che a tutta prima si era scantato di
un agguato. Ma l'avvocato era evidentemente solo e sul mare, nelle vicinanze,
non c'erano né barche né motoscafi.
“Che felice combinazione! La billizza del nostro commissario! Lo
sa che sta che è una meraviglia?”.
“Macari lei non scherza. Mi cercava?”.
“Io? Se le ho detto che è una combinazione! Sono venuto a
pigliarmi un poco d'aria di mare che a Roma mi manca assai. Mi fa posto?”.
Montalbano si scansò tanticchia. Combinazione! Appena l'avevano
avvertito della passiata, l'onorevole avvocato si era liberato di guardaspalle,
famigli e clienti plaudenti per precipitarsi a parlargli. Evidentemente
qualcuno gli aveva riferito del suo interesse per Balduccio Sinagra jr.
E l'avvocato trasì subito in argomento.
“Sono venuto un giorno prima del comizio di domani perché
volevo stare qualche ora con Balduccio Sinagra. Lei ricorda, vero, quali
sensi di profonda venerazione mi legavano al suo nonno bonarma. Ebbene,
questo sentimento si è cangiato in profondo affetto, direi quasi
paterno, verso il nipote. Mi capisce?”.
“Perfettamente”.
“Sono stato a lungo preoccupato per lo stato della sua salute. Lei
certamente saprà che si trovava nella prima delle “Due torri” quando
ci fu l'orrendo attentato e saprà che...”.
“Avvocato, io di Balduccio Sinagra so tutto quello che c'è
da sapere. Almeno credo”, l'interruppe agro Montalbano.
“Ma non lo conosce di persona! Se lo conoscesse, ne rimarrebbe incantato!
Un giovane animato da una profonda carità verso il prossimo! Egli
è sì venuto a ristorarsi l'anima bella nostra terra, ma ne
ha approfittato per portare lavoro. Su mio suggerimento, e me ne faccio
vanto, ha rilevato imprese in pericolo di fallimento e ne ha costituite
due nuove. Tutto alla luce del sole. Certo, una goccia d'acqua in questa
nostra disgraziata terra assetata di lavoro, ma sempre meglio che niente”.
“Come mai il nome di Balduccio non compare mai in nessun atto costitutivo?”.
L'avvocato taliò strammato il commissario, allargò
le braccia in un gesto d'infinita meraviglia.
“Ma si tratta di opere di bene, opere di carità!. Verrebbero
sminuite se chi le fa non si attenesse rigorosamente all'anonimato! Lei
ci trova qualcosa d'illecito? Guardi che, a tutti gli effetti, queste imprese
non sono sue”.
“Già”, disse Montalbano, “a questo proposito abbiamo esempi
illustri. E so benissimo che se mi metto a indagare mi rompo le corna”.
“Ammiro il suo buonsenso”.
“Mi dica: come mai Balduccio ha scelto solo parenti, anche di grado
lontano?”.
“Sa anche questo? Proprio per i principi ai quali Balduccio s'ispira.
La Famiglia. Quella Famiglia che da noi oggi, ahimè, è vilipesa
da oscene unioni di fatto, unioni omosessuali che pretendono...Lasciamo
perdere. La centralità della Famiglia è tutto”.
“Senta, avvocato, una curiosità, Balduccio, a quanto ho saputo,
si guadagnava il pane...”.
“...onestissimamente...”.
“...facendo il dirigente di una banca di New York. Ora, per quanto
potesse essere ben pagato, per rilevare cinque imprese qua da noi e formarne
due nuove ne servono tanti e allora...”.
“Commissario”, l'interruppe l'avvocato, “sinceramente ammiro la
sua franchezza. E io ricambio con egual moneta. Ma la cosa deve assolutamente
restare tra noi”.
Si calò verso l'orecchia destra di Montalbano e sussurrò,
a malgrado che per un chilometro torno torno non ci fosse anima criata.
Si vede che l'onorevole aveva dato ordine che nessuno s'avvicinasse a quel
braccio di molo.
“Un legalissimo rientro di capitali”.
“Scusi, ma se è legalissimo perché me lo dice a bassa
voce?”.
“Non voglio che si mettano in moto le malelingue”.
“E di chi erano questi soldi?”.
“Del nonno, del povero don Balduccio”.
“Ma i beni del vecchio Sinagra non erano stati sequestrati?”.
“Di questi si ignorava l'esistenza. E sono andati al legittimo erede,
il nipote, che senza por tempo in mezzo ha fatto tornare i capitali mettendosi
in regola con la legge”.
“Ma se la cosa si viene a sapere, questi capitali non rientrano
nel decreto del sequestro?”.
“Sente, commissario, la legge non prevede che sia dichiarato il
nome di chi li esportò. Basta che sia il legittimo proprietario,
che anche lui resta anonimo, a pagare in contanti la percentuale dovuta,
il due e mezzo, e ogni cosa è risolta”.
“Ha pagato macari la tassa di successione?”.
“Un'inezia, ringraziando questo governo. Come le dicevo, è
tutto in regola, fatto secondo legge”.
Perché l'avvocato Guttaduaro gli aveva confidato la facenna
del rientro dei capitali? Sicuramente perché la confidenza serviva
ad ammucciare una cosa più losca. I soldi fatti venire dall'estero,
e Montalbano ne ebbe la certezza, non erano del morto don Balduccio, ma
erano soldi sporchi, riciclati. Solo che non c'era più possibilità
d'indagare.
“Caro commissario”, fece l'onorevole susendosi, “spero di avere
esaudito la sua curiosità su Balduccio. E si ricordi sempre, ora
che nostra terra sta per trasformarsi in un cantiere, le illuminate parole
del nostro ministro: “La legittimità politica e giuridica dell'opera
sta nell'opera sé. Tutte le altre leggi, causa sistematica di ostacolo,
vengono conseguentemente disapplicate”. Non è d'accordo?”.
“E' quello stesso ministro che disse che con la mafia bisogna convivere?”.
“Sì”.
“Vedo che si è convertito”.
“Non ho capito”.
“Macari lui deve aver compreso l'importanza della centralità
della Famiglia, come dice lei. Con questa sua legge con la mafia non ci
si convive più, ci si sposa”.
L'avvocato rise.
“Ma quant'è spiritoso quando ci si mette!”.
Salutò il commissario con un gesto della mano, s'allontanò.
Montalbano restò sullo scoglio. Gettava sassolini di ghiaia in una
pozza d'acqua ferma tra due scogli e stava a taliare i cerchi che si allargavano.
Andrea Camilleri - Almanacco della Letteratura di MicroMega - 3/2002
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