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In fondo agli occhi



Autore Arturo Patten
Prezzo E 15,00
Pagine 110
Data di pubblicazione 2005
Editore Edizioni di passaggio
Collana Vie traverse


Agrigento, 9 marzo 1999: Arturo Patten, fotografo americano, grande ritrattista, amico di Don DeLillo, di Russel Banks, di Antonio Tabucchi e di Federico Fellini (con cui realizzò lo spot pubblicitario per la pasta Barilla), decide di farla finita, impiccandosi nel bagno della casa in affitto. «Sono siciliano», soleva ripetere Patten, col suo inconfondibile accento americano. E in Sicilia sono rimaste le sue spoglie, nel piccolo cimitero di Montaperto, nella nuda terra, come si usa con chi è senza famiglia: «C´è un cumulo di terra - racconta il fotografo agrigentino Angelo Pitrone - con una croce bianca di marmo e una lapide, su cui si legge l´epigrafe: Arturo Patten fotografo. Siamo in pochi a sapere che a Montaperto giace uno dei più grandi ritrattisti dello scorso secolo. E non è giusto».
Per ridare a Patten quel che gli spetta, Pitrone, assieme ai responsabili del Centro culturale Pier Paolo Pasolini di Agrigento, ha organizzato una mostra dal titolo "In fondo agli occhi. Ritratti siciliani di Arturo Patten", che sarà inaugurata oggi alle 16,30, al Museo archeologico regionale della città dei templi, in presenza di Edith de la Héronnière, scrittrice legata a Patten da amicizia profonda, e Salvatore Silvano Nigro, ordinario di Letteratura italiana a Pisa e sodale di Patten. In concomitanza, Joselita Ciaravino, per i tipi delle Edizioni di passaggio, ha dato alle stampe la prima monografia italiana dedicata al fotografo americano ("In fondo agli occhi", 110 pagine, 15 euro), che allinea una testimonianza di Andrea Camilleri, un saggio di Diego Mormorio e i volti siciliani messi in mostra. Volti che Patten incrociò nel suo viaggio in Sicilia e dai quali rimase incantato, a tal punto da lasciarne numerosi ritratti. Da quello di Gesualdo Bufalino a quello di Vincenzo Consolo, da Michele Perriera a Gaetano Testa. E ancora, Letizia Battaglia, Andrea Camilleri, Enzo Sellerio, Silvana La Spina, Dacia Maraini, Sebastiano Addamo. Una carrellata in bianco e nero, proveniente dall´Istitut Mémoire de l´Édition Contemporaine di Caen (Francia), che fanno venire in mente i dipinti di Antonello da Messina, come spiega Silvano Nigro: «Come fotografo - dice il critico - Patten era improvvisato. Non apparteneva a nessuna scuola: lui la fotografia se l´è inventata, guardando direttamente ai ritratti di Antonello: aveva una grande competenza in merito alla storia dell´arte, un vero e proprio occhio clinico per la pittura. Da lì la sua diversità, la sua genialità».
Non sempre i volti fotografati da Patten appartengono a personaggi noti: basti sfogliare il volume "Li signori romani", una scelta di ritratti di artigiani e piccoli commercianti del centro storico di Roma, eseguiti tutti, come racconta Diego Mormorio, usando una finestra di casa. «I soggetti si mettevano all´interno della stanza, si accostavano al davanzale e venivano ripresi da Arturo dalla terrazza».
Se oggi di Patten non si è persa memoria, il merito è soprattutto della scrittrice Edith de la Héronnière, che ha scritto un bellissimo diario di viaggio sulle tracce spirituali di Arturo Patten, "Dal vulcano al caos", in cui racconta il suo rapporto di attrazione e di dolore con la Sicilia.
(Salvatore Ferlita, La Repubblica (ed. di Palermo), 17.12.2005)



Per Arturo Patten
di Andrea Camilleri

Per prima, me ne parlò Elvira Sellerio che conosceva la mia profonda ritrosia a mettermi in posa davanti a una macchina fotografica. Io mi trovavo, per qualche giorno, a Porto Empedocle.
“E’ un americano, persona perbene, vorrebbe farti qualche fotografia…”
“Elvira, mi devi scusare, ma sai che….”
“Io mi sono fatta fotografare da lui” – m’interruppe.
Elvira si era messa in posa davanti a questo fotografo?! Allora valeva la pena almeno di conoscerlo. Arturo mi telefonò, quel pomeriggio stesso, da Palermo. Parlava perfettamente l’italiano. Concordammo che sarebbe venuto a Porto la mattina seguente, con un assistente. Quando arrivò a casa mia erano circa le dieci. Devo, per lui, usare dei superlativi: gentilissimo, coltissimo, discretissimo. Non aveva niente di americano, era un perfetto gentiluomo europeo. Bene, lasciammo trascorrere tutta la mattinata a parlare. Lui, con molta delicatezza e altrettanta abilità, voleva individuare i luoghi, più o meno perduti, che più mi erano stati cari nel mio paese natale e mi guardava, pronto a cogliere nei miei occhi ogni sfumature d’emozione, di rimpianto. Alla fine optò per la mia casa di campagna.
Aveva colto nel segno: la mia casa di campagna rovinava lentamente e io non ci andavo più da tempo, non volevo vederla agonizzare. Gli dissi che non saremmo potuti salire al piano superiore, la scala stava crollando. Mi rispose che non importava. Ci andammo nel pomeriggio. Lui mi chiese di aprire il grande portone di ferro e di sedermi sul limitare sopra una vecchia sedia trovata sul posto. Arturo e l’assistente cominciarono a trafficare con cavalletti e macchine fotografiche. Io mi persi nella memoria, nei ricordi che la casa faceva rinascere e che si affollavano dentro di me. A un certo punto sentii che mi diceva: “Grazie, abbiamo finito”.
Ma come? Non m’ero nemmeno accorto che mi stava fotografando, credevo stesse a lare le sue prove. Erano passate più di due ore. Restammo a parlare ancora a lungo. E allora scoprii la sua angosciata, trepidante sensibilità verso quelli che Vittorini chiamava i dolori del mondo offeso. Ne soffriva quasi fisicamente, sulla sua stessa pelle. Sentii, cosa che mi capita assai di rado, il bisogno di rivederlo, di conoscerlo meglio, di diventargli, in qualche modo, amico.
Mi telefonò, dopo qualche tempo, a Roma.
C’incontrammo e mi portò due delle foto fatte a Porto Empedocle. Mi ci riconobbi pienamente, totalmente. Mi aveva colto in un momento così segreto di me che quasi me ne vergognai.
Poi ci fu un terzo incontro. Mi aveva invitato a cena, nella sua casa romana, con mia moglie. C’erano anche René de Cecatty e Francesca Sanvitale. Quando finimmo di cenare, mi fece vedere tante fotoni uomini e donne della profonda provincia americana, volti chiusi, volti indifferenti, volti egoisti, volti cinici, volti stupidi, volti inerti. L’orrore dal quale, da una vita, stava tentando di fuggire. Parlò molto, Arturo, quella sera e io riuscii a vedere, non so come, le tante ferite non chiuse che si portava dentro, però erano ferite pulite, nitide, dai margini netti, non erano infette e non avevano generato pus.
Quella fu l’ultima volta che ci vedemmo. Ci telefonammo invece con una certa frequenza. Non erano telefonate brevi. Durante una di queste telefonate mi propose di presentare il romanzo di un suo amico. E in quell’occasione si mise a parlare dei bambini che nel mondo pativano la fame e la solitudine. Me li fotografò con parole che vibravano ora di commozione ora di sdegno, che mi coinvolsero (e sconvolsero) totalmente.
Quando appresi del tutto casualmente da Salvatore Silvano Nigro che Arturo aveva deciso di mettere fine alla sua vita, credetemi, mi addolorai, ma non me ne stupii.
Da quante punte di freccia può essere straziato un uomo?
Qual è il limite oltre il quale il dolore non è più sostenibile?



Last modified Wednesday, July, 13, 2011