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Io inviato dalla Rai per errore sulla tradotta per Amsterdam

Mi è capitato di fare una figuraccia, addirittura internazionale.
Per lunghi anni, come regista radiofonico, mi ero dedicato in particolar modo alla sperimentazione, tanto sulla parola, quanto sul suono. Avevo avuto anche l’onore di lavorare a lungo al mitico studio milanese di Fonologia, litigando con musicisti del calibro di Berio e Maderna che dello studio volevano l’esclusiva. Avevo sperimentato le primissime trasmissioni di prosa in stereofonia e mi ero anche cimentato con la quadrifonia. Sicchè non trovai nulla di strano quando nel 1980 venni convocato dal direttore della Radio che mi comunicò che il mese seguente si sarebbe tenuto ad Amsterdam un convegno di trecento tecnici audio provenienti da tutto il mondo, per discutere le questioni della ripresa radiofonica in movimento circolare. Il direttore mi comunicò che avevano deciso di mandarmi in rappresentanza della Rai, perché ero in sostanza uno dei pochi registi che di questa materia ci capisse qualcosa.
Si trattava di un soggiorno olandese di una settimana al massimo. Persuasi mia moglie a venire con me. A quel tempo, per nessuna ragione al mondo, avrei messo piede su un aereo. Perciò organizzai il mio viaggio con un treno che sarebbe partito da Roma alle 10 del mattino, avrebbe raggiunto Milano in serata e qui ci saremmo trasferiti in una vettura-letto diretta proprio ad Amsterdam. La mattina stabilita andammo alla stazione, prendemmo posto nel nostro scompartimento ma il treno non partì. Dopo un'ora mi decisi a chiedere spiegazioni a un ferroviere di passaggio. Mi disse che si trattava di uno sciopero selvaggio e non si sapeva se e quando sarebbe terminato. Il suo consiglio fu di restare dentro il treno e di non scendere per nessuna ragione perché la partenza poteva avvenire senza nessun preavviso. Così alle tredici, io e mia moglie pranzammo nella vettura ristorante sempre fermi al binario 3 della stazione Termini. Poi finalmente partimmo ma quando giungemmo a Milano, con grande ritardo, apprendemmo che il treno-letto per Amsterdam era già partito per la sua destinazione. Non ci rimase altro da fare che prendere posto in una normalissima vettura di prima classe che, ci assicurarono, ci avrebbe fatto raggiungere Amsterdam la mattina seguente. Rimanemmo devo dire un po' sorpresi, che in quel vagone gli unici passeggeri eravamo noi due. Scoprimmo anche che non c'era una carrozza ristorante e quindi fummo costretti arestar digiuni. Superammo senza difficoltà il confine italo-svizzero e ci appisolammo. Ore dopo venimmo bruscamente svegliati e fatti scendere di corsa dalla vettura da un ferroviere svizzero-tedesco che aveva modi da SS. Ci disse, quasi urlando, che quella vettura non andava più ad Amsterdam e che avremmo dovuto aspettare l'arrivo di un altro treno. Mentre stavamo mestamente dirigendoci carichi dei nostri bagagli in una sala d'attesa, tra l'altro faceva molto freddo, sopraggiunse un nuovo ferroviere di stampo nazista che, mentre rimproverava il collega che ci aveva fatto scendere, ci intimò di risalire immediatamente nella nostra vettura perché era quello il treno che ci avrebbe portato ad Amsterdam. Risalimmo, partimmo e, piuttosto stremati, ci addormentammo profondamente. Non so a che ora mi svegliai. C'era un silenzio totale, assoluto, tentai di accendere la luce ma capii che non c'era energia elettrica. Non solo, era stato spento anche il riscaldamento. Coprii mia moglie, che continuava a dormire, con il suo cappotto, indossai il mio e con orrore mi resi conto che la nostra vettura si trovava in un binario morto dentro un bosco fittissimo e buio. Lon-tanissimo, forse fu una mia illusione data dallo sconforto o dal sangue grosso, sentii un ululare di lupi.
Percorsi tutta la vettura chiudendo accuratamente sportelli e finestrini, poi mi andai a sedere abbracciato a mia moglie così da scaldarci reciprocamente. Era giorno chiaro quando da uno scossone violento, capii che la nostra vettura era stata agganciata da una motrice. Infatti poco dopo facevamo parte di un convoglio che partì con decisione e sicurezza. Siccome passò nel corridoio un ferroviere che indossava una divisa a me sconosciuta, gli domandai se quel treno andasse ad Amsterdam. Il suo 'ja' mi tranquillizzò.
L'orario di inizio del convegno che mi era stato comunicato a Roma, doveva essere alle nove del mattino, ma noi a quell'ora non avevamo ancora superato il confine con l'Olanda. A farla breve arrivammo alle due del pomeriggio. In albergo trovai un biglietto che mi avvertiva che il convegno si sarebbe tenuto nella cittadina di Hilversum, in uno studio della televisione Vos. Informandomi con il portiere scoprii che la cittadina si trovava a mezz'ora di treno dalla capitale. Così, per non perdere altro tempo, mi diedi una rapida rilavata, non mi cambiai nemmeno gli abiti stazzonati, e mi precipitai a prendere il trenino, sperando tra me e me, che forse il ritardo non sarebbe stato notato data la presenza di trecento altre persone.
Quando arrivai finalmente all'ingresso della Vos, dissi che ero l'inviato italiano per il convegno. Il portiere balzò subito in piedi e mi accompagnò, sollecitandomi, fino a davanti la porta di uno studio. Me la indicò, io aprii ed entrai. Lo studio era piuttosto grande e assolutamente deserto, fatta eccezione di quattro persone sedute attorno a un tavolo. C'era una quinta sedia vuota, evidentemente quella destinata a me. Il che stava a significare che quei quattro signori stavano aspettandomi dalle nove del mattino. Si alzarono e mi vennero incontro con le mani protese, io cominciai a stringerle cercando di spiegare, in italiano, i motivi del mio ritardo.
Mi interruppero subito invitandomi a parlare in inglese, lingua a me sconosciuta. Dissi, cominciando a sudare freddo anche perché non capivo perché mancassero le altre 295 persone, che parlavo solo il francese. Allora uno dei quattro si presentò, dicendomi che era il vicedirettore generale della radio francese, e che volentieri avrebbe fatto da interprete. A farla breve, a Roma avevano sbagliato a darmi quelle indicazioni. Si trattava di una riunione en petit comitè, a livello di vicedirettori generali delle rispettive radio di Francia, Inghilterra, Germania, Olanda e Italia per decidere come e dove si sarebbe tenuto nell'anno successivo, l'incontro con i trecento tecnici che avrebbero dovuto scambiarsi pareri, opinioni su quella particolare tecnica di ripresa. Era quindi una riunione ad alto livello prettamente organizzativa e la mia presenza era dunque assolutamente inutile, in quanto non avevo alcun potere decisionale rispetto ai vicedirettori.
Così, riuscendo a malapena a contenere la rabbia per la figura che avevo fatto, chiesi scusa per la lunga attesa alla quale avevo sottoposto gli altri quattro e per la mia presenza incongrua, mi congedai e mi avviai verso la porta.
Venni fermato dal francese che disse: "Attendez un moment, s'il vous plait". Poi si mise a confabulare con i suoi colleghi, alla fine mi fece cenno di tornare a sedere e parlò.
"Senta" - disse - "Noi siamo qui per risolvere i problemi soprattutto amministrativi relativi all'organizzazione e all'ospitalità. Lei magari, visto che ormai è qui, potrebbe darci anche una mano su come progettare a livello tecnico il futuro convegno visto che nessuno di noi capisce cosa sia la ripresa fonica circolare".
E fu così che riuscii a riparare alla mia figuraccia illustrando ai vicedirettori le nuove scoperte nel campo della sperimentazione radiofonica.
Per la cronaca, ebbi l'idea di organizzare una sorta di concorso internazionale su quella particolare tecnica di ripresa.
L'anno seguente tornai a Hilversum, dove era stato appunto indetto il convegno, ma questa volta con le carte in regola e trovando tutti i trecento tecnici.
Sempre per la cronaca, il concorso venne vinto dall'Italia con un originale radiofonico, ripreso genialmente dal regista Giorgio Pressburger.

Andrea Camilleri

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2017)


 
Last modified Sunday, September, 10, 2017