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Invisibili

Minori migranti detenuti all’arrivo in Italia



Autore Amnesty International
Prezzo Euro 12,00
Pagine 144
Data di pubblicazione 2006
Editore EGA
Collana  


Sono minorenne e non posso stare qui perché tutte le persone che sono qui non vogliono che sto con loro perché io sono un bambino (...) ed è troppo brutto stare qui; sono arrivato al punto che non dormo la notte (...) e vi chiedo gentilmente lasciatemi andare via da qui il più presto possibili. Grazie.


Ogni anno centinaia di minori giungono sulle coste italiane dopo un viaggio rischioso, soli o tra le braccia dei genitori. Provengono da Eritrea, Etiopia, Somalia, Tunisia, Marocco, Iraq e altri paesi in cui la violenza e povertà ne hanno causato la partenza.
L'Italia li rende invibili, tenendoli nei centri di detenzione all'arrivo, negandone l'esistenza al loro interno, non pubblicando i dati che li riguardano.Le allarmanti denunce raccolte da Amnesty International in questo rapporto riguardano l'illegittimità e le insoddisfacenti condizioni della detenzione, lo scarso contatto con il mondo esterno e i rischi di espulsione di minori non accompagnati a causa di uno scorretto giudizio sulla loro età.
Esse rendono urgente l'adeguamento delle politiche italiane agli standard internazionali sui diritti umani, tra cui quelli che relegano la detenzione dei minori a casi eccezionali e impongono alle autorità una cinsiderazione prioritaria del loro "superiore interesse".


Storia di Milo, bambino invisibile

Mi è capitato, tempo fa, di leggere una buona inchiesta giornalistica sui minori che venivano clandestinamente introdotti in Italia per scopi commerciali. Lo so che quest’ultima frase suona abbastanza sgradevole e pesante, ma come si potrebbe altrimenti chiamare l’introduzione e la destinazione finale di bambini che verranno impiegati nell’accattonaggio, nello sfruttamento sessuale oppure saranno usati come portatori di organi sani da spiantare?
Quell’inchiesta mi colpì molto e l’associai a una terribile, angosciante immagine che mi porto dentro da sessant’anni senza riuscire a liberarmene: la fotografia di un bambino durante una retata nazista nel ghetto di Varsavia.
Il bambino, malvestito, denutrito e con una coppola da grande in testa, sta con le mani in alto davanti a un gruppo di soldati tedeschi armati fino ai denti. Lo sgomento, il terrore che si leggono nei suoi occhi sono indescrivibili. E insieme si scorge un dolore profondo, già consapevole dell’offesa, della ferita insanabile.
Di fronte a una foto come quella (e ancora non ero padre, ancora non ero nonno) mi sentii colpevole quanto i nazisti, un complice involontario dell’orrore per il solo fatto di essere uomo.
All’inchiesta giornalistica mi venne allora istintivamente d’associare, ed era inevitabile, il ricordo della fotografia del bimbo nel ghetto. Il tutto mi provocò una sorta di violento cortocircuito in seguito al quale scrissi il romanzo "Il giro di boa" basato appunto sull’oscena tratta di bambini. Naturalmente, dato che si trattava di un romanzo, ho seguito gli impulsi della mia fantasia. Che in alcuni momenti, lo confesso, m’è parsa perfino eccessiva. Mentre invece, a leggere questo rapporto, tutta la mia fantasia si rivela ben povera cosa.
Perché l’argomento qui ampiamente trattato non è il destino dei minori che vengono introdotti, come si è detto, per usi commerciali, ma l’accoglienza (si fa per dire) normale (si fa sempre per dire) riservata ai minori che arrivano fortunosamente sulle nostre spiagge coi loro genitori o senza. Qui vediamo come all’orrore dello schiavismo più lurido venga sostituito il pari orrore della stupidità, della cecità, della sordità, dell’indifferenza o peggio della malvagità burocratica più o meno cosciente, trasformato però in norma, in procedere quotidiano, in consuetudine.
Milo, che ha appena quattro anni, arriva in barca a Lampedusa nel marzo 2005 con un uomo e una donna che si dicono suoi genitori. Il bambino ha una gravissima malformazione che gli impedisce di camminare o di fare i movimenti essenziali per sopravvivere. I tre vengono trasferiti a Crotone, dove l’uomo che diceva di essere il padre di Milo si rende, dopo pochi giorni, irreperibile. Il 25 marzo un’avvocatessa che fa parte di una ONG italiana, visitando il centro, parla con la madre di Milo la quale le dice che il bambino, prima del suo arrivo in Italia, aveva subito un’operazione allo stomaco e che la notte (cosa confermata da altri) spesso la passava a piangere.
L’avvocatessa segnala la situazione allo staff dirigenziale del centro e viene rassicurata: è imminente il ricovero del bimbo all’ospedale di Catanzaro. Otto giorni dopo l’avvocatessa si reca nuovamente al centro e Milo è sempre lì, non è stato ancora portato all’ospedale. Perché? Boh...
Ottenuto dalla madre del bimbo un mandato scritto per la loro difesa, l'avvocatessa domanda allo staff la documentazione medica relativa al bambino per richiedere un permesso di soggiorno per motivi di salute. La documentazione e gli altri certificati vengono promessi, ma non arriveranno mai. Quando l’avvocatessa torna nel centro, la donna e Milo non sono più lì. Sono scomparsi nel nulla. Le autorità preposte dichiarano, dopo molte insistenze, che la donna e il piccolo non si trovano più nel centro perché avevano ricevuto un permesso di soggiorno. Richiesto da chi? Quando? Come? Boh, non si sa.
E questo trattamento sarebbe normale? Questa è la cura e l’attenzione che noi italiani sappiamo prestare a un esserino così gravemente menomato? Ma non c’è da vergognarsi nuovamente d’appartenere all’umanità? Basta una persona, come l’avvocatessa di Milo, a riscattare queste nostre enormi colpe? Temo proprio di no.
Pietà l’è morta, disse qualcuno nei giorni della guerra di Liberazione. Ma qui, assieme alla pietà, muore anche la dignità dell’uomo.

(dalla Prefazione di Andrea Camilleri, su l'Unità, 24.2.2006)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011