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La mia isola in nero

Non so se esista un modo per definire il giallo siciliano. C'è un giallo scritto da autori nati in territorio siciliano, che ambientano le loro storie nella regione in cui sono nati e in cui vivono. Facendo un esempio, è curioso dire «gli scrittori siciliani Verga e Capuana». Credo che sia più giusto dire «scrittori che ambientano le loro storie in Sicilia».
D'altra parte altri autori italiani ambientano le loro storie gialle nelle città in cui vivono. Allora anche in questo caso definizioni quali «giallo bolognese» o «scuola milanese», sarebbero un errore.
La questione è un'altra: in Sicilia, come nel resto d'Italia, c'è un proliferare di scrittori convinti che esordire con un romanzo poliziesco non dia «meno punti in classifica», ma che oggi il giallo abbia la stessa dignità letteraria del romanzo classico. Per un esordiente è più facile muovere i primi passi, come si fa da bambini in un girello, all'interno del genere poliziesco.
Anche nel passato ci sono esempi illustri di questa convinzione: basti pensare all'esordio di Leonardo Sciascia che, nel 1961, scriveva un giallo, Il giorno della civetta, che è tra l'altro il primo
giallo sulla mafia. Ma era abbastanza isolato in questa convinzione, come ci ricorda anche l'aneddoto dello scambio di lettere (perché non fu una vera polemica) tra Calvino e Sciascia.
Italo Calvino sosteneva l'impossibilità del giallo, del genere poliziesco, in Sicilia. Il romanzo di Sciascia ne fu una palese smentita, perché semmai c'era un problema di imbarazzo tematico. L'affermazione di Calvino continua ad essere smentita anche oggi dal moltiplicarsi di nuovi giovani scrittori che iniziano proprio con un giallo. Il discorso che allora fece Leonardo Sciascia fu quello importantissimo di parlare della mafia e di portarla a livello di romanzo, dando ampiezza e risonanza alla questione mafiosa. Così facendo corse un rischio, che superò brillantemente: un romanziere e raccontatore del calibro di Sciascia, nel momento in cui metteva mano a personaggi di mafia, rischiava inevitabilmente di nobilitarli. Erano però personaggi che già per il solo fatto di essere tali, avevano una valenza molto differente dai loro modelli reali. E non è un caso che in fondo un detto di Don Mariano Arena, il capomafia de Il giorno della civetta, quello sulla divisione dell'umanità in «omini e ominicchi» sia entrato nell'uso comune. Ma è un modo di pensare mafioso.
Oggi invece in molti romanzi polizieschi siciliani la mafia rimane «un rumore di fondo», perché mentre ai tempi di Sciascia nella mafia c'era il rispetto di regole - ben inteso le loro – una sorta di disciplina, oggi è molto difficile muoversi all'interno dell'anarchia, o invisibilità, della mafia. Penso che, mentre prima era possibile decifrare un codice specifico della realtà mafiosa (ben inteso che io non faccio distinzione tra mafia buona e mafia cattiva, quelli erano e sono degli assassini...), oggi sia impossibile farlo, anche perché se prima c'erano veri e propri rituali mafiosi, come quello del riconoscersi in una Famiglia, ora per riconoscersi è sufficiente una password su Internet. Un altro
elemento da notare nei gialli siciliani odierni è l'assenza di investigatori privati. O ci sono degli investigatori casuali, occasionali, o ci sono degli investigatori «istituzionali». Prendiamo il caso del primo dei due libri di Santo Piazzese. C'è un professore che, per muoversi e indagare, si appoggia ad un commissario di polizia. Oppure c'è il caso di Piergiorgio Di Cara che ha introdotto nei suoi romanzi la figura autoreferenziale di un commissario di pubblica sicurezza.
Credo che il problema, in Italia, ma anche in Europa, sia quello dei limiti d'azione che hanno i veri investigatori privati. Solo da pochi anni un investigatore privato ha la possibilità di muoversi, su ordine di un avvocato, per indagare su un fatto di sangue. Prima non gli era consentito. Poteva agire solo in casi di spionaggio industriale, al massimo livello, oppure doveva lavorare su questioni di corna. Insomma, era un raggio d'azione molto limitato, a differenza del poliziotto istituzionale,
del commissario o del tenente dei carabinieri.
C'è un altro presunto limite nelle nostre storie: l'ambito geografico. Un autore come Manuel Vázquez Montalbán sposta facilmente i suoi personaggi da Barcellona a Madrid, addirittura
a Bangkok, mentre i nostri siciliani si muovono solo all'interno dell'isola o addirittura in un singolo quartiere della loro città. Questo succede perché, paradossalmente, puoi trovare Bangkok direttamente in Sicilia, mentre è difficile per esempio trovarla a Barcellona. Si tratta inoltre di un dna molto diverso dei personaggi. Pepe Carvalho è un poliziotto privato che coincide esattamente con il senso di viaggio continuo che Montalbán aveva. Non a caso il suo ultimo libro Millennio (Feltrinelli, 2004), che ha come protagonisti Biscuter e Carvalho, è tutto un lungo giro del mondo, in cui Montalbán ha tentato la fusione di libri leggendari della nostra epoca, come Il giro del mondo in 80 giorni di Verne, con l'indagine gialla. Ma si può permettere questo tipo di operazione perché Carvalho è un ex agente della Cia, perché ha girato il mondo, mentre gli investigatori che popolano le nostre storie sono un po' come Totò, al massimo hanno fatto il militare a Cuneo...
Ma non credo che questo renda asfittico, autoreferenziale, il giallo scritto in Sicilia. Certo, la Sicilia non è Los Angeles, ma quello che conta è la varietà di ciò che racconti. Nella mia Vigata le storie, i delitti sono tanti e tali da far impallidire la Chicago degli Anni 20. E per ciò che riguarda i personaggi, gli uomini, le ambientazioni, credo che la Sicilia sia così prismatica da essere una fonte
inesauribile di spunti.
Anche la tradizione letteraria funge da collante con il passato. E' una cosa strana. Sarà che siamo gente isolana, ma è come se la nostra cultura – quello che hanno significato Verga, Capuana, e quello che continuano a significare – non fosse evaporata.
Veniamo tutti da lì, compressi in questo triangolo che è la Sicilia, come se ci si trovassimo nel catalogo di una grande casa editrice. Nella nostra cultura, in elenco, ci sono non solo i Verga, ma anche Brancati, Bufalino, Sciascia e soprattutto Pirandello. E' singolare come in Sicilia i confini dell'isola conservino come in una «burnìa» (un'anfora, ndr) ben tappata tutti i colori, gli odori e i sensi di una letteratura.
Poi c'è il problema della lingua. E' chiaro che in Sicilia la forza del dialetto ha un'intensità sufficiente da porsi come problema per uno scrittore, mentre in altre zone d' Italia la sua forza ha perso vivacità e valore. Qualcuno di noi si è buttato a capofitto nel dialetto, qualcuno invece ha preferito tenerlo a bada, ma il dialetto siciliano è comunque sempre presente in tutti gli scrittori di
questa terra, sia quelli di genere che non. Perché se si vuole realisticamente trattare un soggetto poliziesco è molto probabile imbattersi in un contadino che ancora ti parla in dialetto, e dunque bisogna in qualche modo rendere questo idioma. Ma anche se leggi un libro di Simonetta Agnello Hornby ritrovi l'eco o la citazione del dialetto vivo... Per quanto mi riguarda, è stato Gadda a darmi il coraggio di scrivere in dialetto, di confrontarmi con un uso differente della lingua, anche se dire che io sono letterariamente debitore di Gadda è un errore madornale, perché l'uso che lui fa del dialetto è di ben altro livello rispetto al mio.
Io credo che il successo di Montalbano, dell'ambientazione siciliana, del fatto che anche in Sicilia si potesse scrivere un giallo che non trattasse di mafia, abbia influito abbastanza sulla produzione di genere dei più giovani; eppure ci sono delle sostanziali differenze. A me piace quando la critica giudica un libro di per sé, senza paragonarlo a Montalbano o ad altri esempi. Mi fa piacere scoprire
l'autonomia degli altri scrittori di gialli siciliani, io che li leggo quasi tutti. In questo sono stato contagiato da Sciascia, che amava gli scrittori siciliani verso i quali largheggiava rispetto alla «tirchieria» che aveva verso gli scrittori del Nord. Certo, non è che mi chiami fuori dalle mie responsabilità, le ho dichiarate apertamente, ma, ripeto, mi piace l'autonomia di stile, linguaggi, vicende. Anche perché se fino ad oggi la Sicilia ha calamitato molta attenzione, il rischio di saturazione è sempre dietro l'angolo. E la saturazione c'è nel momento in cui avviene la ripetizione. Per questo sono tanto più contento quanto meno Montalbano trovo. Se i nuovi scrittori si tirano fuori e scrivono, sempre della Sicilia, ma seguendo una strada diversa, allora il rischio di saturazione non esiste.
Ai giovani suggerisco allora di continuare a scrivere come scrivono, e di non perdere l'occasione
di confrontarsi con la propria tradizione e con gli altri scrittori. A Courmayeur ci sarà un'ottima opportunità per farlo, e auguro loro di trovarsi bene come è successo a me. La prima volta che sono andato al Noir in Festival, da buon siciliano, ho fatto la stessa figura di Totò e Peppino a Milano. Sono arrivato col colbacco. C'era la neve, ma io sono stato benissimo perché Courmayeur è un ottimo luogo di incontro e di scambio.

Andrea Camilleri

(Intervento per la tavola rotonda Nero di Sicilia, Noir in Festival 2004; pubblicato su ttL, 4 dicembre 2004)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011