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La scoperta dell'alba



Autore Walter Veltroni
Prezzo Euro 16,00
Pagine 154
Data di pubblicazione 2006
Editore Rizzoli
Collana  


“Non così presto venne l’alba, quel giorno di agosto. Ma quando venne fu memorabile. Vidi tutti i colori del mondo, un catalogo delle meraviglie. Vidi la potenza del passaggio, la transizione fatta natura e conclusa, ogni giorno, con meritato successo. Fu un’alba speciale per quel giorno speciale.”


Giovanni Astengo, poco più di quarant'anni, lavora all'Archivio di Stato, dove cataloga le vite quotidiane eppure straordinarie racchiuse nei diari di persone come tante. Ha una moglie in carriera e due figli amatissimi: Lorenzo, ventenne entusiasta e generoso, e la dolce Stella, una bambina down. E c'è una ferita non rimarginata nel suo passato: una domenica mattina, quando lui aveva tredici anni, suo padre è scomparso per sempre, senza un perché. In un'alba d'agosto, un'alba "semplice, banale, senza guizzi né significati", Giovanni prova l'impulso di tornare nel casale di campagna della sua famiglia, il luogo della felicità perduta, abbandonato da decenni. Dentro c'è un telefono di bachelite. Quel vecchio oggetto dimenticato diventa lo strumento grazie al quale Giovanni riesce ad aprire un varco nella barriera del tempo per fare luce sul mistero che ha segnato la sua esistenza.
Il primo romanzo di Walter Veltroni racconta la forza e lo strazio dei sentimenti; è un'imprevedibile indagine, un viaggio nella trama dei nostri giorni, intrecciata con le notizie che filtrano dai giornali e dalla televisione, e una dolorosa immersione nella storia insanguinata degli anni di piombo; è un'appassionata dichiarazione d'amore e di fede nel potere unico della letteratura e dell'invenzione fantastica: il potere di svelare il senso nascosto delle cose, e di regalarci un'impossibile consolazione.


“La scoperta dell’alba”: elogio del romanzo breve
Recensione di Andrea Camilleri (l'Unità, 6.9.2006)

Giovanni Astengo, il protagonista di questo primo romanzo di Walter Veltroni, è un impiegato all’archivio di Stato ed ha il compito di raccogliere, leggere, catalogare e riassumere i diari che assai spesso gente anonima pubblica, frequentemente a proprie spese, con nessun altro scopo se non quello di testimoniare, agli altri, di aver vissuto. È un lavoro che l’appassiona perché gli consente di «vivere molte vite. Vite vere, non inventate come quelle dei romanzi».
Sposato con Giulia, ha avuto con lei un primo figlio, Lorenzo, ora ventenne e, molti anni dopo, una seconda figlia Stella, nata «rotta».
«Rotta», secondo la crudele e innocente definizione di un altro bambino, vale a dire down. La condizione della bambina lentamente finisce con l’alterare l’equilibrio familiare.
Giulia, forse sentendosi in colpa per aver voluto a quarant’anni un secondo figlio, lentamente si lascia sempre più assorbire dal suo lavoro che spesso la porta lontana da casa; Lorenzo, che è un valido interlocutore del padre, sempre più si affeziona a Stella, diventa qualcosa di più che un fratello maggiore, una specie di supplente della madre e un secondo padre.
Naturalmente Stella, che è una creatura dolcissima, ma a volte anche estremamente capricciosa e volubile, si lega moltissimo al fratello. Sicché a poco a poco Giovanni si è anche lui creato un proprio spazio d’autonomia, pur essendo tuttavia assai più presente della moglie davanti ai problemi dei figli. E non solo davanti ai problemi, perché segue con estremo interesse la crescita intellettuale di Lorenzo e nutre uno straziato amore paterno per Stella.
Lo spazio d’autonomia di Giovanni è nella soffitta dove ogni mattina si reca a veder spuntare l’alba e lì ci sono il computer e la televisione della quale ama vedere le immagini senza sonoro.
Un giorno, Lorenzo, che da anni prometteva alla sorella Stella un viaggio negli Stati Uniti, adempie alla promessa. E i due giovani partono, felici. Giulia è anche lei lontana per impegni del suo lavoro. E Giovanni rimane solo in casa. La solitudine fa sì che un’antica ferita di Giovanni, mai in realtà perfettamente rimarginata, torni a dolere.
La vita di Giovanni infatti è stata attraversata e sconvolta da un drammatico evento familiare: suo padre, da qualche tempo nominato Preside della facoltà d’architettura, al posto di un suo collega e amico fraterno assassinato dentro l’università dai brigatisti, scompare da casa un giorno di marzo a metà degli anni settanta, quando lui era un ragazzino. È andato via volontariamente, questo è certo, perché ha riempito la sua valigia, ma rimangono del tutto inspiegabili le ragioni del suo imprevisto allontanamento. Il padre non tornerà mai più. Non so ancora, quasi trent’anni dopo, perché. Ed è questo che mi sembra insopportabile. Un padre può morire, un padre può andare con un’altra, un padre può cambiare continente, ma non può sparire, non può cancellare se stesso e gli altri, non può farsi semplicemente ricordo e assenza.
In questo momentaneo vuoto d’impegni familiari, Giovanni cerca di colmare l’altro vuoto, quello paterno, volendosene almeno dare una ragione, un perché.
E così si reca in una casa di campagna comprata dal padre appena nominato professore di ruolo, e ben presto diventata luogo di allegre riunioni di amici e parenti, tra i quali l’adorato zio Giorgio, estroso viaggiatore di continenti lontani. La casa di campagna, dopo la scomparsa del padre, è stata abbandonata, colpevole di essere diventata la concreta memoria di un tempo felice.
Il giardino ora è ridotto a un intrico di piante e arbusti selvatici, ma c’è ancora l’albero sulla cui corteccia lo zio Giorgio, con un taglierino, usava segnar con diverse tacche la sua crescita da bambino, dai quattro anni fino ai nove. La casa, completamente coperta d’edera, è assai malandata ma ancora regge. Naturalmente, via via che s’addentra nelle stanze e ne apre le finestre, il fascio di luce che penetra dentro rende più vividi e dolorosi i ricordi di Giovanni.
Nella stanza dei genitori, completamente vuota, Giovanni scopre, a terra, un vecchio telefono di bachelite nera e alcuni elenchi telefonici di quasi trent’anni prima. Per pura curiosità, solleva la cornetta e, con grande stupore, si rende conto che la linea c’è, che il telefono inspiegabilmente funziona ancora.
Allora chiama casa e ufficio di adesso, ma anche, sfogliando l’elenco, pure i numeri di amici di allora. Anche aggiungendo il prefisso, il telefono resta sempre muto. Quando sta per andarsene, per gioco, compone il numero della casa dove abitava quasi trent’anni prima. E stavolta qualcuno risponde, un bambino. Sconvolto, riattacca.
Poi prova a rifare quel numero col suo cellulare, ma la linea non prende. Ripresosi un poco dal «disordine» nel quale è precipitato, rifà il numero col telefono di bachelite nero. E il bambino torna a rispondere.
E Giovanni capisce che quel bambino è lui stesso, quel telefono opera una sorta di distorsione spazio-temporale che consente a Giovanni adulto di parlare con se stesso bambino. E capisce anche che, giovandosi della sua esperienza, ora può con opportune domande avere da se stesso bambino una visione delle cose diversa da quella che lui poteva avere a quell’età.
Si spaccia per lo zio Giorgio che telefona dagli Stati Uniti e, avendo saputo che quella telefonata si sta svolgendo due giorni prima della scomparsa del padre, segue, come dire, in diretta quell’evento drammatico e poi, giorno dopo giorno, a cominciare da subito dopo la scomparsa, guida la ricerca del bambino tra gli effetti personali del padre alla ricerca di qualche traccia allora sfuggita o ritenuta priva d’importanza.
Intanto il viaggio negli Stati Uniti di Lorenzo e di Stella diventa, per Lorenzo, una sorta di incubo. Non sopporta più i capricci e le volubilità della sorella e prega il padre di venirsela a riprendere. Ma Giovanni non può in questo momento spezzare il misterioso e fragile dialogo con se stesso bambino. Inaspettatamente, a partire per gli Stati Uniti sarà Giulia. Finalmente un giorno Giovanni bambino comunica a Giovanni di aver trovato un giornale con una notizia che il padre scomparso ha sottolineato: è la notizia dell’arresto di due uomini e di una donna, colpevoli dell’assassinio del professor Tessandori, l’amico fraterno del padre, la cui morte ha permesso al padre di succedergli quale Preside della facoltà.
Tornato a casa sua, Giovanni ricerca su Google notizie degli assassini di Tessandori e apprende che la donna ora è in stato di semilibertà e lavora in una biblioteca che Giovanni conosce. Decede di andarla a trovare.
Ma prima passa dal suo ufficio e cerca tra i diari quelli catalogati sotto l’indicazione «terrorismo». Ne scopre uno, «Il progetto e il sangue» che saprà poi che è stato scritto dalla figlia di Tessandori. E sarà proprio questo libro che Giovanni andrà a chiedere alla bibliotecaria ex terrorista. Ma solo quando le rivelerà di essere il figlio del professor Astengo, avrà dalla donna la rivelazione di un’amarissima e tragica verità.
Perché ho raccontato così diffusamente la vicenda narrata in questo romanzo di Veltroni? In primo luogo perché raccontare la trama di un romanzo, di un dramma o di un film significa indicare l’angolazione della propria lettura, dove le omissioni rivelano un’attribuzione di scarsa importanza e le sottolineature l’opposto. In secondo luogo per comunicare al lettore di queste righe il peso, la consistenza, la drammaticità degli argomenti che compongono il romanzo. La massa (adopero un termine prestato dalla fisica) di questo libro di appena 150 pagine è veramente notevole.
Ma questi argomenti come sono narrati da Veltroni? L’autore stesso pare voglia fin dall’inizio offrire al lettore una chiave per intendere la sua scrittura.
Nelle prime tre pagine, gli aggettivi «leggero» e «lieve» sono ripetuti ben cinque volte e poi non tornano più nelle pagine successive. Veltroni è scrittore troppo accorto e dunque quelle ripetizioni vanno intese come una dichiarazione d’intenti. E non è un caso che il nome di Calvino (del quale è appassionato lettore il figlio Lorenzo) compaia già a pagina 19.
Sappiamo tutti che cosa intendesse Calvino per «leggerezza». Ma qui Veltroni adopera anche l’aggettivo «lieve». Una volta lessi, o mi venne raccontato, di una bambina che, dovendo portare un cesto pesantissimo per il manico, chiese che ci venisse posto un fiore sopra. E alla domanda di un adulto che voleva sapere a cosa fosse necessario quel fiore, rispose: «Per alleggerire il peso». Ecco: la massa dell’argomento drammatico di questo racconto è alleggerita dal fiore di una scrittura «lieve», elegante senza volerlo parere, una scrittura che continuamente si sorveglia e vigila per non lasciarsi andare a sovratoni o a sbalzi sopra, o sotto, le righe.
La straordinaria qualità di Veltroni narratore consiste in questo continuo scorrere quieto, in questo fluire qua e là picchiettato da voluti soprassalti di mulinelli o di piccoli gorghi. Tant’è vero che il romanzo può concedersi il lusso di trascorrere dal tono, come dire, intimistico, della prima parte a quello più «fantascientifico» della parte centrale e a quello quasi da «giallo» dell’ultima, senza che il lettore, trascinato e quasi cullato dalla scrittura, avverta lo iato, il punto di sutura tra le varie parti. La felicità della scrittura di Veltroni si potrebbe dire che consista, parafrasando Montaigne, proprio «nella facilità, nell’utilità e nel piacere del suo esercizio».
Ma c’è ancora una cosa che vorrei sottolineare: la perfetta circolarità del racconto. A Giovanni Astengo, raccoglitore, lettore e classificatore di diari che gli fanno vivere molte vite, toccherà d’imboccare la via della scoperta della verità sulla scomparsa del padre attraverso un diario firmato da una sconosciuta. E la raggiunta verità gli consentirà finalmente di saldare il cerchio, di scrivere il proprio diario. Ora si stamperà questa storia. Qualcuno la leggerà, la riassumerà, la archivierà. E così, finalmente, avrò vissuto davvero.
Sono le ultime parole del protagonista. C’è solo da aggiungere che se l’archivista Astengo «ha vissuto», il romanziere Veltroni ha cominciato, e molto bene, a vivere.



Last modified Wednesday, July, 13, 2011