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L'insostenibile leggerezza di Andrea Camilleri

di Antonio Di Grado, Università di Catania

 

Andrea Camilleri “uno e due”, avrebbe detto Pirandello, che a Camilleri regista è familiare, per alludere ai modi e ai tempi felicemente inconsueti del “caso Camilleri”. Dopo il “caso Bufalino”, d'un esordiente sessantenne fin lì astenutosi e poi generosamente prolifico e barocco, l'esplosione del talento letterario di Camilleri avviene in modo analogamente tardivo, ma non a partire da una condizione d'anonimato, anzi al culmine d'una prestigiosa carriera teatrale, e tuttavia con un carattere di cesura, di brusca soluzione di continuità, addirittura di ricominciamento: perché lo scrittore Camilleri è fresco e insofferente come un ventenne, pratica il giallo che è a sua volta un genere giovane e insofferente (e il polittico giallo-noir del commissario Montalbano è, addirittura, un esempio di cult presso un pubblico prevalentemente giovane), gioca con le vicende e i personaggi del microcosmo di Vigata (una specie di Macondo isolana), e con la lingua (quell'improbabile italiano sicilianizzato, maccheronico, espressionistico), con felice, fanciullesca anarchia.

Una sorta di scrittore bifronte, perciò, egualmente partecipe dell'archetipo del puer, del Fanciullo irridente e sovversivo, divinità tutelare del perpetuo inizio, dello stato nascente, della disponibilità a far tabula rasa di norme e forme consacrate, e di quello del senex, e non solo per ragioni banalmente anagrafiche, ma in forza d'una dissimulata sapienza che una vita di studi e di messinscene ha tesaurizzato e che, nella scrittura, si stratifica con leggerezza, come uno spolverìo di spezie, come una ragnatela d'ammiccamenti, come un gioco di specchi dove quella superficie di diletto e levità scherma con signorile sprezzatura una consumata maestria, addirittura una vocazione metaletteraria affidata ad allusioni cifrate, a citazioni solo apparentemente casuali.

La lettura di un piccolo capolavoro come Il birraio di Preston regalò, or sono pochi anni, e non solo al pubblico ma pure agii addetti, una ventura oggi rara: quella di divertirsi francamente, e perciò di chiedersi, pure, perché mai si sia affermata in Italia una concezione penitenziale, espiatoria della scrittura letteraria (e perciò della lettura) come arida disciplina e dolorosa iniziazione, come inevitabile fonte di lacrime e tedio.l Anche nel caso d'un genere irridente e irriverente com'è, per origine e statuto, il romanzo, scritture aspre e scostanti, e male auguranti avventure, hanno tenuto il campo; e tanto più in terra di Sicilia, dove ancor oggi si elabora il lutto per il naufragio della “Provvidenza” e la sconsacrazione della casa del nespolo. E dire che non mancavano vistose eccezioni: dal grottesco derobertiano all’”umorismo” pirandelliano, all’ironia brancatiana, lungo la linea illuminata da un riso atrabiliare e sarcastico, carico di veleni critici ma anche di beffarda libertà intellettuale e morale, perciò votato alla sconsacrazione di valori e linguaggi codificati. È questo il filone cui idealmente si lega Camilleri: è quel filone laico e scettico che convertì l'amarezza e la “disdetta” in libertà romanzesca e in contro canto irridente, in stridente “umorismo” e in vivace plurilinguismo.

E se abbiamo scelto d'iniziare un breve discorso sui “gialli” di Camilleri partendo da un romanzo come il Birraio, in cui il “giallo” è solo uno dei colori profusi dallo scrittore empedoclino, è proprio per il suo carattere d'affresco, che contiene per l‘appunto tutte le gamme dell'ispirazione e dell'espressività di Camilleri (in attesa, naturalmente, di leggere il capolavoro annunziato e lungamente elaborato, ovvero Il re di Girgenti. Tornando dunque al Birraio, l'evento storico prescelto da Camilleri nella sovraffollata anti-storia dei “vinti”, e ricavato dall'inchiesta parlamentare del 1875-‘76, è in quel romanzo il caso d'una prevaricazione prefettizia ai danni d'una comunità isolana: una prevaricazione artistica, vale a dire la messinscena - in occasione della inaugurazione del teatro - dell'ignoto melodramma Il birraio di Preston, del vieppiù ignoto compositore toscano Luigi Ricci; una prevaricazione nordista e centralista, che acquista ulteriori risvolti parodistici in tempi, come i nostri, di farneticazioni secessioniste e di contrapposte retorichette patriottiche.

Quella contrastata messinscena si trasfigura in un evento epocale e dà fiato a una ridda di personaggi, di voci, di vezzi, di gerghi, di tic, ma anche d'interessi, di cupidigie, di risentimenti, di follie, di crimini, che interagiscono in un ricchissimo - ed esilarante - concertato da opera buffa, in una fantasmagorica babele di linguaggi, di effetti, di trovate che sono un trionfo dell'intelligenza e - per il lettore - del godimento, d’un “piacere del testo” finalmente ritrovato.

A fronte della straripante ricchezza imprigionata in quel piccolo volume, è meglio astenersi dalla parafrasi critica che omologa e impoverisce; resta, semmai, da fare una chiosa, e a proposito di quel filone “umoristico” individuato e affinato da Pirandello: nel quale svetta, dopo quello di Cervantes, il nome di Sterne, e il travolgente anti-romanzo di Tristram Shandy. E sterniano nella forma (i capitoli intercambiabili, gli indugi e le digressioni, la casualità e confutabilità dell'articolazione narrativa) e nello stile, e nelle travolgenti trouvailles, è il Birraio di Camilleri, che si offre come una rete di percorsi e come un sistema di segni e come un centone di “parità”, nella cui multiforme fenomenologia si sfaccetta e si problematizza l'insostenibile leggerezza dell’essere: dell’essere siciliani, allora come oggi.

E all’oggi, alla sua irredimibile pesantezza, Camilleri applica per l’appunto il filtro del giallo, ma d’un giallo al tempo stesso doverosamente stereotipato (infarcito, cioè, di quei tòpoi che fondano la detective-story e la rendono riconoscibile come un approdo, e le conferiscono il sottile fascino della serialità, del vizio tenacemente praticato) e felicemente innovativo, a partire dal protagonista, quel Montalbano che forse allude a Montalbàn e al suo Pepe Carvalho, e che è sì il duro e smagato detective, segnato da lividi e carezze, dell'hard boiled d’oltreoceano e del noir cinematografico d’oltralpe, ma è anche un siciliano di quelli laconici e melanconici, caparbi e sornioni, votati a spietate inquisizioni ma anche ai tormenti del dubbio, e a convivere con il loro metafisico spleen insulare come con un compagno segreto, com’era Leonardo Sciascia, com’era Giovanni Falcone.

Questo, che dal passato rivisitato, ironizzato, problematizzato della Stagione della caccia, di Un filo di fumo e del Birraio di Preston trascorre al presente attualissimo, post-sciasciano, da seconda repubblica trasformisticamente identica alla prima, dei gialli siciliani del commissario Montalbano (La forma dell'acqua, Il cane di terracotta, Il ladro di merendine, La voce del violino, La gita a Tindari, per non dire delle due raccolte di racconti e del recentissimo L'odore della notte), è l'altro Camilleri: e sono elisir diversi, più sottilmente insinuanti, quelli che si sprigionano da una produzione apparentemente più facile, più routinière, in realtà altrettanto complessa e polifonica, altrettanto impregnata d'idee e di umori.2

E intanto: si tratta di gialli, certo. Anzi, per certi aspetti, di noirs: un “nero siciliano” che si potrebbe pensare inaugurato da Sciascia (“nero su nero”, verrebbe voglia di dire: il nero d’una scrittura netta, impietosa, sul nero d’una realtà opaca, irredimibile). Ma la soluzione non è mai interna al meccanismo poliziesco né all'apparato indiziario messi in moto dal delitto, o dai delitti, su cui s’apre il romanzo. Essa si trova in un oggetto (il cane di terracotta, il violino) o in un'immagine (la forma dell'acqua, il ladro di merendine, l'olivo saraceno) evocati nel titolo, esterni al milieu affaristico-mafioso che alimenta ma non motiva il crimine, allusivi semmai a ben altri scenari, a più profondi e inconfessabili segreti: un'enigmatica statuetta, un simbolo funerario, che sposta l’asse dell’indagine dal “contesto” criminoso a una travolgente - e remota - storia di amour fou; un innocente furtarello infantile che da una parte rimanda addirittura a un “intrigo internazionale” alla Le Carré, e trasforma la detective-story in spy-story, ma dall'altra scopre un nucleo d’infinita tenerezza, il microcosmo dell’immigrazione e soprattutto dell’infanzia offesa, che da quel momento, e anche nel romanzo successivo, s’accampa al centro della vita privata dell’inquirente, e accampa quest’ultima al centro, e non più sullo sfondo, dell’indagine.

Perché il paradigma indiziario del commissario Montalbano è quello stesso di Edipo, del resto citato nella Voce del violino: ogni indagine è un’autoindagine, mette in causa in primo luogo l’io che indaga, lo coinvolge in una rete di corresponsabilità morali e lo fa vibrare di con-passione, ovvero di scontrosa pietà per le vittime inermi, per gli spettatori sgomenti e come lui impotenti, dell’ ”universo orrendo” che li circonda e li opprime. E quei titoli sono perciò un’insegna, una trasparente allusione a quel nucleo di umanissima pietas ch’è il cuore segreto e l’autentico motore del romanzo; e a quel cuore, a quella verità Montalbano perviene non già astrattamente deducendo come Holmes, o sgomitando tra il fango e i cazzotti come Marlowe, ma divagando, letteralmente distraendosi dal filone principale dell’inchiesta, concentrandosi su un rebus iconografico o su una monelleria infantile o sulla voce d’un violino o su un’intrico di rami, estranei e remoti dal delitto o dai delitti in questione, ma che - in premio alla cocciutaggine e alla libertà interiore più che a una superiore intuizione - si rivelano, viceversa, veri e propri oggetti ermeneutici, privilegiate chiavi di lettura.

Eccola, dunque, la gremita, disordinata arrière-boutique del commissario Salvo Montalbano. Il quale non somiglia ai suoi illustri predecessori né ai raziocinanti e tormentati inquirenti sciasciani, ma nemmeno al Carva1ho di Montalbàn, di cui solo apparentemente condivide certe smanie gastronomiche, tutt'altro che raffinate e fantasiose nel caso di Montalbano, in preda semmai a un’incontinenza alimentare che sicilianamente lo vota a pasti grevi, travagliate digestioni e sonni comatosi, decretando il ferale trionfo d’una corporalità che grava e ottunde, o esalta e strema come una sfida. E che trova requie solo nell’universo sobrio e silente, e forzatamente continente, della vecchiaia (ancora l’archetipo del senex!), in quel microcosmo di vecchie signore, affabili pensionati e appartati consiglieri in cui il commissario trova rifugio e i suoi “casi” soluzione, e dove s’aggira un’ombra discreta ch’è un trauma irrisolto, un “rimosso” troppo ostinatamente tenuto a bada, un padre trascurato e rimpianto.

Ma dei traumi, e delle “questioni private” tutte irrisolte, del commissario Montalbano non diremo oltre: tornando piuttosto agli antecedenti e ai modelli, su uno in particolare è il caso di soffermarsi, e cioè sul commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda, lui sì implicato nella configurazione del carattere-Montalbano, e fra l'altro in certe ouvertures condominiali, squarci di quotidiano orrore e maleodoranti omertà, e soprattutto nella lingua, dei personaggi e del narratore, quella originale koiné semivernacolare che non è il siciliano letterario di Verga o di Consolo, ma un’invenzione tendenzialmente gaddiana tanto nelle alchimie lessicali quanto negli esiti espressionistici che ne derivano.

Un pastiche che trasuda umori polemici, impliciti ma affilatissimi giudizi sul presente; tutt’altro, dunque, che un innocuo divertissement. Non bisogna cercarvi, va da sé, parentesi saggistiche o accensioni da pamphlet, alla Sciascia: bastano, a uno scrittore che vive d’invenzioni e al suo personaggio che s'esprime nell’azione, certi accenni distratti ma feroci sui cosiddetti pentiti, o sui servizi cosiddetti deviati; o certi bruschi pronunciamenti del laconico ma indignato, civilmente indignato, Montalbano sui due “stati diversi”, inconciliabilmente separati e antagonistici, serviti dall'umile poliziotto e dall'arrogante, amorale uomo dei Servizi. O la sinistra filosofia vetero-mafiosa dello sciasciano don Mariano Arena, alias don Balduccio Sinagra, di Vento a Tindari, il romanzo che è un requiem del genere-giallo e del personaggio-detective nell’evo di Internet e della morte senza più “una faccia”.

E anche questo rende affatto peculiare, decisamente originale, la sterniana e gaddiana partitura del “caso Camilleri”, quasi un’insinuante, o stridente, “voce del violino” sullo sfondo afono, plumbeo dell'assolata e desolata Sicilia di Pirandello e Sciascia: la Sicilia, dice il catanese Montalbano che l’ama e vi sfoga i suoi astratti furori, “aspra, di scarso verde, sulla quale pareva (ed era) impossibile campare”.

E poi, fra gli ultimi arrivati in casa Sellerio dei popolarissimi volumetti del regista-scrittore empedoclino (che tuttavia aveva esordito altrove, e senza clamore, nel ‘78  con Il corso delle cose), c’è pure La concessione del telefono, che sulla linea del Birraio coniuga divertissement e sperimentazione (è un retablo d’ingegnosi documenti apocrifi e di nudi, serrati dialoghetti, senza didascalie né chiose d’autore), e nel “contropassato prossimo” (per dirla alla Morselli) del picaresco Ottocento vigatese inocula i veleni anti-istituzionali d’un nuovo resoconto di magagne e persecuzioni, ancora una volta incentrato intorno a un ulteriore delirio prefettizio.3 E chi voglia, di questo racconto-pamphlet e di tutta l'opera di Camilleri, risalire all'idea-madre e alla fonte saggistica, non ha che da rileggere La bolla di componenda (1993), semiserio ma accorato regesto di tutti i compromessi (o “componende”, grottescamente burocratizzate) che hanno impedito che in Sicilia s’instaurassero la storia, la civiltà, il diritto.

E tanto basterebbe agl’indignati detrattori che periodicamente si esercitano a demonizzare il “caso Camilleri” invocando il reato di lesa letteratura; oppure, variante non secondaria, di scarsa coscienza civile: quella deficienza - tipicamente siciliana e perciò mafiosa, dicono - che i professionisti dell'antimafia rimproveravano perfino a Sciascia, e che untorelli del rango di Vassalli denunziano - udite udite! - perfino nel gigantesco, impolitico e sicuramente incolpevole Verga.4

 Quanto alla letteratura, codesti suoi sacerdoti ostinatamente ne coltivano un’idea angusta e accademica: la stessa contro cui per secoli sgomitò un sottoprodotto bastardo come il romanzo, con la sua corte di miracoli di trovatelli, prostitute e naufraghi reietti ma ingegnosissimi; la stessa contro cui tutt’oggi s’infrangono generi, linguaggi e autori (da Simenon a Chandler, a Ellroy, alle scritture di frontiera come il fumetto o la sceneggiatura o la canzone d’autore) ancora esclusi dallo spazio sacro in cui l’impopolarità, l’illeggibilità e le complicità universitarie laureano il Vero Letterato.

 

NOTE

1. Il birraio di Preston (Palermo, Sellerio, 1995).

2. A. Camilleri, La stagione alla caccia (Palermo: Sellerio, 1992); Un filo di fumo (ivi, 1980); La forma dell'acqua (ivi, 1994); Il cane di terracotta (ivi, 1996); Il ladro di merendine (ivi, 1996); La voce del violino (ivi, 1997); La gita a Tindari (ivi, 2000); L'odore della notte (ivi, 2001).

3. La concessione del telefono (Palermo: Sellerio, 1998).

4. Lo scrittore Sebastiano Vassalli, soprattutto dopo l'uscita del suo romanzo Il cigno, ha più volte ribadito, in articoli e interviste, la sua accusa a Sciascia e a tutta la letteratura siciliana di non aver denunziato la mafia.

 

(pubblicato su Il giallo, a cura di Antonio Pagliaro; Spunti e Ricerche, volume 16, 2001)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011