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Il commissario Montalbano

Le prime indagini



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 18,00
Pagine 600
Data di pubblicazione luglio 2008
Editore Sellerio
Collana Galleria n.5


Con una nota dell'Autore



Salvo Montalbano, da Vigàta, commissario. Il suo modo di rispondere al telefono, «Pronto, Montalbano sono!» è la frase letteraria italiana oggi più tradotta al mondo.
In questo volume sono raccolti i primi tre polizieschi che lo vedono protagonista.

La forma dell’acqua
Il primo celeberrimo caso di Montalbano: «Qual è la forma dell’acqua?». «Ma l’acqua non ha forma. Piglia la forma che le viene data». Un commissario che indovina la pista giusta per affinità ambientale.

Il cane di terracotta
Un delitto di mafia a Vigàta, che sembra celarne un altro conturbante e rituale: i cadaveri di due amanti nel doppio fondo di una grotta. Sorvegliati, come un sepolcro arcaico, da un grande cane di terracotta. Cinquant’anni prima...

Il ladro di merendine
C’è un legame tra due cadaveri: quello di un tunisino annegato e quello di un commerciante di vino di Vigàta accoltellato dentro l’ascensore. Il legame è rappresentato dal piccolo François, per Montalbano: e l’orrore che scopre gli afferra l’anima più di un fatto personale.


I primi tre Montalbano
Nota di Andrea Camilleri

Questo volume della collana "Galleria" comprende i miei primi tre romanzi che hanno come protagonista il commissario Salvo Montalbano e che sono stati pubblicati tra il 1994 e il 1996.
Tutto ebbe origine da un romanzo "storico" che avevo iniziato a scrivere nel 1993e che verrà edito anni dopo, "Il birraio di Preston". Mi ero accorto, proprio mentre ero impegnato con questo romanzo, che il mio personale modo di mettere su carta un racconto era, come dire, alquanto disordinato.
Mi spiego meglio: tutto quello che avevo scritto, fino a quel momento, era nato da una qualche forte suggestione (il ricordo di un fatto narratomi, una pagina di storia) ed io avevo cominciato sempre a comporre le mie narrazioni partendo proprio da quelle suggestioni, da quegli input, che poi, a romanzi finiti, non avrebbero assolutamente costituito il primo capitolo, ma avrebbero trovato una loro collocazione a vicenda già largamente avviata. Il primo capitolo al quale mettevo mano, dunque, a romanzo compiuto, sarebbe diventato il quinto o il decimo, va a sapere.
Fu così che mi posi una do­manda: ero capace di scrivere un romanzo cominciando dal capitolo primo e proseguendo di seguito, senza salti temporali o logici, sino al capitolo ultimo? Mi risposi che forse ne sarei stato capace se mi fossi auto-­imbrigliato all'interno di una struttura narrativa abbastanza robusta.
Fu a questo punto che mi tornò a mente uno scritto di Leonardo Sciascia sul romanzo poliziesco, sulle regole che un autore di gialli è tenuto a rispettare. E contempora­neamente mi ricordai di un'affermazione di Italo Calvino secondo il quale era impos­sibile ambientare un romanzo giallo in Sicilia. Così decisi di affrontare una doppia scommessa: con me stesso e con l'inconsapevole Calvino.
Ma prima di mettere nero su bianco, riflettei a lungo sulla scelta del protagonista, dell'investigatore.
Avevo praticato molto, in passato, col rac­conto poliziesco perché, in qualità di delega­to alla produzione della Rai, ero stato, tra l'al­tro, il responsabile di tutto il Maigret televisivo e di una serie di Sheridan. Di altri gialli te­levisivi ero stato anche regista. Ma più di tutto aveva influito su di me il modo che il com­mediografo Diego Fabbri aveva di adattare alla tv i romanzi di Simenon: li destrutturava come romanzi e li ristrutturava come sceneg­giature televisive. Stare al suo fianco era co­me andare a bottega da un orologiaio che smontava un orologio e lo rimontava adattandolo a una nuova cassa di forma diversa.
Lì, ne sono convinto, imparai l'arte e la misi, ma senza saperlo, da parte. Di conseguenza. il mio investigatore si delineò subito non come un occhio privato o un annusapatte come li chiamano gli americani, ma come un poliziotto istituzionale, un agente investigativo o un commissario di P.S. Perché non un maresciallo o un ufficiale dei Carabinieri? Avere a protagonista un maresciallo dei Carabinieri mi tentò a lungo, tanto che un maresciallo dei CC era stato l’investigatore del mio primo romanzo, "Il corso delle cose".
Poi optai per un commissario perché lo ritenni meno obbligato a sottostare a certe regole di comportamento dalle quali i militari dell’Arma non possono prescindere.
Quali dovevano essere i segni caratteristici di questo personaggio? Devo dire che mi furono chiari fin da subito: doveva essere un uomo intelligente, fedele alla parola data, restio agli inutili eroismi, colto, buon lettore, pacato ragionatore, privo di pregiudizi.
Un uomo che si poteva tranquillamente invitare a cena in famiglia.
Un uomo che, “quando voleva capire, capiva”, come scrissi già fin dal primo romanzo.
Avevo in mente due nomi per lui, Cecè Collura e Salvo Montalbano, molto comuni in Sicilia.
Decisi di chia­marlo Montalbano in ringraziamento a Manuel Vázquez Montalbán perché un suo ro­manzo, "Il pianista", mi aveva suggerito la struttura definitiva per "Il birraio di Preston".
Chiarite a me stesso queste cose, scrissi il mio primo poliziesco attenendomi alle regole che mi ero imposte (il primo capitolo comincia addirittura all'alba e così sarà per tutti i romanzi che seguiranno) e la Sellerio lo pubblicò nel 1994 con una deli­ziosa copertina.
Avendo certamente vinto la prima scom­messa, quella con me stesso, e molto proba­bilmente anche la seconda, quella con Calvino, il mio impulso immediato fu di finirla lì.
Non lo seguii perché non mi sentivo del tutto soddisfatto di come mi era venuta fuori la fi­gura del commissario. Mi pareva di non aver­lo disegnato compiutamente, di aver privile­giato in lui la funzione di investigatore trascurandone alcuni aspetti caratteriali.
Insomma, mi sembrava risolto solo a me­tà. E lasciarlo a metà mi disturbava molto. Cerco sempre di portare a termine ogni cosa che comincio.
E così, per una sorta di scrupolo artigianale, decisi di scrivere un secondo romanzo su questo commissario e termina­re con esso la mia breve carriera di giallista.
Credo che salti subito agli occhi di tutti, e già fin dalle prime righe, una differenza sostanziale tra il primo e il secondo romanzo: l'alba, nel primo, è vista da due "monnezzari", mentre nel secondo è vista da Montalbano e così sarà per tutti i romanzi a seguire.
Vale a dire che, dal secondo romanzo in poi, ogni cosa che avviene è vista con gli occhi di Montalbano, il romanzo è sempre una sua soggettiva. Non succedono insomma cose al di fuori di lui: o le vede o gli vengono riferite. Sicché il lettore si trova ad avere costantemente in mano le stesse carte che ha il commissario.
Decisi che anche il secondo romanzo avrebbe trattato un'inchiesta sui generis: se il primo era sostanzialmente imperniato su un delitto d'immagine, il secondo sarebbe stato un'indagine sulla memoria, su un delitto accaduto moltissimi anni prima e ormai caduto in prescrizione. Questo secondo romanzo, "Il cane di terracotta", venne pubblicato nel 1996 ed io considerai definitivamente conclusa la mia incursione nel campo della narrazione poliziesca.
Senonché, e per motivi che mi rimangono tuttora inspiegabili, il personaggio incontrò un grosso successo. E non solo: il suo successo fece da traino ai romanzi che avevo già pubblicato, tanto che la Sellerio dovette ristamparli.
Cominciai a ricevere diecine, centina­ia di lettere che mi invitavano, più o meno perentoriamente, a continuare a scrivere di Salvo Montalbano. D'altra parte, il personaggio non aveva bisogno del supporto dei lettori per rompermi continuamente le sca­tole. Mi cominciò a comparire davanti an­che quando meno avrebbe dovuto, assillan­te. Avevo letto di autori che avevano detto di essere ossessionati da alcuni loro perso­naggi e l'avevo giudicata una civetteria letteraria.
Dovetti constatare invece che era una realtà.
Mi venni a trovare nell'assurda condizione di poter pensare a un romanzo "storico" solo a patto di pensare contempo­raneamente a una nuova indagine di Montalbano. Altrimenti non potevo procedere.
E così "dovetti" scrivere, e con una certa ur­genza, il terzo romanzo, "Il ladro di merendi­ne", privilegiando in esso un aspetto del tut­to personale del commissario.
M'illudevo, ancora una volta, di mettere un punto fermo. Proprio non mi andava di diventare uno scrittore di gialli con un perso­naggio, oltretutto, seriale.
Invece fu come gettare benzina sul fuoco.


Guerra in famiglia
Da qualche tempo Montalbano morde il freno. Vorrebbe avere più libertà e maggiore autonomia. Camilleri gli sta addosso, con tutte le sue fisime di padre geloso delle proprie prerogative. La pensa così MontaIbano. E qualche tentazione d'ingratitudine dispettosa ce l'ha. Sta di fatto che in casa Camilleri sempre più spesso si alza la voce; e volano penne, affilate come stiletti: dall'una e dall'altra parte. Volano anche i vocabolari. Montalbano scaglia contro lo scrittore i tomi massicci del "Dizionario della lingua italiana" del Tommaseo-Bellini. Camilleri, a sua volta, bersaglia il commissario con i tomoni in carta massima del "Vocabolario siciliano" di Piccitto.
La prima volta che Montalbano andò a bussare pirandellianamente alla porta del suo autore, Camilleri credette di avere davanti «un uomo che si poteva tranquillamente invitare a cena in famiglia»: un ospite educato dalle buone letture; un investigatore affabile che, nel battere le piste di un criminale, sapeva aiutarsi improvvisando burle e commedie. I guai cominciarono quando Montalbano, nel corso delle sue indagini cominciò a interrogarsi alla Chesterton su come si scrive un giallo; e sulla lingua da adoperare. Con discrezione, comunque. Senza mai rinnegare il suo autore. E anzi, consultandone le opere per meglio orientare il suo fiuto di segugio. Ma l'intesa non era più quella di una volta. Si cadeva nel litigio, tra le mura domestiche. Tanto più che Montalbano andava incupendosi. Era stato sempre visitato dai sogni, che l'alba gli porgeva. Ma ora erano gli incubi che lo andavano a trovare, come menzogne della notte che erano poi le verità diurne di una canagliesca e illegale situazione politica.
Camilleri ha paterna comprensione. E per affetto torna alle origini, all'inizio del rapporto con il suo commissario. Racconta a se stesso, prima che agli altri, la nascita di una intesa. E ripropone "le prime indagini" di Montalbano, senza nascondere la gratitudine per quell'ospite inatteso che gli ha insegnato a disciplinare la sua vocazione narrativa. Le investigazioni di Montalbano nascono nel momento in cui si complicano le investigazioni stanche di Camilleri. In fondo, il romanzo poliziesco è un altro modo di fare storia: attraverso quella cronaca fittizia, che il commissario Montalbano scopre più vera della realtà.

Salvatore Silvano Nigro
(pubblicato sul "Domenicale" de Il Sole 24 Ore del 20.7.2008)



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