Da Falcone ad Andreotti. Sette anni a Palermo
Il racconto dell'esperienza della lotta alla mafia, condotta dalla procura di Palermo negli anni novanta. Un dialogo tra due magistrati che hanno vissuto gli anni del grande scontro con la criminalità organizzata
Un dialogo serrato tra due magistrati che hanno vissuto a Palermo gli anni dello scontro con Cosa nostra. Dall'inedito confronto tra Gian Carlo Caselli (che è stato a capo della procura di Palermo) e Antonio Ingroia (suo sostituto, allievo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) emergono i retroscena delle grandi operazioni antimafia, dei contrasti interni ed esterni alla magistratura, dei rapporti tra politica e giustizia, dei clamorosi casi giudiziari fino al processo Andreotti. Un faccia a faccia che richiama i personaggi al centro delle più importanti inchieste di mafia, da Totò Riina a Tommaso Buscetta, da Balduccio Di Maggio a Giovanni Brusca, in un intreccio inquietante e drammatico. "Mi dico che Borsellino e Falcone hanno avuto ragione a dire che la mafia si poteva battere. Purché lo si volesse davvero..." (Gian Carlo Caselli).
Saggi/ Un appello dello scrittore siciliano
Se convivi col mafioso diventi connivente
Un libro su Caselli e Ingroia. E una satira preelettorale.
Da rileggere adesso. Contro l'indifferenza di chi ci governa
Il libro "l'eredità scomoda", curato da Maurizio De Luca, è un lungo, intenso dialogo tra Giancarlo Caselli, capo della Procura di Palermo dal 1993 al '99, e il suo sostituto Antonio Ingroia, ed è stato pubblicato dalla Feltrinelli nel marzo di quest'anno, vale a dire otto mesi orsono. Nel libro è ampiamente spiegato come Caselli sentì suo dovere morale accettare l'eredità scomoda di Falcone e Borsellino, sono raccontati i retroscena, i contrasti, le perplessità all'interno della magistratura stessa di fronte a complesse operazioni antimafia, sono esplicitati i rapporti non precisamente idilliaci coi poteri esterni a cominciare dal potere politico, le posizioni assunte di fronte al fenomeno dei collaboratori di giustizia e via via fino alla conclusione del processo al senatore Andreotti.
Tra la data di pubblicazione di questo libro e oggi nel nostro paese è stata operata dagli elettori una precisa scelta politica. Questa scelta non è la mia, ma appunto per questo molti di noi sentono il dovere di mettere in guardia la parte più sensibile della classe politica oggi al potere. La mafia si poteva battere purché lo si fosse davvero voluto, dice Caselli. Oggi pare che non solo si continua a non volerlo, ma che anzi a questa malattia mortale venga concessa più ampia possibilità di metastasi. Gli esempi sono già tanti: si va dalla legge sul falso in bilancio a un sottosegretario-avvocato che voleva difendere un boss del contrabbando contro il quale lo Stato si era costituito parte civile, a un ministro al quale scappa di dire che con la mafia bisogna convivere. E meno male che non ha detto connivere. Non c’è tanto da meravigliarsi: dalla mie parti un vecchio detto afferma che "u pisci feti sempri di la testa", il pesce comincia a puzzare dalla testa. Sì, ci saranno ancora leggi contro la mafia, ma generiche e formali, scritte con l'anima e il cuore totalmente assenti. E intanto la polemica contro quello che la Procura di Palermo ha fatto in quegli anni ancora dura, quasi a volerne eliminare anche la memoria.
Subito dopo le elezioni regionali in Sicilia che rinnovavano il successo totalitario conseguito dal Polo alle politiche, il "Corriere della Sera" pubblicò un articolo di fondo dovuto a un suo novista politico. Quel voto, scriveva l'autore, rappresentava la protesta dei siciliani contro lo strapotere della Procura e contro una letteratura, la mia, faceva il mio nome e il mio cognome, che li diffamava in Italia e all'estero. Tralascio quest'ultima fantascientifica affermazione per soffermarmi sulla prima. Ancora, in Sicilia, ci si sta a leccare le ferite inferte dallo strapotere della Procura! E quindi, secondo la logica del giornalista, quel voto significa una richiesta precisa da parte della grande maggioranza dei siciliani al nuovo governo: quando finalmente l'ordine, il loro ordine tornerà a regnare a Varsavia? E uno che scrive questo ha il coraggio di affermare che sono io che diffamo la Sicilia?
In prossimità del voto, collaborai con alcune "lettere dal futuro" alla rivista "MicroMega" di Paolo Flores D'Arcais. In una di esse ipotizzai che venisse emanata una proposta di legge tendente all'adozione di un mafioso o due da parte di famiglie sane e abbienti: il quotidiano esempio avrebbe redento i mafiosi conviventi. Sono bastati solo sei mesi per farmi prendere atto che la mia ipotesi non era poi così paradossale, «con la mafia bisogna convivere», la frase è stata detta. E mi è venuta, a sentirla, una certa rabbia, avrei potuto scriverla io ma me ne mancò il coraggio, mi parve eccessiva anche in uno scritto satirico. No, per il bene del Paese nel quale sono nato e nel quale mi riconosco anche quando sbaglia, mi rifiuto di credere che questo libro di dialogo tra Caselli e Ingroia possa fermarsi a pagina 220. Continua. Deve continuare.
Andrea Camilleri
(l'Espresso, 29/11/2001)
|