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L'isola che c'è

Questo mio scritto vuole essere una sorta di lettera aperta, e a cuore aperto, indirizzata a tutti i miei compatrioti che non sono nati in Sicilia.
Più o meno una ventina d’anni fa, al mio paese, Porto Empedocle, mi venni a trovare una sera, del tutto casualmente, al centro di una strage mafiosa che lasciò sul terreno sei morti e sei feriti. Se mi si domanda cosa provai in quella manciata di secondi (a me sembrarono ore) nei quali le mitragliette crepitarono, so dare una risposta precisa per averci a lungo pensato: orrore, naturalmente, ma soprattutto il senso acutissimo di un’offesa profonda e personale. La paura subentrò solo qualche ora dopo.
Ma perché “personalizzai”, così tanto da sentirlo quasi come una ferita, quel fatto che, tutto sommato, non mi riguardava in prima persona? Anche a questa domanda sono in grado di dare una risposta altrettanto precisa: semplicemente perché in quel momento mi sono più che mai sentito siciliano. Un siciliano profondamente offeso e ferito da quello che stava accadendo attorno a lui.
Da allora in poi, quando vedo che i quotidiani e le televisioni si occupano della Sicilia solo in occasione di fatti di mafia, confesso di provare un po’ dello stesso senso d’offesa che sentii in quell’orrenda occasione. Offesa che una volta si tramutò in aperto sdegno quando mi capitò di leggere (ma spero ancora che si sia trattato di un’invenzione fantastica) che certe agenzie di viaggi avevano organizzato percorsi in pullman sui luoghi tipici della mafia.
Intendiamoci bene, non sto affatto affermando che di mafia non si debba mai parlare. Anzi, più se ne parla, più la si fa conoscere nella sua realtà di male mortale, di cancro dalle mille metastasi, è meglio è.
Voglio anche prevenire un’accusa che può essermi facilmente rivolta: “ma se sei tu il primo a introdurre personaggi mafiosi nei tuoi romanzi!” E’ vero, ci sono dei personaggi mafiosi perché io tento di ritrarre una realtà (naturalmente la mia realtà di narratore) nella quale non posso far finta che la mafia non esista, solo che ho l’accortezza di non eleggerla mai a protagonista, a figura di primo piano; insomma nei miei romanzi la mafia è sostanzialmente un disturbo, inevitabile, di fondo. E questo perché sono convinto che la letteratura, (così come il cinema e la televisione), anche quella di livello infimo, se tratta di mafia finisce col nobilitarla anche senza volerlo. Anche partendo dall’intenzione opposta. Leonardo Sciascia ha avuto il grandissimo merito di avere scritto il primo romanzo italiano che parlasse di mafia e ne fosse esplicitamente contro, “Il giorno della civetta”. Eppure non c’è lettore che non provi un moto di simpatia per il capomafia don Mariano Arena. Anzi, l’elencazione che questi fa delle categorie umane (uomini, sottuomini, ecc.) è entrata nell’uso comune. Credo perciò che a parlare di mafia debbono essere i verbali della polizia e dei carabinieri e i dispositivi delle sentenze dei giudici. E anche gli studiosi che, nei loro saggi, la trattano dai più diversi punti di vista.
Invece si rischia di far diventare un luogo comune l’assurda convinzione che la mafia sia identificabile con tutta la Sicilia e viceversa.
I mafiosi sono un’esigua minoranza che ha purtroppo potuto iniettare, a causa dell’ignavia, dell’indifferenza, della sottovalutazione da parte della stragrande maggioranza onesta dei siciliani, massicce dosi di sangue infetto in un corpo sano, vale a dire la cultura del sentire mafioso, che è un modo di tramutare i rapporti umani in connivenza, dando la prevalenza all’utile personale, all’omertà, alla difesa degli amici anche quando questi hanno torto, al paternalismo, al credere dovuto il non guadagnato, all’esasperato concetto di famiglia inteso come clan chiuso (chiuso nei due sensi: a chi vuole entrarvi, ma, soprattutto, a chi vuole uscirne).
In definitiva, i siciliani hanno patito la mafia come un’altra dominazione estranea, la quattordicesima mi pare, alla quale fino a un certo punto si son dovuti sottomettere obtorto collo, anche perché la mafia da sempre ha avuto stretti e più o meno clandestini rapporti con il potere politico, con il mondo industriale e imprenditoriale, e alla quale, da un certo momento in poi, hanno deciso di ribellarsi.
Tutti quelli che hanno istituzionalmente combattuto la mafia ci hanno sempre detto e ripetuto che l’azione di repressione avrebbe avuto un’utilità limitata se non fosse stata accompagnata da un cambiamento totale dell’atteggiamento dei siciliani nei riguardi della mafia. Una lucida presa di coscienza che portasse a fatti concreti e non a parole.
E’quello che sta avvenendo in questi giorni. La netta presa di posizione della Confindustria siciliana contro i propri iscritti che pagano il pizzo, non può essere considerato dai detrattori solo come un gesto dimostrativo. No, è l’affiorare in superficie, l’esplodere alla luce del sole di qualcosa che covava nel profondo e da tempo. E’ stato come un lento mutamento genetico che non si è espresso attraverso manifestazioni pubbliche ma che ha agito addirittura nel Dna, un processo che credo ormai irreversibilmente avviato proprio per queste sue caratteristiche. Alla notizia dell’arresto del capomafioso Lo Piccolo, un centinaio di cittadini è corso a manifestare la propria gioia per l’evento e si è sentita una donna gridare: viva la Polizia!
Non credete che questo sia un altro segno di mutamento?
Siamo perciò convinti che cada perfettamente a taglio questo inserto che vuole mostrare a tutti gli italiani l’immagine autentica dell’Isola che c’è, un’immagine troppo spesso offuscata da altre immagini di violenza e di morte. La realtà dell’Isola che c’è, è la realtà della Sicilia che produce, che s’inventa geniali iniziative imprenditoriali e industriali, che crea cooperative e nuovi posti di lavoro, che lotta contro tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo ed è determinata a vincere. Lo stesso insomma di quello che si fa in altre parti d’Italia. Noi vogliamo metterci al passo.
Attraverso questo inserto intendiamo insomma far conoscere chi siamo e cosa vogliamo, ma anche, per dirla con Montale, ciò che non siamo e ciò che non vogliamo.
Nel 1945 venne pubblicato a Siracusa (e ristampato da Sellerio nel 1996) un importante libretto, ad opera di un giovane insegnante siciliano, Sebastiano Aglianò. Il titolo emblematico era “Che cos’è questa Sicilia?”
Il lungo capitolo introduttivo terminava con questa parole che ci piace riportare in conclusione: “E’ infatti tempo che impariamo almeno a conoscerci, noi tutti cittadini discordi di questa discorde nazione italiana”.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su L'isola che c'è, inserto de Il Riformista, 1 dicembre 2007)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011