
Il medaglione
Il maresciallo
Antonio Brancato, comandante la Stazione dei Carabinieri di Belcolle,
cangiando il foglio del calendario, come faciva ogni matina appena trasuto nel
suo ufficio, vitti che era il ventisei di maggio, vale a dire che mancavano
quattro giorni al compleanno di Giacomina, la sua unica sorella, maritata a
Genova e matre di tre figli. Doviva provvidire subito, prima che qualche
facenna improvisa gli faciva passare la cosa di mente. Avvertì il piantone
che nisciva e che sarebbe tornato passata una mezzorata. Andò da Cosimo, il
tabaccaro e sciglì una delle cinco cartoline postali, leggermente ingiallute,
che da anni raffiguravano il
paisi da diverse angolature. A taliarlo in cartolina e dall’alto, come aviva
fatto il fotografo, Belcolle pariva un paìsi grazioso, da vacanza estiva: la
disposizione delle case, che non arrivavano a duecento, dava all’abitato una
forma di barca, con la prua stritta e fina verso i quasi duemila metri di
Pizzo Carbonara e la poppa chiatta e larga verso il lontanissimo mare di Cefalù,
una barca assurdamente arenata supra una montagna verde di boschi e di
pascoli. D’inverno però la situazione cangiava, la nivi ci mittiva nenti a
cummigliare, a seppellire case, arboli, strate sutta a un bianco uniforme,
mentre un vento gelido e crudele impoppava dalle Madonie per giorni e giorni.
Ma il paisi non si racchiudeva tutto in quelle casuzze fotografate nella
cartolina, si espandeva per chilometri attraverso rade abitazioni di viddrani,
pastori, boscaioli, sperse al limite dei boschi, sui costoni della montagna,
in qualche tratto di valle. Una volta era stato costretto, per effettuare un
arresto, ad acchianare fino a una casupola a Pizzo Stella e ancora arricordava
la jeep che non andava più né avanti né narrè, bloccata da un mare di nivi,
la lunga marcia tutta in salita, il friddo che spurtusava le ossa a malgrado
che il corpo era in movimento e faticava. Fortuna che i paisani erano pirsone
a posto, quiete, forse nanticchia troppo mutanghere tra di loro, ma si sa che
la genti di montagna è di scarsa parola, non ama dare cunfidenza agli
stranei. Curiosamente però con lui, che straneo lo era di certo, i belcollesi
parlavano, e come! E quella confidenza, della quale giustamente tra sé si
gloriava, se l’era guadagnata, come dire, sul campo. In cinco anni che si
trovava lì era arrinisciuto a sapiri quasi tutto di tutti, intervenendo in
questioni, liti, dispute che gli vinivano presentate in forma non ufficiale
per aviri un parere, un giudizio, un orientamento. “Marescià, vinissi a
mettiri ‘u bonu”… Mettere il buono: ossia dire la parola giusta,
pacificare, risolvere, appianare, fare in modo che la bilancia non penda
troppo da una parte o dall’altra. “Ecco perché si chiama Stazione!”- si
disse un giorno che nel suo ufficio erano trasute e nisciute, proprio come in
una stazione ferroviaria, una decina di persone per domandargli consigli,
pareri, istruzioni su come comportarsi. Scrisse la cartolina, l’impostò
nella buca allato alla tabaccheria, si diresse all'edicola. Papuzzo,
l’edicolante, aviva già pronto il quotidiano dell’isola che lui era
solito accattare. “Fammi vedere macari tutti i giornali che ti sono
arrivati”.
Papuzzo lo taliò strammato per l’insolita richiesta, ma non replicò.
Supra a uno dei quotidiani, il maresciallo attrovò quello che circava: una
fotografia, bastevolmente grande, del novo Presidente, Scalfaro, nominato il
giorno avanti. Tornato in ufficio, ritagliò la fotografia e la mise al posto
di quella di Cossiga, il precedente Presidente. Avanti che gli arrivava la
foto ufficiale, chissà quanto tempo sarebbe passato e mantenere la foto
scaduta non gli pareva cosa giusta. Era fatto accussì, un omo preciso al
quale piaciva che tutto stava al posto indovi doviva stare.
La matina appresso, passando davanti alla chiesa, notò il carro funebre e
due corone. S’informò e seppe che era morta per un improvviso attacco di
cuore, a sittant’anni passati, Marta Barbaro,una fimmina che lui mai aviva
accanosciuto di pirsona in quanto abitava, col marito Francesco inteso Ciccino,
in una di quelle casuzze foramano, irraggiungibili d’inverno e poco
praticate d’estate. Ciccino, che aviva una grossa mandria di pecore e quindi non se la passava tanto malo, non
scinniva quasi mai in paisi.
Chiuso e scorbutico, non aviva amici e il fatto che dal matrimonio non
erano vinuti figli aviva accentuato i lati certo non gradevoli del suo
carattere. A Belcolle aviva un cognato, Pietro, che si era maritato con
Gasparina, sorella di quattro anni più picciotta di lui, ed era l’unica
pirsona di tutto il paisi col quale scangiava qualche avara parola. Questo era
tutto quello che il maresciallo sapiva della coppia. Gli parse però giusto
aspittare sul sagrato la fine della cerimonia e quanno la cassa venne messa
supra il carro, andò a stringere la mano a Ciccino. E mentre notava che il
vidovo aviva l’occhi perfettamente asciutti, contemporaneamente liggì in
fondo a quell’occhi stessi una sorta di taliata d’armalo ferito, uno
stupito dolore come per aver dovuto patire una punizione incomprensibile. E si
rese macari conto che Ciccino, a malgrado che lui fosse in divisa, non l’aviva
manco raccanosciuto, gli aviva stretto meccanicamente la mano, la testa persa
altrove, darrè i suoi pinseri.
“Povirazzo!” - lo compatì il maresciallo mentre andava verso la
Stazione. Quella morte di sicuro viniva a sconvolgergli l’esistenza. Non si
passano più di quarant’anni, notte e giorno, ‘nzemmula a un’altra
pirsona e doppo, all’improviso, non si può restare soli nella solitudine di
una casa solitaria come se niente fosse capitato. Tutte le sue abitudini di
necessità sarebbero state stravolte, cangiate, aggiungendo sofferenza a
sofferenza, pirchì spesso le abitudini possono addivintare forza e conforto.
E il maresciallo, che era scapolo, l’accanosceva benissimo il valore delle
abitudini. In fondo, si spiava certe volte quanno pinsava alla sua vita, non
è vero che non ti sei voluto maritare perché avevi scanto di dover
rinunziare alle tue abitudini? E a questa domanda non dava mai risposta. Della
morte di Marta Barbaro ne risentì parlare doppo una simanata, mentre si
trovava nel salone di Pasqualino il varberi. Ogni quinnici giorni
immancabilmente il maresciallo si faciva dare da Pasqualino una ripassata ai
capelli: a parte il fatto che gli piaciva essere sempre in ordine (la varba se
la faciva tutte le matine col rasoio a mano, se era costretto a restare con la
varba longa si sentiva malato), il salone era una gran miniera di notizie.
Era giornalmente frequentato dal professor Lumia e dal geometra Albanese,
quasi ottantini, che passavano ore e ore a intrattenersi coi clienti di
Pasqualino e che, immancabilmente, erano sempre fra loro in totale disaccordo
su qualsiasi cosa. “La sa la novità, maresciallo?” - esordì il geometra
Albanese. “No. Quale novità?” “Due giorni appresso il funerale di Marta
Barbaro, la sorella di Ciccino, accompagnata dal marito, è andata a trovarlo
per vidiri come stava”. “Embè?” “Non li ha voluti ricevere. Non c’è
stato verso. Ha detto che non voli vidiri a nisciuno. Hanno parlato col
picciotto che bada alle pecore e macari lui ha detto che Ciccino gli da’
ordini attraverso la finestra mezza chiusa”. “Mischino!” - intervenne
Pasqualino - “Mi fa una pena!”. “Non riesce a elaborare il lutto” -
fece il professore Lumia che parlava sempre come un libro stampato. “E ti
credo!” - disse il geometra trovandosi una volta tanto d’accordo col
professore - “Marta è stata l’unica pirsona al mondo alla quale Ciccino
ha voluto tanticchia di bene!”
La signora Matranga era fimmina risoluta e di parola imperativa. Suo figlio
Marcuzzo, dodicino, assettato allato a lei, era vagnato di sudore. “Marescià,
Marcuzzo, questo figlio mè, è uno sdilinquente tali e quali a sò patre!
Ogni matina inveci di andari alla scola, sinni va a spasso campagne campagne e
non sente né prighere né vastonate! Io non ce la fazzo più, Marescià! Mi
facisse la carità, ci parlasse vossia”. Rientrava nei suoi compiti
istituzionali rimproverare uno scolaro che non aviva gana di studiare? Forse,
anzi certamente, no. Ma se si rifiutava, cosa avrebbe detto di lui in paisi la
signora Matranga a tutte le clienti del suo negozio di frutta e verdura? Parlò
a Marcuzzo, sempre più atterrito e sudatizzo, per una decina di minuti. Alla
fine il dodicino solennemente giurò di non fare più assenze e la signora
Matranga s’addichiarò soddisfatta. Smesso l’abito di sostituto pater
familias gli toccò d’indossare subito dopo quello di giudice di pace per
una facenna di confini tra la terra di Gaspano Mongitore e quella di Girlanno
Dibetta. Mettere d’accordo Mongitore e Dibetta, contadini di testa più dura
delle pietre che costituivano l'ottanta per cento delle loro terre, fu cosa
longa e laboriosa che però si concluse felicemente sia pure nella tarda
matinata. Verso le quattro del doppopranzo, del tutto inatteso, si vitti
spuntare in ufficio a don Michele Spampinato, da solo tre anni parroco del
paisi. “Maresciallo, vorrei premettere che la mia è una visita, come dire,
privata”. “Si accomodi” - disse il maresciallo andando a chiudere la
porta dell’ufficio “Mi dica”. “Lei sa che circa un mesetto fa è
deceduta la signora Marta Barbaro?” “Sì”. “Sa anche che da quel
giorno Ciccino, il vedovo, non vuole più vedere nessuno? Nemmeno la sorella
che pure è andata a trovarlo almeno tre volte senza essere mai riuscita a
entrare in casa?” “L’ho inteso dire”. “Bene. Stando così le cose ho
ritenuto mio dovere, stamattina presto, dopo la prima Messa, di andare da lui
per portargli una parola di conforto. Ci ho messo più di un’ora, in parte
col motorino e in parte a piedi, per raggiungere la casa. C’ero stato altre
volte per la Benedizione pasquale. E’ stato un viaggio inutile”. “Non le
ha aperto?” Il parrino si cataminò tanticchia a disagio sulla seggia. “Si
ricorda com’è la casa? E’ a un piano, in mezzo a un orto protetto da una
palizzata fatta di rami e con al centro un cancelletto. Io mi sono fermato
proprio lì e ho chiamato. Nessuno ha risposto, ma io ho continuato a
chiamare. Finalmente, quando non avevo più voce, la finestra del piano
superiore s’è aperta, ma Ciccino non si è affacciato. Sempre fermo al
cancelletto, gli ho detto che volevo parlargli. Per tutta risposta lui mi ha
mandato via in malo modo”. “Cosa intende per malo modo?” Il maresciallo
aviva avvertito una certa reticenza nelle parole del parrino e la cosa non gli
era piaciuta. Don Michele, sempre più a disagio, s’asciucò la fronte col
fazzoletto. “Ecco, maresciallo, ho fatto una premessa… se ne ricorda,
vero?… la mia è una visita privata… Non vorrei portare danno a un
povirazzo che…” “Don Michele, ho capito benissimo quello che lei vuole.
E per quanto mi è possibile… Però parli”. “Ha sparato”. “A lei?”
- spiò strammato il maresciallo. “A me no. Ha imbracciato un fucile da
caccia e ha sparato un colpo. Ma lei capisce, Ciccino non ci sta più tanto
con la testa, è armato, può rappresentare un pericolo per sé e per gli
altri”.
”Certo, certo”- fece ancora imparpagliato il maresciallo.
A quali grado di disperazione era arrivato Ciccino, accanosciuto da tutti
come omo non violento, per minacciare un parrino? Gli venne un dubbio. “Una
curiosità, don Michele. Quando andò da Barbaro, aveva la tonaca?” “No,
non ero vestito come mi vede oggi. Per comodità, mi ero messo i jeans e
maglione leggero a girocollo.
Uno che non lo sa, come fa a capire che si trova davanti a un parrino?”
“Avevate avuto modo di conoscervi prima?”
“L’ho intravisto in chiesa solo il giorno del funerale. Le volte che
sono stato a casa sua per la Benedizione pasquale ho trovato solo la
moglie”. “Lei, a Barbaro, gli disse chi era?” Il parrino ci pinsò
tanticchia. “Non credo di averne avuto il tempo”. “Un’ultima cosa.
E’ sicuro che ha voluto sparare in alto?” “Sicurissimo. Voleva solo
allontanarmi spaventandomi”. Appena il parrino niscì, il maresciallo chiamò
l’appuntato Colamonaci e gli spiò d’accertarsi se Barbaro Francesco, che
tiniva in casa un fucile da caccia, era in regola con la liggi. Abbastarono
una decina scarsa di minuti che l’appuntato tornò con la risposta: Barbaro
aviva le carte in regola. Aggiunse, a titolo d’informazione, che a lui,
Colamonaci, Barbaro Francesco arrisultava, per voce popolare, pirsona onesta e
degna di considerazione, macari se di carattere bastevolmente difficile. E
detto ciò, restò fermo davanti alla scrivania del suo superiore. Si era
evidentemente incuriosito per la domanda d’informazione sul permesso di
caccia e sperava che il maresciallo gliene spiegasse la ragione.
“Grazie, puoi andare” - gli disse invece Brancato. Aveva fatto
promissa al parrino di trattare la facenna in modo discreto e perciò non
poteva metterne a parte Colamonaci, non perché l’appuntato fosse
sparlittero, tutt’altro, ma meno sono le pirsone a conoscenza di una data
cosa e minore è il rischio che quella data cosa si sappia in giro. Che
fare,ora? Andare subito da Ciccino Barbaro e farsi consegnare il fucile? Taliò
il ralogio, si erano fatte le cinco passate. Potiva rimandare la visita alla
matina appresso? Vediamo come stanno le cose, si disse. Pericoloso per sé e
per gli altri, aviva definito don Michele a Ciccino. Ma se uno ha deciso di
essiri pericoloso per sé - continuò a ragionare il maresciallo - non è
nicissario che sia in possesso di un’arma qualsiasi, da foco o da taglio,
gli abbasta uno sdirrupo dintra al quale buttarsi o tanticchia di vileno per i
sorci. Quando sei arrivato al punto di volerti fare male, ogni cosa è bona a
farti male, persino la più semplici espressione della natura, un fungo
vilininoso, una bacca maligna. La massima fortuna che un omo può aviri nella
vita è quella di non arrivare mai a un punto di disperazione dal quale non
puoi tornare narrè. In quanto all’essiri pericoloso per gli altri, certo
che il possesso di un’arma può aviri un peso considerevole, può
rappresentare una tentazione irresistibile. Ma nel caso specifico Ciccino, a
stare alle parole del parrino, imbracciato il fucile aviva esploso un solo
colpo in aria. Certo, non si trattava di tentato omicidio, se avesse voluto
colpire a don Michele, avrebbe potuto farlo facilmente, il parrino s’attrovava
a pochi metri, completamente esposto. Una grave intimidazione era, questo sì.
Che si sarebbe potuta ripetere con qualcun altro che, ignaro, si spingeva fino
alla casa di Ciccino. Ma chi poteva essere questo “qualcun altro”? Ciccino
non aviva amici, l’unico col quale ogni tanto parlava era il cognato e perciò,
concluse il maresciallo, non c’era pericolo che per quella sera il vidovo
dispirato poteva ripetere il gesto sconsiderato. L’indomani a matino si
sarebbe fatto la scarpinata.
Niscì presto, la giornata promittiva sereno e a metà matinata il sole
avrebbe battuto forte, meglio evitare la calura. La trazzera era tutta un’acchianata
tra fossi e lastroni di pietra e a un certo momento la jeep non ce la fece più.
Non restava che continuare a pedi. Pigliò dalla machina il megafono che
si era portato appresso per parlamentare con Ciccino senza rischiare di
attrovarsi svociato e se lo mise a tracolla. Caminò per un quarto d’ora. Lo
scosceso viottolo da capre che stava percorrendo era circondato, a mano manca
e a mano dritta, da fitte macchie di piante serbaggie, a tratti formavano una
specie d’impenetrabile parete spinosa. Il silenzio era totale, si sarebbe
potuta sentire una serpe frusciare in mezzo all’erba. Respirò a funno
quell’aria frisca, bona, che odorava di resina. A un tratto, a mano dritta,
la parete verde s’interruppe, si aprì a una specie di minuscolo belvedere
sotto il quale, a strapiombo, si vidivano le ultime case del paìsi, quelle
che avivano la forma di una prua. Ristette tanticchia a taliare il panorama,
calcolò che gli ammancava un altro quarto d’ora scarso per arrivare alla
casa di Ciccino.
Ripigliò a caminare, la testa vascia pirchì era assorto a pinsare alle
parole giuste da usare per convincere quel povirazzo a consegnargli il fucile
e per persuaderlo, soprattutto, a non fare cose di danno verso se stesso.
Tutto ‘nzemmula si bloccò. Aveva percepito davanti a lui un movimento
fulmineo.
Non visto, non udito, ma proprio appena percepito attraverso quel senso
misterioso e armalisco che certe volte si risveglia nell’uomo e l’avverte
di un possibile pericolo. Isò l’occhi.
A pochi metri di distanza, il viottolo, deserto, faciva una curva. Ma
proprio vicino alla curva, a mano manca, la parete di arbusti stava finendo di
ricomporsi in un tremare di foglie e un vibrare di rami. Capì subito che
qualcuno che scendeva per il viottolo, fatta la curva, aveva visto lui che
saliva e si era immediatamente nascosto. Qualcuno che aveva scanto di
incontrare un carabiniere in divisa, qualcuno che non aveva nessuna gana di
farsi riconoscere, qualcuno che… L’istinto ebbe la meglio, senza manco
rendersene conto il maresciallo scattò, si tuffò dintra la macchia dalla
stissa parte dell’altro, con tutto il peso del suo corpo si aprì un varco,
una nicchia, mentre il punto dove s’attrovava un attimo prima veniva
spazzato da una raffica assordante. L’altro aviva usato un kalashnikov. E
che potiva fare lui con la sua arma d’ordinanza? Avvertì d’aviri la
fronte vagnata di sudore, ci passò la mano e s’addunò ch’era macchiata
di sangue. Le spine della pianta serbaggia gli avivano lacerato la faccia, le
mano e ora s’attaccavano alla giacca e ai pantaloni facendogli difficili i
movimenti. Tirò fora l’arma. Quindi isò il vrazzo e sparò un colpo in
aria gridando: “Arrenditi! Sono il maresciallo”… Un’altra raffica,
questa volta pericolosamente vicina, gli troncò la frase. E, assieme alla
frase, troncò macari alcuni rametti che quasi toccavano la sua testa.
“Questo m’ammazza quando vuole” - pensò il maresciallo. La posizione
nella quale si trovava era troppo pericolosa, abbisognava assolutamente
mettersi tanticchia più al coperto.Ma per ottenere questo risultato era
necessario che l’avversario fosse costretto a cangiare a sua volta di posto.
Ma come fare? Allora gli venne in mente che aviva con sé il megafono. Se lo
portò alla bocca, inspirò profondamente, parlò. “Colamonaci!”…
”onaci… onaci”… ripetè l’eco. “E’ qui davanti a me! L’abbiamo
preso! Venite avanti da sinistra! Tortorici!” … ”rici… rici”…
ripetè l’eco . “Voi venite da destra! L’abbiamo circondato!” Allora
vitti l’omo sbucare come una lepre, percorrere il viottolo, sparire oltre la
curva.
Niscì fora dalla macchia macari lui - la tasca mancina, impigliata tra i
rami spinosi, si lacerò – si gettò all’inseguimento. Prima della curva
si fermò col sciato grosso e col batticore che gli impedivano di sentiri se
l’omo con il mitra continuava a scappare o se se ne stava immobile a due
passi da lui ad aspettare che compariva per astutarlo con una raffica precisa.
Arriniscì a calmarsi quel tanto che bastava per appizzare le orecchie.
Nessuna rumorata, solo un cane abbaiava lontano. Col busto calato in avanti
fece due passi e si trovò alla fine della curva.
Sporgì cautamente la testa. Davanti a lui il paesaggio cangiò di colpo.
Il viottolo continuava, senza pareti di piante serbaggie, visibilissimo, per
un lungo tratto in mezzo a una sorta di grande pianoro coltivato a pascolo,
dopo ripigliava a inerpicarsi sulla montagna. Non c’era traccia dell’omo
in fuga. Evidentemente aviva addeciso di non seguire più il viottolo, forse
pinsava di andare a sbattere contro gli altri carabinieri chiamati dal
maresciallo. Che non esistevano, certo, ma lui non lo sapiva. A mano dritta,
la riconobbe subito, c’era la casa di Ciccino circondata dall’orto
protetto dalla bassa palizzata. Porta chiusa, finestre sbarrate, la casa
pariva disabitata. In mezzo all'orto sorgeva un pozzo con torno torno un
muretto alto tanticchia di più di un metro. Il maresciallo non ebbe dubbio.
L’omo non aviva che due posti dove starsene ammucciato: o darrè la casa di
Ciccino ad aspittare che venisse allo scoperto o s’attrovava ancora più
vicino, rannicchiato dietro il muretto del pozzo, pronto a saltare in piedi
come una molla e a sparare. Ci pinsò sopra tanticchia e arrivò alla
conclusione che la prima ipotesi era sbagliata: l’omo non aviva avuto il
tempo niccissario ad arrivare fino a darrè la casa, sicuramente però aviva
avuto il tempo di saltare la palizzata e rifugiarsi dietro il muretto del
pozzo. L'unica era fare una prova. Una prova che però viniva a costare una
cartuccia e lui, in proposito, non è che era particolarmente ricco. Un
caricatore e basta. Ma ne valeva la pena. Puntò, sparò contro il pozzo, si
gettò pancia a terra. La risposta arrivò immediata, la raffica potò una
para d’arbusti. Ma il maresciallo aviva saputo accussì quello che
voleva:l’omo era darrè il muretto. Sempre restando pancia a terra, si mosse
in avanti facendo forza sui gomiti e, strisciando come una serpe, arriniscì a
infilare la testa tra i rami di un arbusto e a taliare.La posizione nella
quale si trovava era ottima, da lì arrinisciva a tenere sotto controllo il
pozzo. Vidiva macari la porta inserrata della casa. E ora, che fare? La
situazione minacciava di addivintare sempre più pericolosa via via che il
tempo passava. L’omo ben presto si sarebbe fatto pirsuaso che i rinforzi non
sarebbero mai arrivati e allora potiva succedere di tutto. Conveniva
parlamentare. Portò il megafono alla bocca. Ma adoperò, per quanto
possibile, un tono basso e convincente, quasi sussurrato.Tanto l’omo lo
sentiva lo stesso, s’attrovava a una ventina di metri di distanza. “Me lo
spieghi che vuoi fare? Da dove sei non ti puoi muovere, lo capisci? Arrenditi,
getta il mitra”. Un’altra raffica, istintivamente il maresciallo incassò
la testa tra le spalle. Quando taliò nuovamente, vitti, con stupore, che la
porta della casa di Ciccino era mezza aperta. Che veniva a significare? La
porta si raprì ancora tanticchia, lentamente, per non fare rumorata.
Allora nella testa del maresciallo ci fu come un lampo di luce.
Aviva capito tutto. Doviva assolutamente fare in modo d’attirare su di sé
tutta l’attenzione dell’omo. Sparò un colpo, un secondo, un terzo. Dal
pozzo venne una raffica rabbiosa. L’ultima, perché Ciccino con due balzi
era arrivato alle spalle dell’omo, gli aviva piantato alla nuca il fucile da
caccia, gli stava dicendo qualche cosa che non si capì. L’omo si susì,
gettò il mitra, aspittò con le mani alzate che arrivasse di corsa il
maresciallo per ammanettarlo.
Ma intanto Ciccino,senza manco dire una parola, era rientrato in casa e
aviva nuovamente inserrato la porta.
L'omo catturato arrisultò essere un pericoloso latitante che nessuno, da
cinque anni, arrinisciva a pigliare. Non era di quelle parti, evidentemente
era stato sorpreso in marcia di trasferimento. Nei tre giorni che vennero
appresso, il maresciallo Brancato ebbe continuamente a che fare con due grossi
problemi. Il primo era quello di non dare conto ai giornalisti che si erano
precipitati a Belcolle per intervistarlo, e che erano peggio delle mosche
cavalline, il secondo era di tenere fora dalla partita a Ciccino, “lo
sconosciuto pastore” - come avivano scritto su un giornale - “che aveva
coraggiosamente collaborato alla cattura”. Il maresciallo si arrisolse a
parlarne col Capitano Ventura, che era omo che capiva le situazioni, e gli
spiegò chi era Ciccino e quale momento difficile stava attraversando. Se si
vidiva davanti a omini in divisa, capace che reagiva in malo modo. La parlata
s’arrivelò la mossa giusta. A farla breve, passati quattro giorni, non
c’era un cane che s’arricordasse più di tutta la facenna. Fatta eccezione
dell’appuntato Colamonaci che una sera gli sparò una domanda a tradimento.
“Mi levi una curiosità, maresciallo, ma quel fucile da caccia che Ciccino
puntò alla nuca del latitante era quello stesso di cui lei mi domandò
se”… “Sì, lo stesso” - fece brusco il maresciallo tagliandolo
malamente. E le curiosità di Colamonaci finirono lì. Finalmente una matina
che alla stazione tutto pariva essiri tranquillo il maresciallo ripigliò la
jeep e si diresse verso la casa di Ciccino. Ma stavolta la giornata minazzava
pioggia, nuvole nivure carriche d’acqua arrancavano verso il paìsi. Macari
stavolta il maresciallo si fermò al belvedere durante l'acchianata a piedi e
si domandò se questo paesaggio scuroso prossimo alla tempesta non era più
bello di quello aperto e sereno dei giorni di sole. Quando finalmente arrivò
al cancelletto chiuso si fermò e chiamò a gran voce: “Ciccino! Posso
trasire? Il maresciallo Brancato sono!” La finestra del piano superiore era
aperta, le imposte sbatacchiavano per il vento friddo. Non s’affacciò
nessuno. “Ciccino! Venni per ringraziarti. Un minuto solo e me ne vado”.
Manco stavolta ci fu risposta. Era in casa o no? Comunque, sarebbe stato un
gesto sbagliato aprire il cancelletto e andare a tuppiare alla porta. Doveva
essere Ciccino, di sua volontà, ad accoglierlo. Improvvisa la pioggia
principiò a cadiri. Stizze pesanti, larghe, rade, di quelle che preludono a
un acquazzone violento, da assammarare chi è allo scoperto. “Ciccino! Sta
piovendo! Fammi trasire!”La porta si raprì, misericordiosa. E il
maresciallo la taliò raprirsi con gratitudine, come l’altra volta che
pioveva macari, solo che piovevano proiettili. Ciccino non parlò, con la mano
gli fece cenno di venire avanti, di viniri in casa. Il maresciallo trasì e
Ciccino richiuse la porta.La cammara era quasi allo scuro, scarsa era la
luminosità che trasiva dall’unica finestra. Era una cammara di mangiare,
una parete occupata dalla cucina, a mano manca una scala di legno portava al
piano di sopra, dove c’era la cammara di dormiri. La stanza parse al
maresciallo abbastanza pulita e ordinata. Ciccino, a quanto si arrinisciva a
vidiri di lui, era invece assai trascurato, la varba longa, i capelli macari,
il vistito stazzonato. “Posso assittarmi?”
Ciccino rispose indicando una seggia di paglia. Il maresciallo s’accomodò,
Ciccino pigliò un’altra seggia e s’assittò davanti a lui. Stettero
accussì per un pezzo, in silenzio. Poi Ciccino si susì, andò alla cridenza
che c’era in un angolo, tornò con due bicchieri e un fiasco di vino, riempì
i bicchieri, ne porse uno al maresciallo.
Prima di portarli alla bocca, li isarono taliandosi negli occhi. Finirono
di bere con comodo, sempre senza scangiarsi una parola. Fora, intanto,
diluviava.
Il maresciallo capì che attoccava a lui parlare per primo, se voliva
capirci qualcosa del comportamento di Ciccino dopo la morte della mogliere.
Abbisognava approfittare del momento che pareva bono, ma doviva pigliarla alla
larga e quindi addentrarsi con estrema quatela. “Oltre che a ringraziarti,
sono venuto a farti, macari se in ritardo, le condoglianze. So che hai
sofferto, e continui a soffrire, come un cane. Ma sei un omo di sperienza e
perciò devi farti una ragione”. “Pirchì devo farmi una ragione?” La
domanda strammò il maresciallo. Era molto semplice e lineare, la domanda, e
appunto per questo di difficilissima risposta.
Soprattutto se fatta da uno come Ciccino che non aviva figli e non aviva
avuto altri affetti al di fuori di quello per la mogliere scomparsa. La
risposta però gli acchianò alle labbra spontanea, quasi non suggerita dal
cervello. “Perché accussì è la vita. Pinsavi che Marta campava in eterno?
Lo sai che appena nasci, ti cominci a portare sulle spalle la tua morte”.
“Ma io non parlavo della morte”.
Matre santa, ma che voliva dire quell’omo? Il maresciallo aviva necessità
di tagliarlo nell’occhi, ma nella cammara c’era troppo scuro. Il temporale
non accennava a calmarsi. Senza spiare permesso, si susì, addrumò la luce,
tornò ad assittarsi. Ciccino non si era cataminato. Ora il maresciallo lo
potiva esaminare bene. Stava immobile sulla seggia, le mano posate supra le
ginocchia, la faccia che pariva tagliata nel legno. Tiniva l’occhi stritti a
fessura, pirchì accussì circava d’impedire alle lagrime di nesciri fora.
Era la statua vivente di un dolore insopportabile che si irradiava torno torno
fino a formare una specie di corazza invisibile ma impenetrabile. E fu allora
che il maresciallo ebbe la certezza che per tutti i giorni che erano seguiti
alla morte di Marta, Ciccino aviva passato gran parte delle giornate accussì,
immobile sopra una seggia, sia che fora ci fosse luce sia che ci fosse scuro,
a pinsare e a ripensare un’idea fissa, una sola, che non riguardava la
morte. Ma allora che riguardava? Si fece pirsuaso che qualsiasi parola sarebbe
stata sbagliata. Per vincere la sottile angoscia che l’aviva pigliato, il
maresciallo si versò due dita di vino, lo bevve di colpo. Davanti a lui, con
un movimento lentissimo, Ciccino accennò a susirisi. Rigido, pariva un pupo
di legno che per miracolo pigliava vita. Quanno fu addritta, si mosse ancora
incerto verso la scala che portava al piano di sopra, l’acchianò con fatica
gradino appresso gradino,scomparse. Il maresciallo lo sentì caminare
tanticchia, appresso Ciccino ricomparse, s’assittò nuovamente al posto di
prima, posò sul tavolo quello che era andato a pigliare. Un medaglione
sicuramente dell’ottocento, di buona fattura macari se non prezioso, di un
cinque centimetri massimo di diametro, che si portava al collo con un nastro
di velluto nero. Ciccino lo fece scivolare tanticchia verso il maresciallo che
potè taliarlo più da vicino. Sul tondo smaltato era stata pittata una
Crocefissione, i colori si mantenevano ancora brillanti. “Bello” - fece il
maresciallo. “L’accattai a Marta tri misi dopo che ci eravamo maritati.
Lei se lo mise al collo, lo tiniva sutta tutti i vistiti, sulla pelle, e non
se lo livò più”. Allungò una mano, strinse nel pugno il medaglione.
Ripigliò a parlare con fatica, ogni parola gli pisava. “Questo medaglione
si rapre in due, come la cassa di un ralogio. Io, quanno l’arrigalai a
Marta, mi fici fare una fotografia della mè faccia, la ritagliai e ce
l’infilai. Quanno Marta morì, mi venne gana di taliare dintra al midaglione
la mè faccia di quarantatrì anni fa. Lo raprii prima che la mittissero nel
tabuto”. Con l’unghia del pollice aprì il medaglione, lo porse al
maresciallo.
“Taliasse vossia”. Il maresciallo taliò la foto.
Quella, macari a tener conto delle alterazioni dovute agli anni, non era
certamente la faccia di Ciccino.
Era invece la faccia coi baffetti sottili di un picciotto di una vintina
d’anni, simpatico, sorridente. Aviva un’ariata spavalda d’altri tempi.
Teneva il colletto della cammisa bianca aperto e rivoltato sul collo della
giacchetta, alla sportiva, come si usava verso gli anni ’40, e macari i
capelli erano dell’epoca, pittinati lisci lisci e impiccicati sulla testa da
una spessa passata di brillantina. Il picciotto portava inoltre un piccolo
distintivo all’occhiello, impossibile capire di cosa si trattava, ma dalla
forma al maresciallo venne in mente che potiva essiri il distintivo fascista
che allora era obbligatorio mettere in mostra. La foto risaliva a quegli anni,
non c’era dubbio. “Lo conosci?” “Mai visto”. “Sicuro? Vedi,
Ciccino, questa fotografia è stata fatta di certo verso il 1940 e
quindi…” “E quindi io non c’ero, allura, in paisi”. Il maresciallo
con l’unghia tirò fora la piccola foto in parte sbiadita, la girò, darrè
non c’era scritto nenti, la rimise a posto. “E dov’eri?” - spiò. “A
fari la guerra” - disse Ciccino.“ Quanti anni avevi?” “Nel ’40?
Avivo vintidù anni, ma ero sutta all’armi da quanno ni aviva diciannovi.
Appena scoppiò la guerra, mi spedirono al fronti. Prima in Francia, appresso
in Libia”. “Quando sei tornato a Belcolle?” “Tardo. Gli inglisi mi
pigliaro prigionero e mi portaro in India. Tornai che era il 1947. Avivo
vintinovi anni”. “Eri l’unico figlio mascolo?” “No. C’era me frati
Antonio, ma lo mannarono in Russia e non tornò più. A farla brevi, doppo
tanticchia che ero arrivato, mè patri e mè matri accomenzarono a parlare di
matrimonio. Mi dicivano, ed era veru, che io oramà stavo addivintanno troppo
vecchiu per maritarmi”. “E tu?” “Io ero ancora troppo strammato,
troppo confuso per tutto quello che avivo visto e avivo passato. La guerra, i
compagni morti, la prigionia, la fame. Non arrinisciva a rimettermi”. “Che
facevi?” “Caminavo. Mi sono fatto a pedi tutte le muntagne torno torno.
Appresso m’addecisi. Avivo posato l’occhi supra a una picciotta, Marta
Bianco, che aviva tri anni meno di mia e che ci accanoscevamo da picciriddi.
Mentre ero in prigionia, qualche volta ci pinsai a Marta. Mi spiavo se aviva
trovato un partito bono, se aviva figli. Doppo che tornai seppi da mè soro
Gasparina che Marta non solo non si era maritata, ma non aviva avuto manco
ziti. Era come se voliva aspittarmi. Ci maritammo nel 1950. Figli non ne sono
vinuti. Abbiamo campato per quarantatrì anni d’amuri e d’accordo. Non ci
siamo mai lassati. Non c’è stata una notti che non abbiamo dormito
‘nzemmula. Una matina che non abbiamo rapruto l’occhi ‘nzemmula. E ora
sta bella surprisa. Vinissi con mia”. Si susì a fatica, principiò ad
acchianare la scala. Il maresciallo lo seguì. Nella cammara di sopra il letto
matrimoniale era in ordine, cummigliato da una coperta. Allato c’era invece
una brandina con il linzolo stazzonato che strisciava ‘n terra, il cuscino
era addivintato giallognolo. “Da quanno Marta è morta, non arrinescio più
a dormire solo nel letto granni” - fece Ciccino con la voce che gli si
spezzava. “Ragioniamo” - principiò il maresciallo. “Che voli
ragionare?” “Stammi a sentire. Quella foto risale al ’40. Quindi la
storia tra Marta e questo picciotto, se c’è stata, è capitata prima, del
vostro matrimonio”. “D’accordo con vossia” - disse fermo Ciccino -
“ma nella testa di mè mogliere questa storia non è finita mai. Il
medaglione lo dimostra. E io sto niscenno pazzo. Devo almeno sapiri chi è”.
"E quando l’hai saputo, che te ne viene?”
“Non lo saccio. Ma accanoscenno chi era, come si chiamava, che faciva,
posso forse capiri pirchì Marta gli ha voluto tanto beni, pirchì l’ha
sempre pinsato per tutti i quarantatrì anni del nostro matrimonio. E forsi
posso riuscire alla fine a capacitarmi, a farmi una ragione”. Il temporale
si stava allontanando. Fu allora che l’altro temporale, quello che Ciccino
era riuscito fino a quel momento a dominare, esplose in un pianto dirotto.
L’omo mise le vrazza sul tavolo,vi appoggiò la testa, lasciò che il
suo corpo fosse sconvolto dai singhiozzi mentre un lamento come di vestia
ferita gli nisciva dalle labbra. “Sfogati, sfogati” - gli disse il
maresciallo. E per pudore scinnì la scala, andò alla porta, si mise a
taliare fora. La pioggia aviva lavato arboli, piante, pietre, il paesaggio
delle montagne vicine sbrilluccicava di colori, pariva che era stato finito di
pittare in quel momento. L’aria era tanto pulita e frisca da essiri
frizzante. Il maresciallo respirò a fondo, come a volersi puliziare del
dolore, della disperazione che aviva respirato dintra la cammara di Ciccino.
Ne sentì la voce, vicinissima. “Mi aiutasse, pi carità”.
Si voltò. Ciccino era arrivato alle sue spalle con la faccia ancora
rigata dalle lagrime, con l’occhi ancora lucidi di pianto. “Mi aiutasse.
Vossia lo può”. “E come, Ciccino?” “Tinisse il medaglione”. Lo
porse al maresciallo che automaticamente lo pigliò in mano. “Che me ne
faccio?” “C’è la fotografia. Vossia può informarsi in paìsi, fari
domande… Vossia può arrinesciri a sapiri di chi è quella faccia…
Maresciallo, a vossia tutti lo stimano e l’arrispettano, capace che ci
dicono cose che a mia non me le vogliono fari sapiri…” “E’ passato
troppo tempo, Ciccì”. “E vossia ci pruvasse. E se non attrova nenti,
pacienza, veni a dire che il destino voli accussì, farmi moriri dispirato”.
“E va bene, ci provo. Dammi una settimana di tempo” - fece il maresciallo
intascando con un sospiro il medaglione - “Ma tu, mi raccomando, cerca nel
frattempo di non fare fesserie. Mi sono spiegato?” “Sissi. Grazii”.
Quanno arrivò all’inizio della curva del viottolo, che per la pioggia si
era cangiato in un ammasso di fango scivoloso, si voltò. Ciccino era ancora
sulla porta che lo taliava allontanarsi. Ma chi glielo aviva fatto fare a
gettarsi a testa sotto in quell’impresa? Se lo spiò arraggiato con sé
stesso mentre scinniva lungo la trazzera con passetti da mezzo paralitico per
evitare il rischio di sciddricare e allordarsi di fanghiglia. Come mai si era
lasciato contagiare dalla pazzia di quell’omo? Sì, era inutile negarlo o
adoperare altre parole: si trattava di una pazzia pura e semplice. Ciccino
aviva detto che a lui la faccia di quel picciotto non era nota. Dunque doviva
trattarsi di qualcuno, un forestiero, arrivato a Belcolle nel 1940, o negli
anni immediatamente successivi, e che nel 1947, data del rientro di Ciccino,
era già andato via. Un soldato? Ma durante la guerra, a stare a quanto aviva
appreso dai paisani, a Belcolle non c’erano stati presidii militari. Anzi, a
dirla tutta, la guerra si era scordata di Belcolle, non l’aviva mai voluta
pigliare in considerazione. Tanto che, sempre a dire dei paisani, in quegli
anni terribili Belcolle era stato un posto accussì sicuro che molta gente dai
paesi più martellati dai bombardamenti si era trasferita lì. Un momento!
Forse quel picciotto era uno sfollato.Qualcuno che era stato sì a Belcolle,
ma per poco tempo. Come dire un fantasma. E come si doveva procedere per
arrivare all’identificazione di un fantasma?
Nei giorni che vennero il maresciallo, a malgrado dei suoi quotidiani
impegni, s’applicò alla promissa fatta a quel poviro omo dispirato. La
prima cosa che fece fu di andare a trovare a Gasparina, la soro di Ciccino,
che stava assà in pena per il fratello. Gasparina gli disse che lei e Marta
erano coetanee e amiche, che da picciotte passavano praticamente le giornate
insieme e che si facivano le confidenze. Non potiva che confermare quello che
quarant’anni avanti aviva ditto al fratello tornato dalla prigionia: Marta
ne aviva avuti appresso di picciotti che avrebbero voluto farsi ziti con lei,
ma lei non si era mai messa con nessuno, manco per scherzo o passatempo. Seria
e riservata, non dava conto. E se avesse avuto una storia d’amore
clandestina per gli altri del paìsi che ragione aviva per ammucciarla macari
a lei, allora semplicemente sua amica del cuore e non ancora cognata? Mostrò
la foto levata dal medaglione al professor Galluzzo che era un esperto di
fotografia e aviva pubblicato un libro sulla storia di Belcolle. Il professore
non riconobbe il picciotto, disse però che a suo parere quella faccia era un
particolare ritagliato da una foto più grande che forse ritraeva un gruppo di
ragazzi durante una gita o una festicciola. “Sì, qualche gita o qualche
festicciola la facevamo” - confermò Gasparina - “Ma sempre con cugini,
parenti o amici stritti. Certe volte, ma raro, c’era qualchi picciotto
forasteri. Ma questa faccia non me la ricordo”. Tra i clienti anziani di
Pasqualino il varberi la piccola foto passò di mano in mano e il risultato fu
sempre l’istisso: “No, non l’ho mai visto”. Solo il geometra Albanese
s’addimostrò meno sicuro degli altri. “Questa faccia credo di averla
vista, ma tanto tempo fa… Verso il ’40 o qualche anno dopo, dice? Sì, è
possibile, il paìsi era pieno di sfollati, i più picciotti però facivano i
pendolari… di giorno andavano a travagliare, la sira tornavano a Belcolle
per dormiri in pace, senza bombardamenti. E c’era macari chi viniva a
Belcolle a trovare la famiglia sfollata il sabato doppopranzo e sinni
ripartiva lunedì matina presto. Può darsi che sia in errore, ma questa
faccia mi pare d’avirla vista”. Troppo poco. E questo poco fu tutto quello
che arriniscì a ottenere dopo una simanata di domande a vacante. Ma come
faciva il giorno appresso a presentarsi a Ciccino, restituirgli il medaglione
e dire che non potiva farci nenti di nenti? Quella sira, sutta la doccia prima
di andarsi a corcare, notò che il rame del piccolo Crocefisso che gli aviva
arrigalato trent’anni avanti sua matre e che lui portava sempre al collo si
era annerito e qualche minuscolo tratto della catenella si era macari come
ossidato.
“Lo devo portare a puliziare”- pinsò. E quel pinsero esplose come un
lampo nella sua testa. Nudo com’era, s’apprecipitò a taliare il
medaglione che aviva messo nel cassetto del comodino. Sbrilluccicava.
Evidentemente era stato ripulito da poco. E l’indomani a matina s’appresentò
dal signor Cusumano, un sittantino che da quarant’anni era l’unico orafo
del paìsi. “Sì, certo. Non più di due anni fa la povira Marta venne da me
per farsi puliziare il medaglione, di dintra e di fora”. “Quindi lei lo
aprì?” “Naturale, come facivo a puliziarlo di dintra senza raprirlo?”
“E dentro c’era una foto?” “Sissignore. La levai e dopo la rimisi a
posto”. “Si ricorda se era questa?” - spiò il maresciallo pigliandola
dalla tasca e mostrandola all’orafo.
Cusumano la taliò attentamente e rispose. Allora il maresciallo capì
d’aviri trovato l’unica possibile soluzione del problema. S’assittò e
disse: “Lei mi deve fare un grandissimo favore”.
Il signor Cusumano era un gran galantomo. Chiamato al telefono il nipote e
fattosi sostituire da lui in negozio, una mezz’orata dopo era sulla jeep dei
carabineri. L’ultimo tratto di strata che dovettero farsi a pedi servì al
maresciallo e a Cusumano per pisare le parole che dovivano adoperare con
Ciccino. La casa aviva porta e finestre inserrate, come al solito, mentre
l’orto appariva sempre più abbannunato. Il maresciallo si fermò davanti al
cancelletto della palizzata che era accostato e chiamò: “Ciccino! Io sono!
Vengo con un amico!” La porta si raprì subito, quasi che Ciccino non
aspittasse altro che quella chiamata. L’omo apparse sulla soglia, taliò a
longo l’orafo, sospettoso, ma dopo si persuase e si fece da parte. “Trasite”.
La giornata era chiara, senza una nuvola, e perciò nella cammara c’era più
luce dell’altra volta. “Assittatevi” - disse Ciccino. Andò a pigliare
il fiasco e tre bicchieri. Versò. Le mani gli tremavano, tradivano la sua
tensione, la bruciante attesa di ciò che gli avrebbero rivelato i due òmini,
ma non fece domande. “Questo signore che ti ho portato” - attaccò il
maresciallo - “è l’orafo del paìsi, si chiama…” “Lo conosco” -
interruppe Ciccino. “Meglio accussì. Dunque, circa due anni fa, la povera
signora Marta gli portò nel negozio il medaglione per farlo puliziare di
dintra e di fora. Te l’aveva detto?” “Me lo disse” - fece Ciccino.
“E ora è meglio che parla il signor Cusumano” - disse il maresciallo.
“Per puliziarlo di dintra” - principiò l’orefice taliando a Ciccino -
“levai la vostra fotografia e la posai sul banco. Mentre travagliavo, la
bottiglietta con l’acido si rovesciò e l’abbrusciò. Non mi parse una
cosa grave. Ritagliai da un’altra foto la faccia di un amico che avevo prima
di trasferirmi a Belcolle e l’infilai nel medaglione. Quando la signora
Marta sarebbe passata a ritirarlo, l’avrei avvertita della sostituzione. Però
a ritirare il medaglione venne vostro cognato e per disgrazia nel negozio in
quel momento c’era mio nipote che non sapeva niente della sostituzione.
Dopo, la cosa mi passò di mente. Ecco, questo è quanto. Ed è la pura e
semplice verità”. Ora Ciccino li taliava fisso e pariva un pugile sonato.
L’occhi sbarracati, la bocca mezza aperta, ogni tanto scoteva la testa come
per scrollare da sé quelle parole che l’avivano colpito come pugni. Il
maresciallo posò sul tavolo il medaglione aperto, dintra non c’era nessuna
foto. “Ora ci puoi rimettere la tua” - disse. Ciccino pigliò il
medaglione, lo strinse, lo baciò. E poi, all’improvviso, si mise a piangere
in silenzio.
Ma era un pianto liberatorio, erano lagrime di felicità. Il maresciallo
fece un gesto all’orafo. Si susirono e niscero dalla casa in silenzio. Solo
dopo la curva del viottolo il maresciallo parlò. “Grazie” - disse
semplicemente - “Lei è un omo generoso”. “Ma ci avrà creduto alla
storia dell’acido e della foto sostituita?” - spiò Cusumano dubitoso.
“Stia tranquillo. Ci ha creduto perché voleva crederci. D’altra parte la
storia che abbiamo inventato era semplice e plausibilissima ed è servita a
ridare la pace a quel poviro disgraziato”. “Ma non sapremo mai chi era
quel picciotto di cui Marta teneva la foto”. “E che importanza ha,
ormai?” Importante era stato certamente per Marta, ma era morta e si era
portata appresso il suo segreto, la sua storia. Sacrilego e crudele
scoperchiare le tombe per pura curiosità. Il maresciallo respirò a fondo
l’aria fine.
“E’
proprio una splendida giornata” - disse.
Andrea Camilleri
Racconto pubblicato sul
Calendario 2005 dell'Arma dei Carabinieri e poi
in volume da Mondadori.
Cliccare qui per un reportage sulla
presentazione del Calendario (Scuola Ufficiali Carabinieri, Roma, 9/11/2004)

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